Rami Malek ha un super potere. La dimostrazione l’ho avuta lo scorso ottobre, durante gli ultimi scampoli della fashion week parigina. Siamo all’Hotel Le Bristol e nel bel mezzo della nostra conversazione lui, di colpo, si volta verso una giovane donna che bisbiglia al telefono in fondo alla stanza: è un’assistente di Cartier, brand di cui Malek è zelante ambassador e ragione della sua presenza in Francia.
«Guardi che sento tutto,» l’avverte garbato. L’assistente diventa tutta rossa.
«Il mio udito è assurdamente perfetto», dice sorridendo, fiero della sua abilità da Superman. «Al punto che se sul set il regista mastica un chewing-gum, guardo in macchina e dico: “Sputalo per favore”».
Quindi prendete nota. Rami Malek non ha solo occhi indimenticabili che sembrano vedere tutto in CinemaScope, ma pure un orecchio finissimo. Del resto, la precisione è un’idea che torna spesso nella nostra conversazione... Ma prima di tutto parliamo del suo sguardo: impossibile non vederlo, è il trait-d’union tra i disparati e notevoli ruoli dell’attore, dal tormentato hacker sociopatico della serie Mr. Robot, al Freddie Mercury alla ricerca della perfezione musicale in Bohemian Rhapsody, fino al perfido antagonista di James Bond in No Time to Die. «Quel ragazzo batte mai le palpebre?», chiedeva, come tutti noi, Tom Hanks su GQ nel 2019 commentando il casting di Malek per la serie The Pacific di cui era co-producer. Occhi «unici», «spalancati e assonnati nello stesso tempo», che lo hanno fatto reclutare nel ruolo del sarcastico caporale Shelton, sempre pronto alla battuta pungente.
Eppure, il Rami Malek che mi sta di fronte non ha nulla del supereroe. Certo, lo sguardo è penetrante, ma il pensiero scivola alla sua battuta in uno sketch del Saturday Night Live in cui doveva parlare di sé: «È come se l’anima di un fanciullo dell’epoca vittoriana fosse intrappolata nei suoi occhi».
Una battuta scherzosa, ma non troppo, visto che a 41 anni l’attore ha un’aria insolitamente giovane, quasi senza età. Di sicuro, un particolare che non ha danneggiato la sua carriera. Vestito con una sobria camicia dal colletto militare, gilet e pantaloni neri abbinati, Malek, nativo di Torrance in California, ha l’aria di un poeta, di un artista bohémien della Rive Gauche parigina. E, forse non a caso, il nostro scambio inizia con un argomento decisamente francese: Jean-Luc Godard, Agnès Varda e la Nouvelle Vague «hanno ridefinito il cinema e io amo quando tutto viene ridefinito», dice lui che un quarto d’ora prima posava sulle scale dell’albergo, totalmente a suo agio, iper-professionale, molto fashion week sotto l’obiettivo del fotografo di GQ.
Gli ho chiesto del suo rapporto con la moda, appena ci siamo incontrati. «Non c’era giorno che mio padre non indossasse un abito», risponde pensoso, «e questo mi ha profondamente influenzato. Lui mi ha insegnato come si porta una cravatta bordeaux con un completo grigio, o una tinta unita abbinata a una camicia stampata». Precoce senso dello stile quello di Malek, il padre aveva più vestiti della madre e da bambino lui provava tutto ciò che scovava nel loro guardaroba. «Il più delle volte pescavo da quello di mio padre, ma», aggiunge ridendo, «anche da quello di mia madre. Aveva un bellissimo velo che per me era il pezzo più glam». Per Malek lo stile è anche un’armatura: «I miei ne avevano tanto», ricorda, «non avevano molti mezzi, ma trovavano sempre il modo di essere eleganti, perché questo offriva loro sicurezza e dignità». D’altronde, il suo capo preferito è una specie di corazza, quasi una divisa da supereroe, in linea col suo modo di vestire che definisce punk: una felpa con cappuccio, somigliante a quella indossata in Mr. Robot. «Una felpa nera che avrei indossato per tutta la storia. Ne avremo valutato una decina di versioni», racconta, «e a un certo punto la scelta è caduta su una di Ralph Lauren che costava 600 dollari: era conciata, ma ancora troppo raffinata per l’effetto di cui avevamo bisogno. Così mi sono presentato con una comprata per 10 dollari, però non potevo essere io a darla ai costumisti. Dovevo solo indossarla davanti al regista e fargli vedere quanto mi sentivo a mio agio. Alla fine delle riprese l’ho fatta incorniciare e l’ho regalata a Sam (Esmail, il regista, ndr). Ma è stato davvero difficile separarmene».
