Firenze. La peste nera del 1348 in "Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco" - Treccani - Treccani

Firenze. La peste nera del 1348

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Luigi Carlo Schiavi

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

La peste del 1348, prima spaventosa ricomparsa del morbo nel mondo occidentale dopo secoli di tregua, segna una battuta d’arresto nel crescendo culturale di Firenze. La funzione trainante della città, testimoniata in pittura dalla nuova sintassi figurativa di Giotto, viene messa in crisi dalla forza distruttiva dell’epidemia che falcia artisti della grandezza di Maso, Bernardo Daddi, Andrea Pisano (a Siena muoiono Ambrogio e Pietro Lorenzetti). La peste segna dunque uno spartiacque. Segue una stagione, nel secondo Trecento, caratterizzata nell’arte da spinte irrazionali e teocratiche. Studi recenti tuttavia hanno negato ogni nesso consequenziale fra la peste e la raffigurazione espressionistica dei Trionfi della Morte, affrescati nelle chiese e nei camposanti toscani.

1348, la ricomparsa della peste in Occidente

Da quando ci si è accorti che i giganteschi Trionfi della Morte, affrescati nelle chiese e nei camposanti di Pisa, Firenze, Prato, Bolzano, precedono tutti il fatidico 1348, anno del flagello, della peste fulminea e collettiva, è crollata una delle idee guida della storiografia medievale. Quella che, dopo gli studi di Johan Huizinga e di Millard Meiss, ha spiegato l’irruzione del Macabro nelle sue più spettrali invenzioni iconografiche con la congiuntura storica, da Apocalisse imminente, della Morte Nera.

““Non bastando la terra sacra alle sepolture, si facevano per cimiteri le chiese, nelle quali a centinaia si mettevano i sopravvenenti ed in quelle stivati come si mettono le mercanzie nelle navi, con poca terra si ricoprieno””. È il Boccaccio a svelare, della pestilenza, questi aspetti inumani e inquietanti, a raccontare le morti disperate e bestiali (“degli “uomini che morivano ci si curava come ora ci si curerebbe di capre””), a registrare la cifra di oltre 100 mila decessi nella città di Firenze.

A questi numeri la storia, più tardi, ha insegnato ad attribuire un valore più emotivo che documentario, imponendo conteggi realistici sui corpi neri degli appestati. Il costo sarebbe stato di 45 mila vittime, pari al 50 per cento della popolazione contro i 4/5 indicati dalle fonti più antiche. Resta comunque un dato agghiacciante se la peste fiorentina del 1630 ucciderà, in due diverse impennate, appena 10 mila persone.

Gli studi tendono oggi a ridimensionare il carattere eccezionale della peste nera e a inserire quella catastrofe in un flusso di carestie e di contagi per così dire ciclici. È innegabile però che, nella memoria degli uomini del Trecento, nonostante la loro familiarità con la morte e le loro attese di vita minimali, fu quella peste a diventare leggendaria.

La sua violenza, scatenatasi fra marzo e agosto, appare spaventosa e micidiale, abbattendosi su una popolazione che, per non essere in grado di arginare la prima travolgente ricomparsa della peste bubbonica in Occidente, ““per anni sarà perseguitata dal ricordo dei cadaveri ammucchiati nelle strade e dal fetore della carne che imputridiva al sole dell’estate”” (Millard Meiss, After the Black Death, 1951). Perché quei provvedimenti e quelle difese contro il potere patogeno dell’epidemia, su cui ci hanno edotti le pesti letterarie di Daniel Defoe, di Alessandro Manzoni, di Albert Camus, sono ancora di là da venire. E solo a partire dal 1403 (sulla scia di Venezia che ha introdotto alcune misure profilattiche) segregazione, lazzaretti, monatti e bandiere gialle sventolanti sulle navi infette costituiranno una prima empirica difesa.

Nelle vulnerabili città trecentesche, aggredite dalla furia devastante di quel morbo che dodici galere genovesi salpate da Costantinopoli avevano diffuso nei porti del Mediterraneo, la sola reazione è un immane sgomento di fronte a un flagello sconosciuto e indomabile. ““E io Agnolo di Tura detto il Grasso, sotterrai cinque miei figliuoli con le mie mani”” recita, sinistra, una scritta del Trecento.

Perdutasi la memoria di pestilenze ormai lontane (ultima quella che dall’Oriente aveva raggiunto l’Italia nel 570), la gente scopre atterrita le pustole nerastre dei carbonchi e nelle catene linfatiche ““certe enfiature grandi come una mela ed altre come un uovo”” che, nella prosa del Boccaccio, stanno a indicare la comparsa dei tumidi bubboni. Occhi sbarrati e accesi, sputi di sangue, vomito, febbre; ““niuno passava lo quarto giorno: e non valeva né medico né medicina; non parea che rimedio vi fosse””.

