A 007, dalla Russia con amore: recensione del film con Sean Connery
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    A 007, dalla Russia con amore: recensione del film con Sean Connery

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    Appena un anno dopo Agente 007 – Licenza di uccidere, arriva il secondo capitolo delle avventure di James Bond, nonché uno dei migliori di tutta la serie: A 007, dalla Russia con amore. Al cinema come nello sport, squadra che vince non si cambia: ritroviamo così Terence Young alla regia, coadiuvato dal direttore della fotografia Ted Moore e dal montatore Peter Hunt, e soprattutto il volto per eccellenza dell’Agente 007, Sean Connery. Il raddoppio del budget, passato a 2 milioni di dollari, ci consegna inoltre un’opera molto più dinamica, che si snoda fra il Regno Unito e la Turchia, facendo tappa anche a Venezia. Il primo sodalizio fra James Bond e l’Italia è inoltre fortificato dalla presenza nel cast della nostra Daniela Bianchi, che interpreta la sovietica Tatiana Romanova, entrando immediatamente nell’immaginario collettivo come una delle più sofisticate e convincenti Bond girl.

    A 007, dalla Russia con amore: le avventure di James Bond continuano

    A 007, dalla Russia con amore si apre con quello che diventerà un vero e proprio marchio di fabbrica della saga, cioè la scena prima dei titoli di testa, in cui, nel corso di un’esercitazione, il villain principale di questo secondo capitolo, Donald Grant (Robert Shaw), uccide un uomo mascherato da James Bond. Quest’ultimo lavora per la multinazionale del crimine SPECTRE (che abbiamo imparato a conoscere nel corso di Agente 007 – Licenza di uccidere), e ha la doppia missione di impossessarsi del cosiddetto Lektor, una macchina di decrittazione sovietica, e di assassinare Bond, reo di avere ucciso il Dr. No.

    Facciamo così la conoscenza di un altro punto fermo della serie, cioè il capo della SPECTRE Ernst Stavro Blofeld (qui ancora senza volto), che attraverso la numero 3 dell’organizzazione Rosa Klebb assolda la splendida agente dei servizi segreti russi Tatiana Romanova, con il compito di beffare Bond. L’agente 007 è infatti a sua volta scelto dall’MI6 per una missione di recupero del Lektor, da realizzare con l’insperato aiuto della collega sovietica. Bond parte quindi per Istanbul, dove prende contatti con il diplomatico Ali Kerim Bey (l’ultima interpretazione di Pedro Armendáriz, già gravemente malato durante le riprese e sofferente al punto da essere sostituito dallo stesso Young in alcune inquadrature) e incontra, nel letto della sua camera d’albergo, la Romanova.

    Comincia così un lungo viaggio attraverso l’Europa a bordo del celeberrimo Orient Express, che porterà Bond e la Romanova ad approfondire la loro conoscenza e a incrociare le loro strade con quelle di Grant e della SPECTRE.

    A 007, dalla Russia con amore: un seguito più centrato del predecessore

    A 007, dalla Russia con amore

    Rispetto alla comunque affascinante ingenuità del primo capitolo, A 007, dalla Russia con amore si rivela ancora oggi un’opera decisamente più ricca e compatta. James Bond è talmente fascinoso e sicuro di sé da arrivare a un passo dall’arroganza, ma allo stesso tempo ci appare più volte fallibile. Lo vediamo infatti in difficoltà sia con la Romanova, il cui iniziale doppio gioco non è colto da 007, sia con Grant, che si dimostra più volte almeno allo stesso livello di Bond in quanto a perspicacia e prestanza fisica. Solo un’imperdonabile mancanza di gusto da parte del rivale (il vino rosso col pesce) e un provvidenziale gadget di Q (Desmond Llewelyn, alla sua prima apparizione nella serie) permettono a 007 di salvare la pelle nel passaggio più carico di tensione del racconto, a bordo dell’Orient Express.

    La trama spionistica si fa più intricata, e i debiti di riconoscenza verso Intrigo internazionale di Alfred Hitchcock, già evidenti nel precedente episodio, diventano ancora più espliciti: la già citata parentesi sul treno e soprattutto l’inseguimento a Bond da parte di un elicottero sono molto più di un semplice omaggio al maestro del brivido. Ciò che sorprende maggiormente di questo secondo capitolo è però la sua capacità di incanalare in una trama fittizia il contesto politico e sociale dell’epoca.