L’attore non era a Parigi per le sfilate o la promozione di un film, anche se la sua presenza qui ha a che fare col cinema: ha girato uno spot per l’ultima versione dell’orologio Tank di Cartier, partner Catherine Deneuve e Guy Ritchie alla regia. Il corto è stato girato sul Pont Alexandre III e il poco che ci viene mostrato, in particolare la grafica dei titoli di testa che riecheggia quella dei film di Godard, evoca tutta la mitologia francese degli anni Sessanta. Malek incarna un cineasta e la Deneuve, che lo ha molto colpito per il suo french touch, interpreta ovviamente una star. «La cosa più sorprendente è il suo essere diretta, senza fronzoli, gentile e al tempo stesso pragmatica, sincera e davvero molto divertente. Per lei la pausa pranzo era un ristorante con un servizio adeguato e caffè in una vera tazza à la française... Insomma, voleva godersi l’attimo. In America il caffè lo ingolliamo, è una frenesia di bicchieri di carta presi in certe catene che trovi nei conglomerati di tutto il mondo; quindi, è stato molto istruttivo sentirle dire “no, voglio il mio caffè così come l’ho sempre preso, e se è un problema, beh, amen”».
La voce un po’ roca, carezzevole e falsamente monotona, Malek ha un modo speciale di enfatizzare le parole «certe» e «conglomerati», esattamente come farebbe Elliot Alderson, il personaggio del cyber-anarchico in Mr. Robot. Non è un ingenuo turista che ha appena scoperto i costumi gallici, ha già un piede in Europa, vive a Londra, sospeso tra due continenti e a un bivio della sua carriera. Siamo lontani dalle tre scarne battute del giovane lettore della Bibbia nella serie del 2004 Una mamma per amica, o dal ruolo di simpatico faraone in Una notte al museo. Lontanissimi da quando consegnava le pizze a star del calibro di Andy Garcia o George Clooney, dopo aver fatto scivolare una sua foto nei cartoni nella speranza di farsi notare. L’Oscar come miglior attore per Bohemian Rhapsody, nel 2019, gli ha spianato la strada a Hollywood. Gioca in serie A, ma invece di fare la diva, come Freddie Mercury, preferisce il gioco di squadra.
Al momento di questa intervista, negli Stati Uniti è appena uscito Amsterdam, la stravagante commedia poliziesca di David O. Russell in cui Rami Malek è protagonista accanto, tra gli altri, a Margot Robbie, Christian Bale, John David Washington, Anya Taylor-Joy, Taylor Swift, Robert De Niro e Zoe Saldana. Nella storia si cala perfettamente nei panni di un ricco criminale che fa tagliare le proprie siepi a forma di svastica. Il film è ambientato negli anni ’30 e Malek ha qualcosa del seduttore hollywoodiano che potremmo trovare in un film espressionista tedesco. Ovvero, i baffi di Clark Gable e gli occhi di Peter Lorre.
