Quasimodo
fonte: fareletteratura.it

Dal 13 ottobre scorso è in commercio, tra gli “Oscar baobab moderni” della casa editrice Mondadori, un volume contenente l’intera produzione lirica di una delle tre “corone” poetiche del ‘900: Salvatore Quasimodo

L’opera raccoglie le variegate forme dell’imperitura poesia del Premio Nobel: dai versi giovanili a quelli più maturi, le traduzioni dei Lirici Greci, le poesie disperse o non ripubblicate, i testi e le testimonianze inedite. Attraverso un percorso che va dall’anima al corpo, dalla realtà al sogno, dalla parola al senso, la raccolta si propone ai più appassionati e ai meno formati in merito di offrire una panoramica completa sui percorsi della poesia ermetica e non, dell’uomo pubblico e privato e della Storia novecentesca in cui si dipanava l’animo del poeta. Insomma, una biografia poetica arricchita da apparati di commento che forniscono nuove interpretazioni e che vanno a corroborare l’idea di una poesia sempre nuova e mai vinta dall’usura del tempo. Il volume, con introduzione di Gilberto Finzi, è nato grazie alla dedizione di Carlangelo Mauro e alla collaborazione di Alessandro Quasimodo, figlio del poeta.

Quasimodo
La copertina del volume Salvatore Quasimodo. Tutte le poesie.
Fonte immagine: www.oscarmondadori.it

Abbiamo incontrato Alessandro per conoscere più da vicino chi era suo padre e lo ringraziamo per la disponibilità e gentilezza con cui si è offerto di condividere i suoi preziosi ricordi e altrettante riflessioni.

Chi era Salvatore Quasimodo? Che uomo e che poeta è stato?

«La copertina dell’edizione Mondadori è molto eloquente. Ho proposto io il fico d’india perché volevo evitare la solita fotografia che è banale. Quest’immagine è molto più corrispondente. Mio padre era come un fico d’India. Se qualcuno incautamente lo avvicinava gli restavano le spine nelle mani, ma se riusciva a entrare dentro al frutto era dolce. Ogni volta bisognava ricominciare da capo perché la dolcezza non era solo nel frutto. Dato il suo lavoro – insegnava al conservatorio, scriveva critiche teatrali, componeva e traduceva – era un po’ latitante. Era una persona molto buona e disponibile con gli altri, un po’ meno nel privato. Era una persona difficile da coinvolgere. L’ho coinvolto una volta, quando un insegnante in terza media mi chiese di comporre un sonetto sul Natale. Sono andato a casa con questo problema, tra i tanti perché ero già sotto i riflettori. Chi diceva che andavo bene perché c’era mio padre e chi diceva che andavo male perché ero un perfetto idiota come tutte le persone figlie di persone troppo intelligenti. Quella volta gli chiesi aiuto e lui mi disse: “mettiti lì e vedi cosa vuoi dire in questa poesia, poi vediamo”, ma in Sicilia quando diciamo “poi vediamo” vuol dire che non se ne fa nulla. Alla sera gli dissi che il giorno dopo non sarei andato a scuola perché non avevo fatto la poesia. A quel punto, all’alba della mezzanotte, si mise accanto a me e dal mio compito ha ricavato la poesia “Natale”. Lui provava a spiegarmi la metrica, ma io non riuscivo a capire perché avevo sonno.»

Come è stato essere un figlio d’arte?

«Tra padre e madre sono stato cresciuto a pane e poesia, pane e musica, pane e danza. Il cognome un po’ mi è pesato, perché tutti pretendevano qualcosa di particolare. Già in terza media avevo una bella voce e mi facevano  leggere sempre “I Promessi Sposi”. Ero nell’occhio del ciclone, diciamo. Con mamma, che era una danzatrice, avevo un rapporto bellissimo perché con uno sguardo capiva tutto, il mio stato d’animo. Se c’era una cosa che mi indisponeva e mi faceva chiudere nel silenzio era la domanda: “com’è andata oggi a scuola?”. Non rispondevo mai, anche se era andata benissimo. Era paralizzante per me. Grazie a mia madre mi si è aperto il mondo della musica e a sette anni già conoscevo Chopin, Mozart, Beethoven, Verdi. Inoltre io sono una persona molto curiosa, uno sperimentalista. Non mi fermo davanti a nulla. La domenica pomeriggio andavo a teatro. A otto anni già andavo a teatro. Ciò che, poi, mi ha spinto a fare l’attore è stato l’incontro con Emma Grammatica al teatro Olympia.»

Nel nuovo volume su Quasimodo ci sono poesie inedite giovanili, che valore hanno?

«Abbiamo raccattato tutto quello che era possibile. Mi ero già mosso anni fa a Messina. Quando un poeta non c’è più bisogna partire dagli inizi e fare tutta una carrellata. C’è stata una crescita. Io sono molto contrario quando i critici parlano di “primo, secondo o terzo Quasimodo”, perché era sempre lui. Naturalmente a quindici anni non avrebbe potuto scrivere “Dare Avere” o “La Terra Impareggiabile”. Ha fatto un suo percorso e naturalmente dopo l’ultima guerra non avrebbe potuto dire sempre le stesse cose o essere lo stesso di prima della guerra. Poi si è aggiunta la dimestichezza con le traduzioni dal greco, Shakespeare, Neruda che aveva scelto proprio mio padre per la traduzione.»