    In piena guerra fredda e a poche settimane di distanza dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy (pare che A 007, dalla Russia con amore sia proprio l’ultimo film visto dal 35º Presidente degli Stati Uniti d’America), stupisce la rappresentazione della SPECTRE come ente in grado di innalzarsi addirittura al di sopra delle tensioni fra il Blocco occidentale e l’URSS, come l’ideale cooperazione contro un nemico comune di queste due fazioni, rappresentate da Bond e dalla ravveduta Romanova.

    L’influenza di A 007, dalla Russia con amore sul cinema successivo

    A 007, dalla Russia con amore

    A esaltare una trama ricca di spunti e sfumature, come Bond per la prima volta vicino a un sentimento di amicizia con Kerim, è una messa in scena che punta tutto sull’azione e sulla concretezza, sfruttando efficacemente la varietà di location. Non mancano alcune forzature e imperfezioni (L’uccisione di un nemico dentro alla bocca di Anita Ekberg, impressa su un cartellone gigante di Chiamami buana, o lo sfondo visibilmente posticcio di Venezia nelle battute conclusive), ma siamo indubbiamente di fronte a uno dei capitoli della serie che hanno retto meglio alla prova del tempo. Non è un caso che A 007, dalla Russia con amore abbia influenzato il cinema successivo sia all’interno (la figura di Blofeld, la title song, i gadget futuristici) che all’esterno della saga.

    L’influenza di quest’opera nell’immaginario collettivo si estende da grandi classici del passato (Marlon Brando che ne Il padrino accarezza il suo gatto in maniera analoga a quella di Blofeld), attraversa la storia dei blockbuster (un altro amante della saga come Steven Spielberg, che ha realizzato con Indiana Jones una sua personale rivisitazione di James Bond, ha ripreso il secondo capitolo della saga nel suo Indiana Jones e l’ultima crociata, mettendo in scena un altro inseguimento fra motoscafi e scegliendo non a caso Venezia come location e Sean Connery come padre del protagonista) e arriva fino ai giorni nostri, con la Red Sparrow di Jennifer Lawrence con diversi punti di contatto con la Romanova o quel “James Bond tornerà” sui titoli di coda, ampiamente ripreso dal Marvel Cinematic Universe.

    James Bond: fedele a se stesso, ma in costante mutamento

    A 007, dalla Russia con amore

    Fra i proverbiali ammiccamenti di Sean Connery, l’eterno flirt con Miss Moneypenny, un erotismo meno plateale ma sempre tangibile e il fascino mistico e misterioso di Istanbul, emergono in A 007, dalla Russia con amore sprazzi di grande umanità, come quella dell’indimenticabile Bond girl di Daniela Bianchi, contemporaneamente fatale e tormentata, spavalda amante e appassionata compagna, la cupa quanto efficace rappresentazione della gerarchia del crimine, in cui ogni persona diventa un anello della catena del male e una pedina sacrificabile quando le cose non vanno come previsto, e addirittura un profetico accenno di revenge porn, con il filmato della notte di passione fra James e Tatiana utilizzato come minaccia nei confronti dei due.

    Ed è anche grazie a questi dettagli che la serie dell’Agente 007 comincia con A 007, dalla Russia con amore a rivelare la sua ineguagliabile natura: apparentemente statica e fedele a se stessa e ai propri eccessi, ma in realtà capace di mutare in maniera sostanziale e di leggere, spesso in anticipo sui tempi, l’evoluzione della società e dei costumi.

    Overall
    8.5/10

    Verdetto

    A 007, dalla Russia con amore si rivela un seguito più convincente e solido del primo capitolo, nonché un passo decisivo nella costruzione della mitologia della florida e longeva saga di James Bond.

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    Zodiac: recensione del film di David Fincher

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    Zodiac

    Il cinema di David Fincher ha alla sua base l’ossessione, declinata in serial killer tanto disumani quanto lucidi (Seven, The Killer), in coppie deflagrate (L’amore bugiardo – Gone Girl) e in brillanti e cinici studenti destinati a cambiare in peggio il mondo (The Social Network). Ma allo stesso tempo, questo cineasta forgiato dai videoclip (argomento spesso usato dai suoi detrattori) e prima ancora dal lavoro sugli effetti visivi di opere come Il ritorno dello Jedi, La storia infinita e Indiana Jones e il tempio maledetto, sa intercettare come pochi il disagio e la frustrazione della modernità, dando vita a cupi racconti che descrivono l’ingranaggio di un sistema, in cui i protagonisti rimangono inesorabilmente intrappolati. È questo il caso di The Game – Nessuna regola, Fight Club, Panic Room, Mank e soprattutto Zodiac, altro film incentrato su uno spietato assassino.