Anche in mezzo a così tante star e su un set che lui stesso definisce «un magnifico caos creativo», aperto all’improvvisazione, Malek è riuscito a emergere: «Christian Bale mi diceva che in un film di David O. Russell non sai mai cosa può succedere e questo mi entusiasma». La cosa comunque non l’ha toccato. «Ricordo di essere arrivato sul set più preparato e lucido che mai», racconta spiegando dettagliatamente il suo metodo. Lui ama analizzare ogni dettaglio del proprio lavoro. «Non si tratta di essere troppo zelante, ma di farsi valere e per farlo bisogna essere il più possibile preparati, oltre che flessibili e malleabili per fronteggiare le situazioni. Se in una scena con un altro attore succede qualcosa di speciale, ecco allora questo sentimento va alimentato, devi fare in modo che l’altro ti ami, si fidi di te, e di voi. È come ballare. E quando capita spontaneamente, è talmente bello da diventare qualcosa che un coreografo cercherà di replicare proprio perché unico».
Se con il cast di Amsterdam “ballava”, un lato diverso di sé lo svela in Oppenheimer, l’attesissimo biopic di Christopher Nolan, in uscita la prossima estate, sul creatore della bomba atomica, alias Cillian Murphy. Sul set, immerso in un’atmosfera che lui definisce intensa e studiosa – «niente sedie, si sta in piedi» –, troviamo Emily Blunt, Robert Downey Jr, Matt Damon, Florence Pugh, Kenneth Branagh e il regista. «Grande eleganza, sempre in giacca e cravatta. È una mente brillante, collaborativo e si muove molto velocemente. Tra una ripresa e l’altra non si torna nei camerini, cosa che personalmente adoro». Del suo personaggio dice solo che è uno scienziato, sul film si esprime: «Considerando che si tratta di una storia sulla costruzione dell’atomica, tanto di cappello a Christopher capace di raccontarla in modo elegante. Poteva essere, come si dice… non poco elegante...». La frase si spezza. Cerca la parola giusta. Non la trova anche a dispetto dei miei suggerimenti. La cosa gli rode, una pausa eterna. In realtà, stando al mio registratore, solo di tre minuti. «Non trovo il termine, magari più tardi mi viene in mente, che strazio. Vorrei dirti qualcosa di più sul film, ma sono dannatamente bravo a mantenere un segreto».
Infatti. Impossibile estorcergli qualcosa sulla sua vita privata, sulla relazione con l’attrice Lucy Boynton, incontrata durante le riprese di Bohemian Rhapsody. Del resto, in due anni di lavorazione Malek non si è mai sbottonato, né con la famiglia né con il proprio agente, sul suo ruolo in No Time to Die, né ha mai accennato alla sua responsabilità nella morte di James Bond-Daniel Craig. Cosa ha pensato, gli chiedo, dopo la lettura del copione e scoprendo che per colpa sua 007 sarebbe finito solo, infettato da un virus e infine vaporizzato da una pioggia di missili?
«Ammetto di avere provato una specie di vertigine. Non ci potevo credere. Sono cresciuto guardando i film di Bond insieme a mio padre. Mai e poi mai avrei immaginato un giorno di interpretare uno dei cattivi della saga e, addirittura, quello che gli dà il colpo di grazia... Ero sbalordito, preso alla sprovvista e visto che spesso i film possono avere più conclusioni, fino alla fine ho pensato che avrebbero tagliato la scena della morte».
Daniel Craig, però, non gli serba rancore. L’attore e produttore di No Time to Die è stato con lui molto protettivo durante le riprese di un film che ha affrontato grosse sfide, come il cambio di regia (Danny Boyle sostituito da Cary Joji Fukunaga) e una sceneggiatura in costante riscrittura. Malek ricorda il primo giorno di set: «Per parecchio tempo ho ignorato di cosa parlasse il film. Eravamo in Norvegia, su un lago ghiacciato, sapevo che dovevamo agire in fretta, girare prima che tutto si sciogliesse. Tuttavia, non capivo cosa dovessi fare esattamente, cosa che detesto. Per fortuna indossavo una maschera e quindi in post-produzione i dialoghi si sarebbero potuti cambiare… Daniel è sempre stato fantastico con me, si è assicurato di farmi leggere i dialoghi appena possibile, man mano che la sceneggiatura prendeva forma. Ho questa immagine in mente, lui che si avvicina, mi mette una mano sulla spalla e dice: “Dai, andrà tutto bene”». Sorride ricordando il momento più inatteso di quella collaborazione: «Avevo delle idee per alcune scene e una è piaciuta così tanto a Daniel che mi ha preso in braccio stampandomi un bacio sulla guancia. “Questo fa di me una Bond girl ora?”, gli ho risposto».
