Tre pezzi per orchestra di Alban Berg - Treccani - Treccani

«Tutto incomincia il 28 giugno 1914. Il mondo antico - di prima della guerra - sprofonda nel giro di un pugno di giorni a partire dal luogo e dal gesto fatidico: Sarajevo, l’irredentista serbo Gavrilo Princip, l’attentato riuscito contro l’arciduca Francesco Ferdinando, erede di Francesco Giuseppe. La lunga pace europea muore nei Balcani, nella ‘polveriera d’Europa’, proprio là dove coloro che meno si erano illusi sulla sua immortalità avevano colto i primi tuoni in lontananza» (M. Isnenghi - G. Rochat, La Grande Guerra. 1914-1918, Bologna 2008, p. 77). Certo, tutto incomincia il 28 giugno del 1914. Ma tutto finisce, anche, quel giorno di giugno: nel giro di poco più di un mese il mondo è in guerra. A Vienna lo scoppio della guerra rappresentò il definitivo esaurimento di una lunga epoca di pace e di prosperità, rimpianta, nei decenni che seguirono alla fine del conflitto, ora con accenti di affettuosa, quasi ingenua adesione (un esempio tra tutti il celebre incipit del Mondo di ieri di Stefan Zweig, ove i tempi della Vienna imperiale vengono evocati come «goldene Zeitalter der Sicherheit», come ‘età dell’oro della sicurezza’), ora col lucido distacco di chi, nel farsi stesso degli eventi, e poi a ritroso, nel mondo di prima si mostrò in grado di individuare, insieme alle ragioni del rimpianto, i germi della dissoluzione e della catastrofe: da Joseph Roth al Musil dell’Uomo senza qualità, al Broch del saggio su Hofmannsthal (al quale si deve la felice formulazione di «fröliche Apokalypse», di ‘gaia apocalisse’, per la Vienna degli ultimi decenni imperiali), al Kraus degli Ultimi giorni dell’umanità e di molte pagine della ‘Fackel’, tra le quali spicca quella, risalente al 10 luglio del 1914, nella quale alla Vienna imperial-regia è applicata l’efficace etichetta di «Versuchsstation des Weltuntergangs», di ‘laboratorio della fine del mondo’.

Il nuovo anno, ormai alle porte, offrirà certo una quantità di occasioni per tornare a riflettere sul senso della Prima Guerra Mondiale a un secolo dal traumatico evento che ne rappresentò l’inizio. Nel 2014 compiranno cent’anni anche i Drei Orchesterstücke op. 6 di Alban Berg, la composizione con la quale culmina il primo periodo creativo del suo autore e, insieme, una delle partiture più straordinariamente geniali che siano state composte nell’arco dei primi decenni dello scorso secolo. Lo scenario che fa da sfondo alla composizione dei Tre pezzi è quello che ho appena evocato, la Vienna imperiale sull’orlo della catastrofe. Di questa atmosfera di incombente apocalisse nei pezzi, e soprattutto nel secondo e nel terzo, è traccia evidente, né avrebbe potuto essere altrimenti: il lavoro, al quale Berg sembra avere cominciato a pensare già nell’estate del 1912, quando era in pieno corso la composizione degli Altenberglieder op. 4 e iniziavano a prendere corpo i Vier Stücke für Klarinette und Klavier op. 5, si protrasse infatti fino a ben dopo lo scoppio della guerra, ovvero fino all’inizio del mese di agosto del 1915, quando Berg completò la composizione di Reigen, il pezzo che nella versione definitiva occupa la seconda posizione. I primi due pezzi erano stati composti proprio nei mesi immediatamente successivi all’attentato di Sarajevo: prima il terzo, Marsch, che da una lettera di Berg alla moglie risulta compiuto alla metà di luglio del 1914, poi il primo, Präludium, che Berg inviò insieme a Marsch al suo maestro Schönberg l’8 settembre del 1914 come dono per i suoi quarant’anni. La lettera di accompagnamento che Berg scrisse per l’occasione dice molto in relazione alle fasi del lungo e travagliato processo compositivo, compreso un fuggevole ma significativo cenno alla causa del ritardo che imponeva la consegna al dedicatario di un lavoro ancora incompiuto, ovvero alla «große, unausweichliche Unruhe», alla ‘grande, ineluttabile inquietudine’ causata dallo scoppio della guerra (poco oltre Berg torna a parlare della sua «ungeheuere Ungeduld und Unruhe wegen des Krieges», della ‘terribile ansia causata dalla guerra’ che lo spingeva a non fare ritorno a Vienna da Trahütten, dove si trovava). Dice però anche, e più ancora, forse, del rapporto di autentica venerazione che legava l’allievo al maestro, illuminando, a un tempo, le ragioni profonde delle scelte compositive messe in campo da Berg nella sua nuova composizione. A Schönberg, che aveva criticato il carattere aforistico dei Quattro pezzi per clarinetto e pianoforte, e che aveva trovato da ridire anche in relazione agli Altenberglieder, l’allievo era finalmente in grado di offrire composizioni di respiro sinfonico ampio e disteso, pur nei limiti di pezzi di estensione relativamente ridotta. Nella lettera di dedica Berg mostra di avere piena coscienza della novità dei pezzi appena composti in relazione alla sua produzione precedente: l’ansia, persino commovente, con la quale tale novità è annunciata a Schönberg; i termini in cui tale ansia si risolve nella speranza di aver composto finalmente qualcosa di cui l’allievo non abbia da arrossire di fronte al maestro; l’esplicitazione ammirata del debito contratto nei confronti della più recente composizione di Schönberg, i Fünf Orchesterstücke op. 16, sono tratti che dicono a un tempo della grandezza del maestro e della devota modestia del pur grandissimo allievo.