    La storia di uno dei più celebri serial killer della storia americana (tematica su cui David Fincher ha poi basato anche la serie Mindhunter) e i libri sulla vicenda scritti da Robert Graysmith (interpretato nel film da Jake Gyllenhaal) sono il perfetto punto di partenza per un’opera in grado di sintetizzare brillantemente il cinema di questo grande regista: un thriller poliziesco mascherato da procedural drama (o forse il contrario?), in cui la ricerca di un assassino senza nome e senza volto unisce, stimola e infine distrugge un gruppo eterogeneo di personaggi, coinvolti in un mistero che fonde violenza, simbologia ed enigmistica (di nuovo la dimensione ludica).

    Un lavoro che prende apertamente posizione su uno dei più noti cold case, ma paradossalmente mette la figura del presunto colpevole Arthur Leigh Allen (un inquietante John Carroll Lynch) in secondo piano, concentrandosi invece sui risvolti della ricerca sulle vite e sulla psiche di coloro che danno la caccia al Killer dello Zodiaco.

    Zodiac: ossessione, mistero e fallimento in uno strepitoso thriller di David Fincher

    Zodiac

    Ci troviamo nella California dell’estate del 1969, la stessa in cui ha perso la vita Sharon Tate nel corso del famigerato eccidio di Cielo Drive, rivisitato da Quentin Tarantino in C’era una volta a… Hollywood. Nei pressi di San Francisco, una coppia appartata in auto viene aggredita da un uomo, che prima spara ai due e poi telefona alla polizia per segnalare quanto avvenuto e rivendicare l’azione. Parallelamente, la redazione del San Francisco Chronicle riceve una lettera anonima dall’assassino, contenente dettagli sul crimine e la richiesta di concedere spazio alla sua figura. Nasce così un’indagine tuttora irrisolta (non si è mai trovata una prova schiacciante nei confronti di Arthur Leigh Allen e degli altri principali sospettati), condotta prima dal giornalista di cronaca nera Paul Avery (Robert Downey Jr.) e a seguire dal giovane vignettista Robert Graysmith e dal detective Dave Toschi (Mark Ruffalo).

    David Fincher è personalmente legato alle vicende narrate in Zodiac, dal momento che il regista durante la sua infanzia ha vissuto vicino ai luoghi dei primi omicidi, respirando il clima di tensione, sospetto e paura generato dalle azioni del Killer dello Zodiaco. Una vicenda che ha profondamente segnato e influenzato il regista, che come abbiamo visto ha poi saputo realizzare pregevoli e agghiaccianti ritratti di assassini seriali sul grande e sul piccolo schermo. Esperienza personale e cinefilia si fondono in un racconto che attinge chiaramente tanto al teso rigore di Tutti gli uomini del presidente quanto alla frustrante e ossessiva parabola dei protagonisti di Memorie di un assassino di Bong Joon-ho, incentrato su un serial killer definito non a caso “Lo Zodiac coreano”.

    Zodiac: fra storia vera e finzione

    Zodiac

    Curiosamente realtà e finzione si sono intrecciate in maniera opposta nel film di David Fincher e in quello di Bong Joon-ho. Memorie di un assassino mette infatti in scena l’impossibilità di giungere alla soluzione di un caso che è poi stato risolto anni dopo l’uscita del film, mentre Zodiac, come anticipato poc’anzi, propende nettamente in direzione della mai dimostrata colpevolezza di Arthur Leigh Allen, mettendo in evidenza fin dalla prima apparizione in scena i tratti più oscuri e inquietanti del personaggio di John Carroll Lynch. A ciò si aggiunge il cortocircuito narrativo per il quale i protagonisti di Zodiac si ritrovano a una proiezione di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, a sua volta liberamente ispirato al Killer dello Zodiaco, che rende ancora più evidente la dimensione postmoderna del film.

    David Fincher ci porta dietro le quinte dell’indagine, all’interno del vortice di indagini, intuizioni, errori e false piste che accompagnano casi di questo tipo. Soprattutto nella prima parte di un racconto lungo e corposo (ben 157 minuti di durata), le tipiche dinamiche del thriller si accompagnano a una lucida e malinconica rappresentazione di un giornalismo ormai scomparso, devoto alla ricerca della verità con risultati spesso migliori di quelli delle forze dell’ordine. Un parallelo sottolineato a più riprese dallo stesso regista, che mette fondamentalmente sullo stesso piano l’ossessione per il caso di un giornalista, di un detective e di un vignettista con la passione per l’enigmistica.