Di fatto, Rami Malek ormai può diventare chiunque voglia: ieri una Bond girl, domani, forse, un regista. Racconta come continua a imparare sul set, anche quando non è in scena: «Mi fa strano vedere gli attori sparire nei camerini, in una scatoletta su ruote che non lascia proprio spazio alla creatività. Quindi faccio tutto il lavoro a casa, così durante la lavorazione posso guardare gli operatori montare la macchina da presa, osservare l’inquadratura della scena, capire quali obbiettivi useranno e perché... La scoperta e il modo in cui influisce sul racconto, ecco, questo mi piace».
Quasi un cenno alla regia, dunque, anche se Malek preferisce non saltare nessun passaggio nella sua carriera. Prima vuole diventare produttore. Ha già in mente un film di spionaggio, la storia di un uomo comune che deve superare un dolore. «Dovrebbe far riflettere visto che ci sono anche implicazioni politiche». Poi un altro, da realizzare in toto: «L’ho già scritto, ha una trama semplice, ma è una storia come non se ne vedono da molto tempo, forse mai vista, che potrei girare a Los Angeles di notte. Sono un animale notturno e non ho problemi col buio. Anzi, credo di dare il meglio la notte».
C’è poi un personaggio che Rami Malek non vuole dimenticare, o meglio vuole ridiventare: il Rami Said Malek figlio di immigrati egiziani. «Ho sempre cercato di stare alla larga da tutto ciò che sapeva di Medio Oriente. Sentivo di rischiare di essere confinato in personaggi che vediamo come orribili, ansiosi di distruggere il mondo e la civiltà occidentale (vedi il terrorista che ha interpretato nella serie 24, nda). Alla fine ho detto basta, mai più». Ora Hollywood lo cerca, lo ascolta, e lui, in omaggio ai suoi genitori, sente il richiamo delle radici. «Voglio raccontare storie come quelle dei miei, emigrati per cercare una vita migliore. Ne sto discutendo con il regista iraniano-americano Ramin Bahrani e con Sam Esmail, creatore e regista di Mr. Robot, anche lui di origine egiziana. Cerchiamo solo la storia giusta».
Malek non dimentica neanche le donne del Medio Oriente: artiste già affermate come la regista libanese Nadine Labaki, Gran Premio della Giuria del Festival di Cannes nel 2019 con Cafarnao - Caos e miracoli: «Abbiamo un rapporto meraviglioso, vorrei lavorare con lei»; o ancora agli esordi della carriera come la fotografa egiziana Amine Zaher. Malek l’ha incontrata a Dubai: «Stavo facendo uno shooting e avevo chiesto un team egiziano. È così che ho incontrato Amine. Adesso vogliamo andare insieme al Cairo, a scovare artisti da promuovere. Soprattutto donne, visto che in Egitto una donna per avere successo deve andarsene. Voglio fare qualcosa per cambiare la situazione».
