A Classic Horror Story - Recensione

L’horror dove sembra di essere in un film horror.

A Classic Horror Story - La recensione

LA RECENSIONE IN BREVE

  • L’horror tende a riproporre le proprie strutture ed è il genere che più di altri ha riflettuto su questa tendenza: A Classic Horror Story prova a inserirsi nel solco di questa tradizione.
  • Il film attinge in maniera originale alla tradizione locale per creare il proprio «folklore filmico».
  • Decisamente ben girato e curato esteticamente, A Classic Horror Story non convince dal lato narrativo e presenta degli importanti problemi di scrittura.

Quando ero bambina, due cose mi hanno fatto appassionare all’horror. Da una parte c’era Notte Horror, con la sua programmazione che sarebbe diventata per me formativa. Dall’altra c’era Dylan Dog, con le sue storie in cui ne riecheggiavano tante altre, a volte le stesse che avevo visto di nascosto in TV, nelle notti d’estate. Il fumetto di Tiziano Sclavi è stato per me il primo approccio al citazionismo.

Ricordo che negli editoriali emergeva questa consapevolezza, quando Sclavi giocava ironicamente con i concetti di plagio e citazione. «Tutti sono capaci di fare, è copiare che è difficile!», diceva nelle interviste citando Totò. Quando era in attività, o almeno fino a quando ho letto Dylan Dog, lo scrittore non sempre creava. La maggior parte delle volte plasmava a partire da un materiale di partenza che amava profondamente.

La cosa che preferivo di questa operazione, la cosa che dopo tutti questi anni ancora mi fa pensare a quanto Dylan Dog abbia pesato sulla mia esperienza di fruitrice di storie dell’orrore, è il percorso intertestuale che questa modalità tracciava sia con altre narrazioni, sia che con altri media. C’erano due livelli di fruizione: quello della storia, che funzionava perché la citazione, assolutamente non fine a se stessa, era integrata in modo fluido con l’intreccio dall’autore; quello della riflessione metatestuale, che viveva fuori dal fumetto in sé e coinvolgeva direttamente chi, quell’albo, lo stava leggendo.

Cosa ha a che fare tutto questo con A Classic Horror Story, film diretto da Roberto De Feo e Paolo Strippoli, presentato fuori concorso al Festival di Taormina 67 e disponibile su Netflix dal 14 luglio? Tanto. Proprio tutto, forse.

Una classica storia dell’orrore

Immaginate un gruppo di persone che si ritrovano, improvvisamente, coinvolte in una lotta per la sopravvivenza in un luogo isolato. Una classica situazione da film horror, verrebbe da dire. Di fatto, si tratta di un motivo ricorrente della narrazione dell’orrore. Per giunta, di ampio spettro. Questa potrebbe essere la trama di uno slasher, di un film di fantasmi, di un folk horror, di una storia di orrore cosmico, di un torture porn. L’isolamento è uno dei topoi tradizionali di un genere che tende a riproporre le proprie strutture, ma rappresenta anche l’occasione: è spesso il dispositivo che permette che si crei un legame tra personaggi e la «cosa» che li minaccia.

A Classic Horror Story parte da qui, dall’isolamento. E inizia citando nientemeno che il più classico dei classici, Non aprite quella porta di Tobe Hooper. La trama è pressapoco quella che potete leggere più su, magari un po’ più articolata.

Cinque persone che si incontrano tramite un’app di carpooling viaggiano a bordo di un camper verso il Sud Italia. C’è Elisa (Matilda Lutz, la protagonista di Revenge di Coraline Fargeat), brillante neolaureata che, in realtà, sta vivendo un dramma personale soffocata dalle pressioni sociali; Sofia (Yullia Sobol) e Mark (Will Merrick), due fidanzati che stanno andando a un matrimonio; Riccardo (Peppino Mazzotta), un medico dalle maniere rudi che ha chiaramente qualcosa da nascondere; infine, il conducente Fabrizio (Francisco Russo), uno studente di cinema che cerca di svoltare sui social.