    Un thriller nel thriller

    Le luci, i costumi e gli elementi scenografici contribuiscono a un’impeccabile ricostruzione dell’epoca, che è allo stesso tempo cifra stilistica di un racconto che a tratti ha un taglio quasi documentaristico e chiave narrativa di un’opera desiderosa di farci avvicinare il più possibile al cuore di un’indagine, per poi disintegrarla insieme ai suoi protagonisti. Come i personaggi di Fight Club, talmente afflitti dal sistema da crearne uno ancora più folle, come i fratelli di The Game, trascinati nella spirale distruttiva e perversa di un gioco, come il Brad Pitt di Seven, vittima della follia che cerca di razionalizzare, come Jodie Foster e Kristen Stewart, imprigionate in un rifugio, come lo stesso Herman J. Mankiewicz, in bilico fra realtà, finzione e macchina produttiva durante la lavorazione di Quarto potere, i protagonisti di Zodiac sacrificano la loro intera esistenza sull’altare di un’idea sfumata, di un codice che non possono decifrare.

    Da avido indagatore degli anfratti più reconditi dell’animo umano, della fallibilità e dell’impossibilità di raggiungere un reale, prolungato ed equilibrato appagamento, David Fincher indugia su questi relitti umani, mostrandoci un Paul Avery progressivamente consumato dall’alcool e da una spirale autodistruttiva e un Dave Toschi talmente devastato dal caso da respingere vigorosamente un suo nuovo coinvolgimento, mantenendo però il piede sulla porta che lo separa da una risposta anelata per anni. Un percorso intrapreso in maniera meno evidente anche da Robert Graysmith, che mette in secondo piano carriera, figli e matrimonio per una suggestione, ai suoi occhi talmente lampante da trascinarlo in un sinistro scantinato (un thriller nel thriller, capolavoro di tensione di David Fincher giocato sui suoni e sulle atmosfere) e da appagarlo attraverso un fugace ma emblematico incontro con Arthur Leigh Allen.

    Zodiac: l’impossibilità di dare ordine al caos

    In un’epoca in cui il true crime è diventato uno dei generi più popolari e transmediali, grazie a cinema, serie, documentari, saggi e podcast, la visione di Zodiac acquista un senso ancora più potente e profondo, spingendoci a riflettere sul nostro approccio a una narrazione grazie a cui il giallo e l’orrore irrompono nella vita vera, permettendoci di osservarli da una distanza abbastanza ravvicinata da assaporarne il brivido, ma sufficientemente sicura da non esporci a veri pericoli. Un desiderio voyeuristico e contraddittorio, che in fondo è una delle dinamiche fondanti del cinema stesso, cavalcata abilmente da un David Fincher in stato di grazia.

    Il regista rende la parabola del Killer dello Zodiaco un’emblema dell’impossibilità di dare ordine al caos e della fallace parzialità del nostro punto di vista. Lo stesso approccio al racconto, che mette al centro Robert Graysmith, autore dei libri su cui il film è basato e protagonista in prima persona della vicenda, ci dice che in fondo Zodiac è l’opera di un narratore ossessionato e quindi non necessariamente affidabile, proprio come quello di Fight Club e proprio come il protagonista di The Social Network Mark Zuckerberg, uno dei simboli dell’era della post-verità. Mentre scorrono i titoli di coda, ci ritroviamo così più persi che mai, in amara contemplazione delle macerie umane lasciate da un desiderio impossibile da realizzare.

    Zodiac

    Overall
    9/10

    Valutazione

    Traendo ispirazione dalla vera storia del Killer dello Zodiaco, David Fincher firma uno strepitoso thriller sul potere autodistruttivo dell’ossessione e sull’impossibilità di dare ordine al caos.

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    La cripta di Lost in Cinema

    Immaculate: recensione del film con Sydney Sweeney e Benedetta Porcaroli

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    Immaculate


    Gravidanze maledette, come in Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York; un gruppo di giovani donne isolate in un sinistro edificio in cui avvengono innominabili malefici, come in Suspiria; suore alle prese con l’orrore, come in The Nun – La vocazione del male. C’è tutto questo in Immaculate, controverso film horror diretto da Michael Mohan, che dopo The Voyeurs torna a collaborare con la lanciatissima Sydney Sweeney, sulla cresta dell’onda per la serie televisiva Euphoria, per la rom-com Tutti tranne te e per il deludente cinecomic Madame Web.