Così la Cronica fiorentina di un contemporaneo che, all’avanzata della peste nera contrappone, sul piano sanitario, una resa totale e incondizionata, aprendo la strada a quelle reazioni che accompagnano da sempre un’angoscia senza limiti: la fuga (e per conseguenza una diffusione accelerata dell’epidemia) e l’aggressività.

Più tardi, ma solo più tardi, nel riapparire frequente della peste che rispetta cadenze regolari (e un ciclo da sei a tredici anni), si analizza quella sintomatologia che segnala il profilarsi del morbo nella natura (““ire e risse rabbiose, guerre crudeli””) e nei corpi: ““febbri inusitate, orine torbide, scorticamenti di palato e d’intestini, mignatte, vaiuoli, rosolie ””.

Siamo alla fine del Quattrocento e già si azzardano le prime terapie strazianti e sanguinarie nel tentativo di isolare il bubbone (cauterio, legacci) e condurlo a maturare con impacchi di ““sterco, senape, ortica, calcina, salgemma, vetro pesto e trementina, una cipolla cotta sotto la cenere e posta ancora bollente sopra l’enfiato””. Stralcio dal Consiglio contro la pestilenza di Marsilio Ficino, che detterà legge per lunghi anni, anche se il filosofo inglese Francesco Bacone troverà quei metodi semplicemente disgusting, (disgustosi) e intrisi di superstizione.

La peste, i Trionfi della Morte, la pittura teocratica del secondo Trecento

Ma per tornare all’inizio, all’interazione fra la peste e la vita o, nel nostro caso, fra la peste e l’arte, il nodo da sciogliere non è nella storia ma piuttosto nella storiografia. Per via di un libro geniale e intrigante stampato a Princeton nel 1951: After the Black Death di Millard Meiss. Protagonista la Morte Nera del 1348, intesa come fattore determinante della sterzata regressiva della pittura fiorentina nel secondo Trecento.

Siamo ormai scivolati nel dopo-peste e qualcuno si è chiesto se lo studioso americano avesse davvero ragione o se non agissero in lui suggestioni provocate dal conflitto mondiale, allora da poco sedato. Se, in altre parole, quella tendenza trascendente e teocratica, neomedievale e antigiottesca, che Meiss inseguiva nella pittura a Firenze, oltre la linea di demarcazione segnata dalla peste nera, non dovesse leggersi come proiezione inconscia di tendenze figurative a lui contemporanee. Quasi che la vocazione astratta della pittura americana del dopoguerra avesse condizionato Meiss nell’interpretare, per analogia, la pittura metastorica (e dottrinaria e conservatrice) di Andrea Orcagna e del suo seguito a Firenze. Mi riferisco ad Andrea di Cione, detto l’Orcagna, architetto, scultore e pittore attivo fra il 1343 e il 1368, protagonista di un’interpretazione rituale, macchinosa e ornatissima del gotico fiorentino.

È certo comunque che una prospettiva di quel tipo sacrifica pittori di grande bellezza a cominciare dal misterioso Giottino (Giotto di Maestro Stefano, attivo a Firenze fra il 1350 e il 1370) e si fonda su un nesso consequenziale (tragedia della peste/sua esorcizzazione nei Trionfi della Morte in pittura), che nuovi accertamenti cronologici hanno poi infranto senza pietà: al 1340-1343 viene datato il grandioso Trionfo della Morte affrescato da Buffalmacco nel Camposanto di Pisa.

Al contrario, gli studi storici recenti – ma già lo racconta il Boccaccio – dicono che lo choc traumatico da pestilenza sfocia facilmente nella lussuria, nell’amore sfrenato per la vita e lo sfarzo: vesti, cavalli e nozze sfolgoranti.

La decimazione infatti aveva concentrato i capitali e rimpinguato notevolmente le doti, cancellando in fretta il ricordo della ricerca affannosa di cibo per soccorrere i parenti appestati. Quando zucchero, miele e confetti, che la farmacopea prescriveva ai malati, costavano cifre da capogiro. E quando la sagoma di san Sebastiano, splendido come Apollo di cui rappresentava la cristianizzazione iconica, si ergeva sola contro il flagello a intercettare, con la sua bellezza androgina, nuvole di frecce (frecce simboliche, come lo erano le frecce mortifere scoccate dal dio Apollo) per fare scudo, con il suo corpo eburneo, alle genti indifese delle città. E qualche volta – scherzava Giulio Carlo Argan davanti ai dipinti con l’immagine protettrice del santo – se ne usciva irto come un puntaspilli.

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