The Informer - Tre secondi per sopravvivere Recensione

The Informer - la recensione del thriller con Joel Kinnaman

15 ottobre 2019
3.5 di 5

Alla sua seconda prova col cinema internazionale, Andrea Di Stefano conferma le sue doti nel trarre il massimo dal budget che gli è concesso e nella direzione degli attori.

The Informer - la recensione del thriller con Joel Kinnaman

Se pensiamo a un dramma criminale ambientato a New York, la mente corre subito a film come Il braccio violento della legge, Serpico, Il Papa di Greenwich Village, Il Padrino, Bronx 41° Distretto di polizia e Il giustiziere della notte, realizzati negli anni Settanta e Ottanta con stile da guerriglia, nelle strade sporche e pericolose dei boroughs, tra spacciatori, mafiosi e poliziotti corrotti: la Grande Mela marcia, insomma, che ha fatto da sfondo alle opere di Scorsese, Spike Lee e Lumet, ma che è sempre più raro trovare al cinema. Certo, qualsiasi paragone con quel cinema, possibile solo allora, sarebbe oggi ingeneroso, ma non appena vediamo sullo schermo quei familiari paesaggi o le divise del potentissimo NYPD, quasi per un riflesso pavloviano siamo più interessati a seguire quello che ci viene raccontato.

Alla sua seconda regia, a cui è arrivato con la fama conquistatasi sul campo con la regia di Escobar – Paradiso perduto, Andrea Di Stefano si è trovato a gestire una situazione preesistente che lasciava poco spazio alla creatività personale ma è riuscito a imporre la sua visione, come ha raccontato, al punto da ottenere di riscrivere la sceneggiatura (tratta dal best seller crime svedese, “Tre secondi”) di un autore noto come Rowan Joffe, autore di The American e Brighton Rock. Costretto a confrontarsi con le limitazioni di un budget medio-basso, un controllo produttivo più serrato e le regole di una città oggi molto diversa, in cui è difficile e rischioso anche rubare senza permessi una singola inquadratura, riesce comunque a fare di The Informer un thriller dalla tensione ben costruita e una interessante variazione su un tema già noto.

Il film parte subito in medias res, quando Pete Koslow, un ex carcerato e corriere della droga, prende appuntamento col nipote di un boss della mafia polacca per cui lavora, pronto a consegnare l'organizzazione criminale all'FBI con cui ha deciso di collaborare. Lo vediamo cucirsi addosso la cimice e mandare “in campeggio” la figlia e la moglie, per evitare loro inutili rischi. Ma quando le cose vanno in modo imprevisto e un poliziotto resta ucciso, i federali lo lasciano al suo destino, e il suo capo pretende che torni nel carcere duro da dove è uscito per spacciarvi droga per suo conto.

È nella parte carceraria che il film acquista maggior interesse e autenticità perché ogni scena è realizzata in modo più realistico e tenendo conto della situazione attuale. Il carcere in cui si trova rinchiuso il protagonista è un inferno in cui la sovrappopolazione costringe a camerate affollate e pericolose, dove rischi una morte atroce e tutti sanno se sei un dead man walking sul cui capo pende una condanna capitale inflitta non dallo stato, ma dalle gerarchie criminali che si spartiscono il territorio in questo universo opprimente e claustrofobico. La violenza è rappresentata con sofferente realismo e Di Stefano approfondisce i personaggi al di là della trama che in alcuni momenti mostra le maglie delle riscritture, con alcuni nodi risolti forse un po' frettolosamente. Va a merito della sua regia se ne esce un'opera coesa e se seguiamo con interesse le vicissitudini dei personaggi, interpretati con molta intensità e aderenza dai bravi attori coinvolti, da Joel Kinnaman a Rosamund Pike, da Common a Clive Owen, fino all'emergente Ana de Armas e ai bravissimi e a noi sconosciuti interpreti polacchi. Da attore lui stesso, Di Stefano sa quali corde toccare per ottenere performance che siano plausibili e realistiche.

Rispetto a Escobar, che era un film di formazione sulla perdita dell'innocenza, The Informer è un'opera di genere più convenzionale che denuncia la sua genesi non originale. Parla insomma di doppi giochi, minacce e tradimenti che mettono in una situazione estrema un uomo in cerca di riscatto dagli errori passati, sacrificato in nome di un generico bene maggiore. Ma la differenza - e il pregio - rispetto ad analoghe storie americane, sta nel come lo dice, con un'ottica e una sensibilità capace di cogliere le contraddizioni e gli orrori di un sistema che non ci appartiene, se non nella sua rappresentazione cinematografica. Il film italiano che Di Stefano spera di poter realizzare sarebbe, a questo punto, un interessante punto di approdo per una carriera registica iniziata all'estero col cinema di genere, da un transfuga in parte volontario e in parte costretto, finora, a cercare altrove le storie da poter raccontare.



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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