    Ci troviamo in Italia (Immaculate è stato girato nei pressi di Roma), dove in un antico convento cattolico arriva la giovane suora Cecilia (Sydney Sweeney), che ha deciso di dedicare la sua vita alla fede dopo essere miracolosamente sopravvissuta all’annegamento. Giunta sul posto, Cecilia inizia a notare personaggi ambigui come Padre Sal Tedeschi (Álvaro Morte) ed eventi inquietante. Il suo disagio è parzialmente attenuato dall’amicizia con la sbarazzina suora Gwen (Benedetta Porcaroli), ma deflagra nel momento in cui apprende di essere incinta, pur essendo ancora vergine. Inizia così la discesa in un abisso fatto di orrore, violenza e sottomissione, fra visioni agghiaccianti e sinistri misteri.

    Immaculate: Sydney Sweeney scream queen in un horror anticlericale

    Courtesy of NEON

    Giunto nelle statunitensi e on demand (ancora nessuna notizia ufficiale su una distribuzione nelle sale italiane) in concomitanza con Omen – L’origine del presagio, Immaculate curiosamente condivide con il prequel de Il presagio diversi risvolti della trama, nonché l’ambientazione romana e il sempre gradito mix fra orrore e religione. Rispetto al coevo film di Arkasha Stevenson, Michael Mohan calca ancora più la mano sulle sfumature più blasfeme, dando vita a un racconto che miscela una visione quantomai negativa della Chiesa, del suo tentacolare autoritarismo e della sua omertà con un erotismo mai esplicito ma sempre tangibile, che non si limita alla celebrata e pubblicizzata sensualità della protagonista ma comprende anche le altre suore, dipinte alla stregua di ancelle di un potere oscuro e maligno.

    Il regista non inventa nulla, ma attinge all’ampio campionario del cinema anticlericale, fatto delle più disparate stranezze, di distorsioni di immagini sacre, di figure religiose tutt’altro che rassicuranti e di scenografie cupe e anguste, che trasudano mistero e malvagità. A dare forza e vitalità all’insieme è la regia di Michael Mohan, che prima alza al massimo la tensione, lavorando sulla suggestione e sulle atmosfere, poi incendia Immaculate, dando vita a un coraggioso climax di sangue, sacrilegio e vendetta.

    La pungente riflessione sulla maternità

    Benedetta Porcaroli in una scena di Immaculate
    Courtesy of NEON

    Il fiore all’occhiello è proprio Sydney Sweeney, alle prese con un ruolo di suora ingenua e sperduta che con il passare dei minuti si trasforma in una vera e propria scream queen. Il suo volto innocente e angelico muta così in una maschera di paura e rabbia, in parallelo a una narrazione che indugia nelle cospirazioni più sconvolgenti e raccapriccianti. Terreno fertile per un finale davvero memorabile, che ancora una volta si addentra nei medesimi territori del franchise di Omen, chiudendo con un’ultima scioccante sequenza un lavoro in netta controtendenza con le opere ovattate e fintamente rassicuranti che infestano il cinema contemporaneo, horror compreso.

    A fare da classica ciliegina sulla torta è una riflessione ficcante e pungente sul tema della maternità, ancora più importante e coraggiosa in quanto arriva in un momento in cui in diverse nazioni le frange più retrograde e conservatrici cercano di mettere in discussione diritti acquisiti, come quello all’interruzione della gravidanza.

    Sydney Sweeney in una scena di Immaculate
    Courtesy of NEON
    Overall
    7/10

    Valutazione

    Michael Mohan firma un riuscito horror anticlericale, dominato da un’efficace Sydney Sweeney in versione scream queen.

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    Cattiverie a domicilio: recensione del film con Olivia Colman e Jessie Buckley

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    Thea Sharrock è indubbiamente una regista in grado di districarsi fra diversi generi ed è solita incentrare le sue opere su una forte tematica, ossatura per l’intera narrazione. Lo abbiamo visto con Io prima di te, dramma con Emilia Clarke e Sam Claflin su un amore talmente forte da resistere alla malattia e alla morte; ha seguito lo stesso canovaccio L’unico e insuperabile Ivan, film a tecnica mista dal forte messaggio ambientalista; sulla stessa lunghezza d’onda The Beautiful Game, distribuito qualche settimana fa su Netflix e basato sul potere salvifico del calcio. Ritroviamo la medesima attitudine in Cattiverie a domicilio, commedia che strizza l’occhio al giallo ispirata a una storia vera accaduta un secolo fa a Littlehampton, in Inghilterra, spunto per una moderna e puntuale riflessione sul patriarcato.