Durante la notte, il camper si schianta contro un albero. Quando le cinque persone riprendono i sensi, la strada non c’è più. Sono in mezzo a una radura circondata da un fitto bosco. Davanti a loro, c’è una casa di legno. «Una casa come quella di Sam Raimi» dice Fabrizio. È un cinefilo, ama il genere e, ovviamente, ogni cosa in questa situazione gli ricorda un film horror. Si preoccuperà di dircelo spesso - troppo spesso - nel corso di questa storia. Sapete perché?

 
Ehi, sembra di stare in un film horror!

Come scrivevo prima, l’horror tende a riproporre le sue strutture, ma è anche il genere che più di altri ha provato, nella sua storia, a riflettere su questa tendenza. L’obiettivo di Roberto De Feo, Paolo Strippoli e i co-sceneggiatori Lucio Besana, Milo Tissone e David Bellini, è esplicitato già nel titolo: questa è una classica storia dell’orrore. L’idea è metterci dentro tutti i topoi, tutte le storie, tutti i sottogeneri, tutti i film. Soprattutto, tutta la passione di persone che chiaramente amano il cinema horror e riportano ogni cosa a quell’esperienza. Li capisco, capita anche me. Questo basta, per raccontare una classica storia dell’orrore? Una storia, come nel caso di Dylan Dog, capace di dialogare con altri testi per costruire qualcosa di più semplice gioco di rimandi?

Per più di metà film il meccanismo sembra reggere. I personaggi funzionano tra loro, le interpretazioni sono convincenti. Quello che colpisce, per esempio, è il rapporto di solidarietà che si instaura tra Elisa e Sofia, le cui interpreti sullo schermo sembrano avere molta intesa. Anche il personaggio di Riccardo stupisce per l’inaspettata sgradevolezza della sua caratterizzazione. Questo porta a un inatteso confronto tra lui e Sofia, che fa emergere le particolarità di ciascun personaggio.

C’era una casa molto carina

A livello tecnico, poi, il film è ineccepibile. La regia è solida, lo stile raffinato, come d’altronde era stato per The Nest, l’interessante lungometraggio precedente di De Feo. Inoltre, la scelta di includere alcuni brani molto popolari della canzone leggera italiana della colonna sonora per me rappresenta un vero colpo di genio. Mai mi sarei aspettata che Il cielo in una stanza cantata da Gino Paoli o La casa nella versione di Sergio Endrigo potessero presentare dei risvolti tanto inquietanti. Infine, i bei costumi di Sabrina Beretta e le scenografie evocative di Roberto Caruso sono il valore aggiunto di una produzione molto curata. La casa, in particolare, forse non ricorderà davvero quella di Sam Raimi, ma è la cosa più simile a quella della strega di Hänsel e Gretel a cui si possa pensare.

Questo legame con la fiaba e il folklore non è certo casuale e limitato alla scenografie e costumi. Capiamo ben presto che siamo dalle parti del folk horror, anche perché via via emergono alcuni dei tratti narrativi specifici del filone: in particolare, l’importanza dell’ambientazione rurale e il motivo dell’isolamento. Ma al di là della struttura formale, A Classic Horror Story sembra un folk horror perché sceglie di attingere - anche in maniera sorprendentemente originale, per un film citazionista - alla tradizione locale per creare il proprio «folklore filmico», ossia quell’insieme di credenze popolari fittizie che funzionano da substrato per impostare un racconto dell’orrore.

Bella, ma non ci vivrei.

Si lascia dunque ispirare dalla leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, tre cavalieri di Toledo che nel XV secolo scapparono dalla Spagna dopo aver compiuto un delitto d’onore, per rifugiarsi nell’Isola di Favignana. Ai tre viene fatta risalire l’origine mitica di Cosa Nostra in Sicilia, della 'ndrangheta in Calabria e della camorra a Napoli.