Lo Schönberg dei Cinque pezzi per orchestra op. 16 è del resto solo il più immediato dei punti di riferimento che Berg ebbe presenti per il suo nuovo lavoro. Adorno, nella sua monografia su Berg, rievoca un episodio che merita di essere citato: «Quando egli mi mostrò e illustrò la prima partitura pensai, alla prima impressione grafica: “Dev’essere come se si eseguissero insieme i Pezzi per orchestra di Schönberg e la Nona Sinfonia di Mahler”. Non dimenticherò mai l’espressione di gioia che si accese sul suo volto a quel complimento, che sarebbe riuscito sospetto a ogni orecchio ‘colto’». Sul rapporto con il sinfonismo di Mahler insisteva anche Hans Ferdinand Redlich nella sezione dedicata ai Tre pezzi per orchestra op. 6 della sua monografia su Berg, il primo e più antico tentativo di bilancio di taglio complessivo dedicato al compositore viennese (Alban Berg. Versuch einer Würdigung, Wien - Zürich - London 1957); un rapporto, quello con Mahler, che in seguito è stato a lungo al centro dell’attenzione degli studiosi fino all’ampio, mirabile bilancio apparso nel 1997 nel Cambridge Companion to Berg a firma di Derrick Puffett, e che del resto la continua, ammirata presenza di Mahler negli scritti e nelle lettere di Berg avrebbe reso impossibile ignorare. Già in una lettera indirizzata a Webern il 29 luglio del 1912 Berg dichiarava l’intenzione di comporre un lavoro sinfonico di ampie dimensioni con un finale che prevedesse l’intervento di una ‘voce di fanciullo dall’alto’, una formulazione che fa immediatamente pensare a Mahler (finale della Seconda Sinfonia; quarto e quinto movimento della Terza; finale della Quarta). Il fatto che nel tempo l’originario progetto sinfonico si sia trasformato in altro (prima nell’idea di una suite, poi in quella di una serie di Charackterstücke, di ‘pezzi caratteristici’, i cui titoli danno certo ragione a chi, come Redlich, vi ha voluto scorgere un ‘sottile retrogusto programmatico’) non toglie nulla al ruolo modellizzante svolto da Mahler. Se infatti i Tre pezzi recuperano la tradizione romantica del pezzo breve ‘di carattere’, che Berg avrebbe tenuto ben presente anche in seguito (penso, ovviamente, al prim’atto del Wozzeck), essi sono in fondo leggibili altrettanto plausibilmente - specie a chi consideri il ricorrere ciclico, nei tre pezzi, di identiche cellule motiviche continuamente variate, e a un tempo infallibilmente riconoscibili a ogni nuova epifania - come una sorta di sinfonia in miniatura suddivisa in tre brevi ma densissimi movimenti, movimenti che alla grammatica e alla sintassi del sinfonismo mahleriano devono molto specie per quanto attiene a armonia e a colore orchestrale. Del resto, l’eredità mahleriana è viva nei Tre pezzi anche in virtù della ripresa di procedimenti espressivi che del sinfonismo di Mahler costituiscono ingredienti fondamentali. Il brusio indistinto che apre il primo pezzo, Präludium, il lento, faticoso emergere di cellule motiviche progressivamente più ampie e distese, di linee melodiche articolate e cantanti, insomma, dal rumore primigenio dell’avvio, che sembra generarle, ricorda da vicino analoghi incipit mahleriani (quello della Prima Sinfonia, ad esempio, o, ancor più da vicino, quello della Nona, così ammirata da Berg, così a proposito evocata da Adorno nel passo sopra citato). Così, il ritmo di valzer che innerva di sé il secondo pezzo, Reigen, e l’andamento inesorabile di marcia che percorre da cima a fondo l’ultimo sono il frutto del ripensamento di stilemi espressivi tipici dell’arte di Mahler e, più in generale, della tradizione musicale viennese; stilemi che Berg deforma e tende, però, fino al limite della rottura. La cifra più autenticamente caratteristica dei Tre pezzi op. 6 risiede appunto nella tensione estrema, inaudita, alla quale il suo autore sottopone sintassi tonale e eredità espressive: la tradizione vi pulsa viva e vitale, e a un tempo vi implode, e in termini che fanno presagire con chiarezza il raggiungimento di un punto di non ritorno. La strenua disciplina dell’organizzazione formale, dell’architettura complessiva, è in realtà visibile solo all’occhio di chi analizzi la partitura. L’esito percepibile all’ascolto è, al contrario, quello di un caos sonoro aggrovigliato e a tratti persino minaccioso. Un caos dal quale le voci degli strumenti ai quali sono di volta in volta affidati gli isolati frammenti di canto e di danza che emergono dal denso, fittissimo ammasso contrappuntistico allestito da Berg producono un effetto di desolato straniamento, quasi che il mondo da essi evocato, piuttosto che colto sull’orlo della fine, dell’abisso, fosse invece contemplato, e rimpianto, da distanze siderali, già incolmabili.

Non riuscendo a trovare in rete esecuzioni complete dei Tre pezzi in unico file, ho scelto di proporre l’ascolto parziale di tre diverse esecuzioni: per Präludium la versione incisa nel 1971 da Claudio Abbado per Deutsche Grammophon con la London Symphony Orchestra; per Reigen di nuovo Abbado, ma nella versione incisa alla metà degli anni novanta, per la medesima etichetta, con i Wiener Philharmoniker; per Marsch, infine, la versione incisa da Karajan nel 1974, ancora una volta per DGG, con i Berliner Philharmoniker.