Vittoria e Alberto, i cugini predestinati all'amore

Il matrimonio tra la giovane regina inglese e il principe tedesco doveva servire allo zio re del Belgio per accrescere il suo potere. Si sarebbe rivelato un rapporto indissolubile, sebbene sui quarant'anni di doloroso lutto della sovrana ci sia qualche dubbio...
Vittoria e Alberto i cugini predestinati all'amore

«Alberto è bellissimo. Ha i capelli del mio stesso colore, gli occhi grandi e azzurri, il naso stupendo, una bocca dall'espressione dolcissima e bei denti. Ma quello che più mi attira della sua fisionomia è l'espressione, che è incantevole». È la sera del 18 maggio del 1836 quando l'allora erede al trono d'Inghilterra Vittoria affida al suo diario la prima potente dichiarazione d'amore per il cugino Alberto di Sassonia Coburgo Gotha. Non è l'unica dal cuore gonfio: dopo un lungo trafficare, Leopoldo re del Belgio è riuscito a far incontrare l'illustre e giovanissima nipote, sul cui controllo il sovrano nutre malcelate ambizioni, con il promettente e studioso nipote tedesco, nella sua mente destinato alla principessina inglese sin dalla nascita. Promettente nipote che, dei tre, è quello meno coinvolto: sa bene i piani dello zio e non disdegna certo la prospettiva di sposare una regina, ma ha qualche perplessità a trasferirsi a Londra e poi insomma la cugina non è certo una gran bellezza, a stento arriva al metro e mezzo, è piuttosto robusta e ha un naso importante che, sottolineerà poi il compositore Richard Wagner, «tende al rubizzo».

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Dopo quel primo incontro suggellato da un dono decisamente originale – Alberto si presentò a Kensington con un pappagallino – trascorsero tre anni di lettere, dubbi e pressioni. Quelle di Leopoldo, fattesi più sfacciate dopo il 20 giugno del 1837, giorno in cui Guglielmo IV spirò senza eredi legittimi (in compenso lasciò otto orfani nati fuori dal matrimonio) e il trono passò alla figlia di suo fratello Edoardo diventata maggiorenne da venti giorni: il monarca belga vuole completare l'opera, convinto di poter influenzare a suo piacimento la politica britannica facendo leva sull'inesperienza dei nipoti. Quelle di lord Melbourne, primo ministro che per alcuni fu il primo uomo di cui Vittoria s'invaghì nonostante avesse quarant'anni più di lei, certamente un mentore e una guida come Churchill sarà per Elisabetta II nei primi anni di regno: maestà, ha tempo, ripeteva, ben consapevole del «complotto belga».

Quando il 10 ottobre 1839 Alberto raggiunge Windsor – finalmente l'agognato secondo incontro – Vittoria sa di non avere altre chance: il principe è paziente ed è lì per lei, ma se l'affaire non si concretizza il ragazzo ha deciso di guardare altrove. La visione del cugino accende il desiderio fisico della regina e spazza via il suo desiderio di autonomia - «È meraviglioso con addosso quei pantaloni bianchi sotto ai quali non porta niente», scrive maliziosa - dopo cinque giorni di danze e giochi e galoppate Vittoria convoca il principe tedesco alle 12.30: spetta a lei la mossa, perché un uomo di classe inferiore non può certo farsi così ardito. «Gli dissi che non ero affatto degna di lui», annota Vittoria nei suoi diari, da prendere con le pinze giacché fortemente rielaborati dopo la sua morte dall'ultimogenita Beatrice. «Alberto mi rispose che sarebbe stato felice di passare la vita con me. Lo amo, lo amo più di quanto non sappia dire, e farò tutto ciò che sarà in mio potere per rendere meno duro il sacrificio che ha deciso di compiere».