Cosa aggiungono all’idea che abbiamo di Salvatore Quasimodo? A scuola abbiamo maturato l’idea di una persona talvolta gioiosa, quando parla della Sicilia ad esempio, talvolta malinconica

«Un ragazzo che aveva un intimo molto portato a vedere le cose con un occhio di tristezza malinconica o con distacco. Diciamo che non c’è mai stata una gioia vera e propria, neanche quando era un ragazzo. C’è un verso molto rappresentativo: “fanciulli già adulti nel riso che li attrista”. C’è un desiderio di morire e perdere tutte le cose che ci sono care, piuttosto che perderle nell’arco dell’esistenza

Quale poesia le sta particolarmente a cuore di suo padre?

«“L’alto veliero”, perché ci sono anche io in grembo a mia madre. In una lettera a mamma lui definisce questa poesia un sogno. In effetti è la più onirica, perché a Milano non c’è il mare. Lui immagina un mare illuminato dalla luna e un veliero che si avvicina e lui, con un istinto nomade, pirata, un po’ zingaro vorrebbe imbarcarsi su questo veliero che è la persona amata che aspetta un figlio da lui e scrive “aveva per esso un mare continuo nell’anima”, per dire che le gestanti a volte hanno la nausea. Rinuncia a partire e resta nell’isola immaginaria della sua casa per stare con la donna amata. È una poesia molto lirica. C’è un discorso ininterrotto. Apre le finestre e invece di vedere i tetti delle case vede un mare.»

Le cose e i tempi sono cambiati, ma la poesia ha in sé qualcosa di straordinario: essere sempre attuale. Cos’ha di attuale la poesia di Quasimodo?

«Io vado spesso nelle scuole e la poesia di Quasimodo è molto più vicina ai ragazzi. La considerano più comprensibile rispetto a quella di Montale che vedono più lontano, distaccato. La frase che dicono quasi sempre è che comunica freddezza. Lo definiscono algido. Quasimodo era molto più viscerale, sanguigno. Inoltre, ha precorso alcune cose. Sono usciti pezzi giornalistici a cura di Carlangelo Mauro, quelli de “Il Tempo Illustrato”, in cui vi sono argomenti di attualità di tutti i tipi sul disagio giovanile, il periodo dei capelloni, etc. Mio padre sentiva già la nuova generazione. Poi, se uno parla della guerra legge Quasimodo, piuttosto che altri autori. Si potrebbe leggere un pezzo di Calamandrei, ma non è poesia. La poesia comunica meglio secondo me. Lui si è definito “odiato, coi suoi versi, uno come tanti, operaio di sogni”».

Nel 1959 suo padre ottiene il Premio Nobel con la seguente motivazione: «Per le sue poesie che, con ardore classico, esprimono il sentimento tragico della vita del nostro tempo». Oggi qual è il senso tragico cui la poesia dovrebbe dar voce? Di cosa deve parlare la poesia?

«Deve parlare dell’uomo, “deve rifare l’uomo” come ha detto Quasimodo in un verso di un suo sonetto. Oggi l’uomo così com’è non ha chance, non ha possibilità di sviluppo. Immagina un domani, quando ci sarà la nuova generazione al potere. Bisogna rifare l’uomo dall’inizio, dalla scuola, dall’educazione sentimentale che non viene mai nominata; è necessario che si leggano libri importanti, parlare dei propri problemi a scuola, parlare della diversità, parlare di uno che è nero, giallo, bianco, della fratellanza, della diversità sessuale e non prendere in giro il compagno perché ha atteggiamenti effeminati. Nessuno fa nulla. Non si sa ascoltare. Se c’è un ragazzo che va a piangere nel cesso bisogna capire perché, cosa sta succedendo. Ripartire. Quando vado in una scuola elementare, i bambini sono vivaci e hanno la mente aperta, poi vado alle medie e già meno, mentre al liceo nessuno alza la mano. Bisogna coltivare le meravigliose possibilità che hanno i ragazzi.»

Salvatore Quasimodo individuava nei poeti la responsabilità di cambiare il mondo. Oggi ci sono poeti?

«Non lo so. I poeti sono una razza non dico scomparsa perché qualcuno riserva delle sorprese, ma la vecchia generazione sta lentamente lasciando il campo. Io sono presidente di giuria di vari premi letterari e da due o tre anni ho scoperto una voce nuova meravigliosa che si chiama Cristina Vivinetto. Ha debuttato con un libro dal titolo “Dolore Minimo” che ha inviato a Dacia Maraini, la quale ne ha curato l’introduzione. È una storia bellissima, dolorosa ma importantissima. Cristina era in realtà Andrea, un ragazzo. Sentiva che qualcosa non andava. Ha affrontato un lunghissimo percorso psicologico e oggi è una ragazza. Qualche poeta ancora c’è. Franco Loi è il mio poeta preferito, ma viene considerato schivo. Oggi come oggi, arrivano libri, ma basta aprire la prima pagina e il giudizio è già implicito.» 

Poeti ci si nasce o ci si diventa?

«Ci si nasce.»

Grazie di cuore, Alessandro.

Alessio Arvonio

Classe 1993, laureato in lettere moderne e specializzato in filologia moderna alla Federico II di Napoli. Il mio corpo e la mia anima non vanno spesso d'accordo. A quest'ultima devo la necessità di scrivere, filosofare, guardare il cielo e sognare. In attesa di altre cose, vivo.

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