12 anni schiavo Recensione

12 anni schiavo - la recensione del film di Steve McQueen

03 febbraio 2014
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Quello del regista inglese è solo l’ultimo in ordine di tempo in un lungo elenco di film eticamente “importanti” che raccontano la loro storia di soprusi e sofferenze.

12 anni schiavo - la recensione del film di Steve McQueen

C’è una scena, in 12 anni schiavo, che ci pare forse la più significativa.
Quando l’odioso carpentiere interpretato da Paul Dano tenta di linciare il protagonista Chiwetel Ejiofor, e viene fermato, lo schiavo non viene però liberato dal cappio che lo stringe: dovrà essere il padrone della piantagione, a farlo.
E allora Solomon rimane così, appeso per il collo, le punte dei piedi che faticosamente toccano il terreno fangoso, sofferente, agonizzante; rimane così per ore, in attesa che torni il suo padrone, mentre attorno a lui gli altri schiavi si svegliano, ridono, giocano, lavorano, incuranti dell’orrore che si trova a pochi metri da loro.

Quella scena non è la più significativa perché racconta, come molti altri film che trattano del Male umano, come la banalità dello stesso diventi facilmente abitudine e normalità per le stesse persone che lo subiscono. Perché quest’idea, pur sacrosanta e centrale nel film di Steve McQueen, viene ribadita ossessivamente lì come altrove.
Non è nemmeno la più significativa per la composizione attenta e pittorica dell’inquadratura, per la sapienza con la quale la luce è stata tagliata, e il sonoro montato e adeguato: perché non si sono dubbi che 12 anni schiavo sia figlio di uno sguardo formalmente attento e pronto a scartare esteticamente verso terreni astratti e “artistici”, sia nell’uso delle immagini che del tappeto sonoro, efatizzando le sospensioni che aspettano di essere riempite di senso.

No.
Quella scena è significativa perché simbolica del rapporto dello spettatore con il film. 12 anni schiavo lo si guarda, lo si vede, lo si riconosce; magari lo si compatisce. Ma il male e l’orrore che racconta non si tocca se non con lo sguardo: non ci tocca, ci lascia alle nostre vite come nulla fosse.
Sotto la sua eleganza formale, all’evidenza di tematiche indubbiamente importanti e (per questo) fagocitanti ogni considerazione al riguardo, 12 anni schiavo è solo l’ultimo in ordine di tempo in un lungo elenco di film eticamente “importanti” che raccontano la loro storia di soprusi e sofferenze, e dove lo schiavismo sarebbe perfettamente intercambiabile con la Shoah o con la violenza di una dittatura o con qualsiasi altro orrore; e lo fa, come altri hanno fatto,con il chiaro intento di stimolare un’indignazione salottiera, uno scandalo passeggero, e non di perturbare realmente le certezze e la coscienza di chi guarda.

Alla sua terza prova dietro la macchina da presa, McQueen sembra estremizzare i difetti già presenti in Shame, convinto che l’importanza del tema e l’emotività della storia possano sorreggere le sue ambizioni e dare senso alla costante tensione alla rarefazione che contraddistingue il film, e che scivola nelle patinature di chi è fin troppo consapevole dei propri mezzi. E, al contrario, dimentica come era stato capace di raccontare le sofferenze del corpo e della mente in Hunger, di come avesse trovato il sentiero narrativo e formale capace di combinare testa e pancia senza penalizzare nessuna delle due parti e di lasciare segni scomodi e profondi nel suo spettatore.

McQueen ha richiesto a Ejiofor, comunque bravo, una performance costantemente ovattata, inebetita, un atteggiamento spaesato e sottovuoto che raccontasse la rassegnazione sotto al quale covava la speranza e la brama di vivere. E quella performance e quell’atteggiamento, per il regista, dovrebbero essere quelli degli spettatori coccolati da un dramma di cui avrebbero suppostamente bisogno di sentirsi raccontare, quasi rassicurati dalle interpretazioni degli attori e dalla sapienza della regia, sedotti con una mollezza tutta southern da un film che si abbandona, però, subito dopo i titoli di coda.

 



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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