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Alberto accetta: è stato «programmato» per quel momento, trova Vittoria «buona e amabile, sono certo che il Cielo non mi ha posto in cattive mani e che saremo felici insieme», e inoltre è allettato dalla prospettiva di poter fare qualcosa per gli altri sfruttando la posizione conquistata. «Promuovere il bene di tanti sarà certamente sufficiente a sostenermi nei momenti difficili», racconta alla nonna Augusta. L'amore che ha travolto la sovrana arriverà anche per lui, ma dopo: la prima lettera appassionata di cui si ha traccia data 1844, «mentre ti scrivo sarai a colazione e troverai un posto vuoto accanto a te. Il mio posto nel tuo cuore, però, spero non sia vacante». In principio il principe è occupato a trovare il suo posto in una corte che dall'inizio si dimostra ostile (il Parlamento gli concederà 30.000 sterline annue contro le 50.000 solitamente previste per le regine consorti), un ruolo di potere ma discreto e rispettoso della moglie sovrana. «In complesso son felice e soddisfatto della mia vita, ma le difficoltà di occupare dignitosamente il mio posto sta per me nel fatto che son soltanto il marito e non il padrone di casa», confiderà in una delle lettere inviate a Coburgo. Su una cosa Alberto può però contare, l'amore assoluto della sua sposa, che la sera delle nozze, celebrate nel febbraio del 1840, scrive: «Non ho mai trascorso una serata così. Mio adorato Alberto… Il suo amore estremo mi ha travolta. Mi ha presa tra le sue braccia e mi ha baciato ancora e ancora… Questo è il giorno più bello della mia vita». Contrariamente ad alcune voci messe in giro nel tentativo di screditarlo, il principe si dimostra tutt'altro che frigido o disinteressato al sesso femminile: la passione per Vittoria esplode e si traduce in nove gravidanze ravvicinate, supremo gesto d'affezione della sovrana che detestava e le gravidanze e i bambini. «Quando partoriamo, nulla ci rende diverse da vacche e cagne», «Una famiglia numerosa è una disgrazia», «I figli sono un onere spaventoso e sono molte più le preoccupazioni che danno rispetto alle gioie», «Non è vero che odio i neonati, odio le circostanze disgustose della loro vita animalesca»: sono solo alcuni dei pensieri tutt'altro che materni che Vittoria dedica al tema. Sono proprio i nove figli l'espressione massima dell'amore della sovrana per il marito, che inizialmente prende in mano la gestione della famiglia e piano piano riesce a farsi largo anche nelle maglie delle istituzioni, divenendo di fatto il primo consigliere della moglie, principe consorte, titolo che riceverà solo nel 1857, non solo sulla carta ma anche nell'indirizzare la politica.

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«Il mio amore per lei è inesauribile e illimitato», recita infine una delle ultime lettere che Alberto spedisce in Germania. Un amore fatto di quiete domestica – un invito a corte era considerato un esercizio di pazienza e noia – e fughe a due nelle adorate Highlands scozzesi dove regina e principe consorte si firmavano nelle locande in cui pernottavano “Lord and Lady Churchill”. Una fusione rotta il 14 dicembre 1861, ironia della sorte giusto pochi giorni prima di quel Natale che Alberto aveva trasformato da festa pagana in cui ci si ubriacava a ritrovo familiare attorno all'albero addobbato: tra dolori indicibili, il principe muore nella notte, forse per colpa del tifo, forse per un cancro allo stomaco, forse per il morbo di Crohn. Vittoria lo raggiungerà quarant'anni dopo, quattro decenni vestiti rigorosamente a lutto e rinchiusi dentro una corte oppressiva e dolente da cui i suoi figli, ad eccezione della povera Beatrice, si tengono alla larga. Al suo fianco fino al 1883 il fido stalliere John Brown, pertica scozzese dai modi rudi assunto dalla sovrana quando Alberto era ancora in vita. Un legame su cui molto si è scritto, forse amore tardivo, forse semplice bisogno di avere accanto qualcuno che le dicesse cosa fare. Senza dubbio un legame importante: prima di morire Vittoria lasciò precise disposizioni sul suo funerale. Se nella mano destra stringeva il calco di quella di Alberto, nella sinistra teneva una ciocca dei rossi capelli di Brown nascosti alla vista dei figli da un mazzo di fiori.