Megalopolis è lo scult d’autore definitivo: la recensione del delirante film di Coppola da Cannes 2024
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Megalopolis è lo scult d’autore definitivo: la recensione del delirante film di Coppola da Cannes 2024

L'ultimo grande maverick di Hollywood presenta in Concorso a Cannes una colossale e magniloquente fatica, che ha auto-finanziato con 120 milioni di dollari vendendo la propria azienda vinicola californiana

Megalopolis è lo scult d’autore definitivo: la recensione del delirante film di Coppola da Cannes 2024

L'ultimo grande maverick di Hollywood presenta in Concorso a Cannes una colossale e magniloquente fatica, che ha auto-finanziato con 120 milioni di dollari vendendo la propria azienda vinicola californiana

Megalopolis
PANORAMICA
Regia
Sceneggiatura
Interpretazioni
Fotografia
Montaggio
Colonna sonora

Al centro di Megalopolis c’è un utopia che parte da una sostanza, il Mégalon, grazie alla quale l’architetto Cesar Catalina (Adam Driver), relegatosi alla sommità del Chrysler Building, ha ottenuto il premio Nobel: un materiale rivoluzionario in grado di edificare una città immaginaria, New Rome, che è in tutto e per tutto una versione futuristica di New York, tanto da sorgere sulle sue ceneri dopo un disastro che l’ha colpita.

I luoghi sembrano in tutto e per tutto gli stessi della Grande Mela che conosciamo, ma a Cesar basta uno schiocco di dita per fermare il tempo e ripensare la realtà in una forma sostenibile, nella quale tempo e spazio non siano più alla mercé degli interessi e degli appetiti dei potenti senza scrupoli di turno ma vengano elette, a tutti gli effetti, a categorie dello spirito: entità plasmabili secondo le esigenze e i bisogni insopprimibili di una mente famelica e straordinaria, vettori di una concezione filosofica che basta, di per sé, a muovere il mondo, ad afferrare la luna in coda a un incubo dal quale non esiste risveglio, a muovere il sole e a tutte le altre stelle possibili, incluse quelle hollywoodiane, e a sostituirsi ad esse.

Bastano pochi minuti dell’ultima, chiacchierata e già controversa fatica di Francis Ford Coppola in Concorso a Cannes 77 per capire che il vero protagonista del film è il regista stesso, demiurgo di un sogno maledetto lungo una vita intera, che lo tormenta e l’ossessiona più di ogni altra cosa: un azzardo spericolato che coincide, per l’autore due volte Palma d’oro de La conversazione, Il padrino e Apocalypse Now, con l’ultima possibilità di rifondare l’America, e per estensione l’umanità tutta, a partire dalle sue macerie, in virtù di un vertiginoso gioco semiotico in cui la crisi dell’impero romano, che rivive nei nomi di tutti i personaggi, è perfetta metafora delle crisi del presente: È quando la gente smette di credere, che l’impero comincia a crollare.

Dall’altra parte della barricata, rispetto a Cesar, c’è la sua nemesi Frank Cicero (Giancarlo Esposito), sindaco di New Rome e artigiano corrotto e conservatore del cemento, ancorato a una forma vecchia, marcescente e più che mai putrida di pensare il mondo. Intorno a loro gravitano donne che sono manichini umorali, asservite ai disegni di una grandeur tutta maschile, interessi di potere, personaggi sopra le righe di ogni ordine e risma, ma soprattutto squarci crudeli, cartooneschi e visionari con i quali l’ultimo maverick di Hollywood firma un film folle e delirante, animato da quella stessa megalomania che Coppola non ha mai abbandonato per tutta la sua vita: un opus magnum, per dirla ancora coi latini, condannato ed esaltato dal dover essere bollato come capolavoro – da chi vorrà abbandonarsi senza remore alla sua vertigine teorica – o come sfacelo, a seconda dei punti di vista.

Con Megalopolis, Coppola, che nel film ha investito 120 milioni di dollari auto-finanziandolo di tasca propria e vendendo la propria azienda vinicola californiana, firma il suo testamento autolesionista, al contempo viaggio allucinato nelle ossessioni di un artista e Babilonia di riferimenti e citazioni che oscilla, senza alcun timore né pudore, dal kitsch al trash duro e puro: un colossale scult d’autore, in cui tutto è bigger than life perché è il cinema, da sempre e nella concezione coppoliana, a essere più grande – e soprattutto sempre e comunque più definitivo – della vita stessa.

Da tanti punti di vista è un’operazione irricevibile, senza pubblico, senza mercato, ed è dunque perfettamente coerente che il cineasta l’abbia auto-prodotto in barba a qualunque diktat e contro ogni buon senso. Il personaggio più sano mentalmente e paradossalmente più autorevole del film non a caso è tanto il protagonista, quanto il nipote del banchiere Crassus (Jon Voigt), ovvero Clodio, interpretato da Shia LaBeouf, che presta al ruolo tutto il suo carisma provocatorio e sfacciato per dar vita a un ragazzaccio populista che incarna le tensioni più disdicevoli del presente.

Megalopolis non è certamente un bel film, anzi, è un monumento alla disgrazia e al disfacimento che sembra sortire proprio l’effetto opposto di ogni rassicurante bella forma, di qualunque armonia novecentesca tra forma e contenuto: è un’opera che sembra compiacersi della propria insostenibile bruttezza, del suo disfacimento senza ritorno, in cui le citazioni diventano a un certo punto anche un sottopancia dell’iper-testo per immagini che vediamo scorrere sullo schermo, in chiave deliberatamente circense, e dei cartelli che simulano in chiave patinata l’estetica dell’antica Roma costellano un maxi-racconto sovrabbondante, barocco, affastellato.

Un cineasta con la carriera e il vissuto di Coppola, che Megalopolis ha iniziato a pensarlo alla fine degli anni ’70, ispirandosi al fallito attentato alla Repubblica romana del 63 a.c., può chiaramente permettersi di immergerci in questo dedalo in cui i monologhi di Shakespeare e Marco Aurelio sono ridotti a farsa macabra e la teoria delle stringhe (a fare da autista a Catalina c’è Laurence Fishburne, il Morpheus di Matrix…) è ridotta a trionfo posticcio dell’inverosimile (con tutte le conseguenze su larga scala del caso, soprattutto in termini di sfida al ridicolo involontario). Durante le proiezioni a Cannes del film, un attore è perfino salito sul palco per dialogare con Adam Driver, appena prima che Catilina si mettesse a citare Ralph Waldo Emerson: il cinema è morto, viva il cinema, sembra dire Coppola.

Foto: American Zoetrope

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