Rami Malek è un camaleonte, si cala in ogni personaggio dopo uno studio minuzioso, ma senza perdersi mai. Si conosce a fondo e sa bene perché un ruolo sembra più importante di un altro. Ci racconta di quando gli hanno proposto di interpretare George Mallory, l’alpinista britannico ossessionato dall’Everest al punto di partecipare a tre spedizioni, cercando ogni volta di salire più in alto e raggiungere la vetta. Mallory scomparve nell’ultimo tentativo, nel 1924, dopo essere stato visto per l’ultima volta 245 metri sotto la sommità. Il suo corpo congelato è stato ritrovato nel 1999, ma nessuno sa se abbia mai raggiunto i fatidici 8848 metri. Una vicenda di folle ambizione e al contempo una miniera di domande esistenziali per Malek: «Amavo quella storia, ma allo stesso tempo non ero convinto che facesse per me. Una storia deve risuonarmi dentro, e così pure le persone con le quali ho un legame intrinseco».
Gli chiedo se, in quanto americano di origine egiziana, simili dubbi li abbia avuti anche quando gli è stato proposto il ruolo di Freddie Mercury, britannico di origine parsi-indiana. «No», risponde sicuro, «sapevo esattamente chi fosse: qualcuno che aveva lasciato il proprio Paese per lanciarsi in qualcosa di straordinario che sapeva di poter realizzare». Di conseguenza, Malek vede dei punti in comune con Mercury... «Con la differenza che i suoi non lo hanno appoggiato. Quando dici ai tuoi genitori che vuoi intraprendere una carriera artistica, beh, la cosa non suscita esattamente un’ondata di gioia. Però, se tu ne sei davvero convinto, è proprio questo a darti la forza di andare oltre. Io mi sono subito immedesimato in questa situazione. I miei si sono interrogati sulle mie aspirazioni artistiche e mi hanno chiesto di fare altrettanto. Appena hanno visto quanto ero appassionato e motivato, mi hanno sostenuto. Non è stata comunque una strada facile».
A prescindere dallo spot con Catherine Deneuve e Guy Ritchie, mi rendo conto che Rami Malek è il testimonial perfetto per un orologio. Il tema del tempo ha pervaso la nostra conversazione. Il tempo di prendersela comoda, di aspettare il momento giusto, il tempo necessario a diventare Freddie Mercury: «Ero parecchio intimidito ma pensavo che, avendo tempo, potevo farcela; ho impiegato due anni, ogni grammo di me stesso, corpo e anima, e alla fine il conto è tornato». Un altro personaggio storico che Malek non vede l’ora di portare sullo schermo è, al pari di Mercury, una figura monumentale e lieve, con un timing impeccabile ma impegnato in un genere assai diverso: la commedia. «Adoro il cinema, davanti al quale mi sento come un eterno studente. E mi stupisce profondamente che nessuno prima d’ora abbia mai girato una storia su Buster Keaton». Keaton, leggenda della comicità americana degli anni ’20. Attore, regista, sceneggiatore, produttore e temerario stuntman dei suoi film. Keaton che saltava da un palazzo all’altro, si appendeva ai treni e per un soffio evitava che una casa gli crollasse in testa. «L’uomo che non rideva mai», secondo i suoi contemporanei. E se pensiamo ai celebri occhi immobili e assonnati di Keaton, l’idea di Malek ha senso, risulta persino ovvia.
Gli chiedo se pensa di fare lui stesso tutte le acrobazie nel film. Sorride apertamente: «Non sono Tom Cruise, ma è difficile fare un film su Keaton senza qualche acrobazia. Farò del mio meglio, per quanto gli studios lo permettano senza che si verifichi un problema assicurativo».
Il nostro tempo è finito. Prima di andarsene, però, Rami Malek si ferma di colpo. Finalmente ricorda la parola che cercava quando parlavamo di Oppenheimer e la pronuncia con un tono da cospiratore, come se ci dicesse la password che dà accesso al suo mondo: «Appropriato». Quando si dice: il senso del tempo.
CREDITI
Testo di Léo Soesanto
Foto di Arnaud Pyvka
Styling di Stephanie Kherlakian
Stylist Assistant: Federica Centonze
Grooming: Fay De Bremeaker
Location: Le Bristol Paris