Sarebbe tutto fantastico, se non fosse che A Classic Horror Story non cerca mai davvero essere un folk horror, ma un horror postmoderno autoriflessivo e metatestuale. Qualcosa di più simile a Quella casa del bosco (2011) di Drew Goddard che a The Wicker Man (1973) di Robin Hardy o Midsommar (2019) di Ari Aster. Questi ultimi due film, tra l’altro, vengono citati pedissequamente senza nessuna riflessione o rielaborazione a margine. C’è naturalmente un motivo che non posso svelare e che porta A Classic Horror Story su un campo da gioco che non può affrontare, con gli strumenti che mostra di avere a disposizione.

Quando il cinema parla del cinema

Questo tipo di riflessioni su un genere caratterizzato dalla profonda inviolabilità della struttura narrativa - che in Quella casa del bosco si esplicitava nella presenza dei cinque «tipi umani», ossia degli archetipi sacrificali - affinché funzioni, deve necessariamente dimostrare di possedere una solida conoscenza filologica, storica e filosofica della propria tradizione pregressa e, allo stesso tempo, una certa forza sovversiva.

A Classic Horror Story invece, cita per il gusto di citare, nemmeno per omaggiare, senza preoccuparsi di tracciare percorsi tra tutti questi riferimenti buttati a casaccio nel mucchio. Nel momento dello svelamento, poi, deraglia, peccando di un didascalismo imperdonabile, trovando la propria giustificazione in una retorica spicciola e intrisa di luoghi comuni sul mondo della comunicazione e del consumo di prodotti di intrattenimento. Non importa se tale critica sia mossa nei confronti del pubblico o sia un’autocritica, la riflessione è confusa, contraddittoria e, soprattutto, blandissima.

 
Folk horror!

Inoltre, questo tipo di metatestualità appare non solo in ritardo un almeno una decina d’anni, ma è del tutto miope di fronte al valore decostruttivo di questo tipo di cinema. Mi spiego. Quella casa del bosco portava avanti in modo assolutamente innovativo una critica nei confronti della tendenza del genere di ricorrere a meccaniche semplici, invece che puntare sulla complessità. Faceva tutto questo rimanendo un’opera essenzialmente di intrattenimento, che mai una volta sembrava rinunciare a questa dimensione ludica.

Dopo dieci anni, A Classic Horror Story non ha ancora imparato quella lezione. A me dispiace, perché credo fermamente che il genere in Italia possa ripartire da una manciata di persone appassionate che stanno dimostrando di essere talentuose. D'altronde, lo sta già facendo. Roberto De Feo e Paolo Strippoli, come registi, mi sembrano capaci e potenzialmente in grado di competere nel mercato internazionale.

A Classic Horror Story, tuttavia, ha un evidente problema di scrittura, che non solo banalizza la sua materia stessa narrativa, ma spreca spunti interessanti nel tentativo di essere, caoticamente, troppo e tutto insieme. Nella sequenza finale, inoltre, finisce per peccare di una superficialità e moralismo francamente inaccettabili, anche perché rivolto verso il corpo e le scelte di una donna, in una sceneggiatura scritta da cinque uomini.

Verdetto

Decisamente ben girato e molto curato esteticamente, A Classic Horror Story non convince dal lato narrativo e metatestuale. Sembra un film in ritardo di almeno un decennio e butta via una serie di idee, spunti e suggestioni estremamente interessanti, facendole confluire in una critica superficiale, didascalica e moralista che gira su se stessa. È un peccato, perché il materiale di partenza era buono, il coraggio non manca e nemmeno, credo, la passione. Forse, quello che serve, è un po’ più di consapevolezza in più che possa andare oltre l’omaggio verso ciò che si ama. Ricordate? «Tutti sono capaci di fare, è copiare che è difficile».

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A Classic Horror Story - La recensione

5
Mediocre
«Tutti sono capaci di fare, è copiare che è difficile». E con copiare intendo citare con consapevolezza.
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