E ora parliamo di Kevin. La famiglia, il vuoto, la vergogna

E ora parliamo di Kevin. La famiglia, il vuoto, la vergogna

Pellicola della regista inglese Lynne Ramsay, tratta dal romanzo della connazionale e scrittrice Lionel Shriver, E ora parliamo di Kevin è una storia di incomprensione e dolore familiare dalla sensibilità decisamente femminile. Non poteva che essere così, viste le donne talentuose coinvolte nel progetto, tra cui spicca Tilda Swinton.

Il Kevin del titolo è il figlio tormentato, brillante e ombroso di Franklin e Eva, la protagonista del film, una donna che, affrontando la faticosa quotidianità a contatto con un bimbo da subito difficile, vive il conflitto tra il perdere parti della propria vecchia vita, anche professionale, e il divenire madre.

Il film si apre con le immagini di Eva immersa in quello che potrebbe sembrare sangue. Si tratta, in realtà, del festival spagnolo della Tomatina e del suo tradizionale bagno nel pomodoro. La scena richiama un momento di gioia e libertà, uno scampolo di gioventù della protagonista ma l’inquietudine sottotraccia è subito palpabile attraverso l’insistita presenza del rosso e dei corpi che vi si immergono. Dopotutto, il colore del sangue, in una storia che, invece, non procede in maniera lineare, sarà il filo conduttore e anticipatore del tragico finale.

Nelle scene successive, Eva, le cui origini armene già richiamano un passato tormentato, diventa madre e cresce un figlio silenzioso, scontroso, vendicativo, che tarda a parlare e a smettere di usare il pannolino. E anche se dimostra un intelletto e una sensibilità brillanti, le usa per fare ritorsioni psicologiche e ferire la madre, le cui reazioni spesso scomposte vengono esasperate dal senso di rinuncia alla vita che questa maternità sembra instillarle.

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Un'altra scena di E Ora Parliamo di Kevin, con Tilda Swinton ed Ezra Miller

Il padre, interpretato da un John C. Reilly un po’ sottotono, volteggia attorno alla storia sorridente e incoraggiante ma, allo stesso tempo, assente e colpevolmente incapace di capire. La vita della famiglia, intanto, scorre tra le mura di una villa da upper class americana. Kevin, divenuto adolescente, si mostra sempre più sprezzante, sibillino e amante delle armi, mentre il rapporto ambivalente con Eva, per nulla aiutato dalla nascita di una sorella minore, matura e si esaspera.

A questa linea temporale se ne accosta una seconda, che mostra frammenti di un presente in cui Eva viene ostracizzata dalla comunità cittadina e in cui la nuova casa in cui pare essersi rifugiata da sola, assai dimessa rispetto a quella precedente, viene macchiata di vernice rossa per sfregio, a ricordo di un terribile evento passato. In questo frangente, il montaggio che richiama immagini e sensazioni la fa da padrone, così come una regia minuziosa nel soffermarsi su sguardi e silenzi e l’alternarsi apparentemente irregolare dei flashback svela, con parsimonia ed eccellente dosaggio del climax, la progressione della storia.

Uno degli elementi di forza del film è la sua lettura dei rapporti in chiave prettamente femminile. Il punto di vista è sempre della madre e le inquietudini legate ai comportamenti disturbanti di Kevin arrivano allo spettatore in maniera molto viscerale ed efficace.

Il montaggio alternato, a volte frenetico, invece, risulta forse eccessivo. Un maggior minimalismo e uno stile più asciutto avrebbero giovato, soprattutto da metà film in poi, quando il meccanismo inizia a ripetersi oltre il necessario. Totalmente convincenti sono le interpretazioni di madre e figlio, ovvero Tilda Swinton ed Ezra Miller, il cui rapporto si gioca su piccoli gesti, sguardi fuggevoli, mimiche accennate, in cui la Swinton si rivela vera maestra, senza risultare mai didascalico o facilmente consolatorio.

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Una scena di "E ora parliamo di Kevin", con Tilda Swinton e John C. Reilly

E per nulla consolatori sono l’ultima parte del film e il finale, laddove le linee temporali finiscono per sovrapporsi e scontrarsi, in una sorta di catarsi di sangue, vero culmine della rabbia, dell’odio e del disprezzo di Kevin verso la vita, sia essa espressa in forma di famiglia, di istituzione scolastica o, in senso più ampio, di società. I nodi vengono al pettine e ogni elemento in sospeso, ogni granello della trama trova la propria collocazione e il dramma del gesto estremo di Kevin si disvela in tutta la propria fredda premeditazione.

L’autrice pare chiedersi fino a che punto si spinga la responsabilità di un genitore in relazione con le azioni estreme del figlio e il quesito viene proposto efficacemente dal senso di vuoto e vergogna che Tilda Swinton mette in scena con grande realismo. Vi è però, nella scena di chiusura, in occasione dell’ultimo colloquio tra madre e figlio, un elemento di maggior profondità, che riguarda il divenire adulti e l’affrontare il mare d’incertezze che crescere comporta.

Soprattutto di come, dentro tale indefinitezza, si possa trovare la forza di porsi interrogativi dolorosi e scomodi. Gli stessi che Kevin, in chiusura di film, pare scoprire nella versione cresciuta di se stesso e non più solo nel rapporto conflittuale, ma allo stesso tempo autoassolutorio, con la madre.

Lynne Ramsay è una regista talentuosa e ne ha dato conferma anche suo nel film successivo, “A beautiful day”, un’opera forse più coesa e forte della presenza di Joaquin Phoenix.

E ora parliamo di Kevin non è perfetto ma è un film che scava dentro allo spettatore e lo sfida trascinandolo, con efficacia, su terreni scoscesi e verso tematiche inquietanti. Alcuni eccessi stilistici di montaggio e, in parte, di sceneggiatura si perdonano facilmente grazie alle interpretazioni eccellenti della coppia madre/figlio e a una lettura non superficiale delle intenzioni e delle emozioni che muovono i loro personaggi.

Sicuramente consigliato a chi apprezza il cinema che colpisce e fa riflettere.

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Titolo | …e ora parliamo di Kevin
Regia | Lynne Ramsay
Anno | 2011
Durata | 112 minuti

Alessio Cortelloni




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