    Ci troviamo in una piccola cittadina sul mare, dominata dal pregiudizio e dall’ipocrisia. La devota bigotta Edwith Swan (Olivia Colman) e altre donne del luogo iniziano a ricevere alcune lettere anonime, farcite di insulti e oscenità. Indurita dal rapporto col padre Edward (Timothy Spall), maschilista e maniaco del controllo, Edwith punta il dito contro Rose Gooding (Jessie Buckley), irlandese sbarazzina e anticonformista. Nonostante le pressioni sempre più forti su di lei, quest’ultima si dichiara innocente. Nel frattempo, l’agente Gladys Moss (Anjana Vasan), convinta dell’estraneità di Rose ai fatti, insieme ad alcune donne della cittadina inizia un’indagine parallela per risolvere questo insolito mistero.

    Cattiverie a domicilio: insulti e sessismo in una gradevole commedia del mistero

    Pur attraversando generi e sfumature diverse, Cattiverie a domicilio è perfettamente in linea con gli altri già citati lavori di Thea Sharrock. Un film a tesi, forte di un comparto tecnico e di interpreti inappuntabili, ma mai davvero pungente e mordace. I reali eventi su cui si basa il racconto, ben più inquietanti dal punto di vista sociale e giuridico, vengono plasmati dalla regista in ottica moderna e inclusiva, con un pizzico di furbizia e con risultati dignitosi, grazie anche al contributo di Olivia Colman, Timothy Spall e Jessie Buckley. I tre si cimentano con tipologie di personaggio che conoscono a menadito (rispettivamente la donna viscida e doppiogiochista, l’uomo burbero e respingente e la ragazza vivace e indomita), sostenendo con il loro carisma e la loro espressività la sceneggiatura non particolarmente ispirata di Jonny Sweet.

    Thea Sharrock gioca a carte scoperte, parlando del presente attraverso il passato. È infatti palese il collegamento fra le lettere offensive ricevute dalle donne di Littlehampton e l’odio che cova oggi sui social, favorito dall’illusoria sensazione di anonimato e impunità. Altrettanto limpida l’ottica moderna dalla quale è inquadrata la vicenda, esplicitata da alcune scelte di cast particolarmente inclusive, dalla dinamica di riscatto femminile e dal lucido ritratto della falsità serpeggiante in tutta la cittadina. Un ritratto ai limiti del caricaturale soprattutto per quanto riguarda i personaggi maschili, che spesso si trasforma in un boomerang narrativo, depotenziando l’urgente e condivisibile messaggio lanciato da Cattiverie a domicilio.

    La riflessione femminista

    Cattiverie a domicilio

    La trama del film ha diversi punti di contatto con la pietra miliare di Henri-Georges Clouzot Il corvo, ma almeno per gli spettatori più smaliziati è facile intuire con largo anticipo la soluzione del caso. A impreziosire il racconto è così soprattutto lo scontro fra i personaggi di Olivia Colman e Jessie Buckley, che dopo aver interpretato lo stesso personaggio in età diverse ne La figlia oscura tratteggiano due donne agli antipodi, ma in fondo accomunate da una società retrograda e soffocante, in cui l’insulto (anche in forma scritta) diventa atto liberatorio e quasi rivoluzionario.

    Con l’intreccio che vira verso il legal drama, questi due poli opposti iniziano ad attrarsi, mettendo in luce i veri nemici comuni. Emerge così una riflessione femminista e progressista tutt’altro che disprezzabile, annacquata però da un impianto narrativo che smussa gli spigoli della storia e cerca di mordere solo mettendo in ridicolo il male e non indagando sulle sue radici. Il risultato è un film gradevole e di buona fattura, che nel tentativo di accontentare tutti finisce per non graffiare mai per davvero, fermandosi alla superficie di un tema molto più complesso.

    Cattiverie a domicilio è attualmente in programmazione nelle sale italiane, distribuito da BiM Distribuzione e Lucky Red.

    Cattiverie a domicilio

    Overall
    6/10

    Valutazione

    Thea Sharrock firma una gradevole commedia del mistero, che si ferma però alla superficie di problemi ben più complessi.

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