Troppo azzurro: intervista al regista e attore Filippo Barbagallo

Filippo Barbagallo e il suo debutto Troppo azzurro: “Io non sono il mio personaggio”

Dal padre produttore Angelo Barbagallo al voler dimostrare di meritarsi un posto dietro la macchina da presa - o davanti, visto che è anche attore del suo primo film - fino alla programmazione al Nuovo Sacher di Nanni Moretti, a cui tutti pensano si sia ispirato: "In verità non ho avuto riferimenti". L'intervista a THR Roma

L’elefante nella stanza lo abbiamo affrontato subito. Filippo Barbagallo, figlio del produttore Angelo, sa bene che la gente non si risparmierà in commenti, entrando nella lista della categoria che dopo l’inchiesta di Vulture ha definitivamente assunto la denominazione di nepo-baby. Eppure, che ci credano o no, far parte di una famiglia che fin da quando era piccolo lo portava sui set ha influito poco sulla sua passione cinematografica: “I film me li vedevo da solo, in cameretta”.

E la seconda coincidenza non manca ad arrivare: Nanni Moretti, che per anni ha avuto i suoi film prodotti proprio da Angelo Barbagallo, ha selezionato l’esordio di Filippo Troppo azzurro fin dall’anteprima alla Festa del Cinema di Roma, decidendo di inserirlo nella programmazione del suo Nuovo Sacher dopo l’uscita ufficiale il 9 maggio, distribuito da Vision Distribution.

Ma con l’autore di Caro diario non è che ci ha poi tanto parlato, almeno non molto prima dell’arrivo del film. La storia di Dario – interpretato proprio dal regista romano, classe ’95 – e del suo trovarsi in un preciso momento di stallo nella vita: la post-adolescenza. Diviso tra la ragazza per cui ha sempre avuto una cotta, una possibile relazione e il dover abitare ancora con i propri genitori.

Quindi non sa se a Nanni Moretti piace Troppo azzurro?

No.

Non glielo ha chiesto?

Quando l’abbiamo presentato durante la Festa del Cinema di Roma abbiamo fatto solo il dibattito in sala.

Glielo chiederà?

Non credo. In questo momento lo vedo come un esercente, il migliore che c’è tra l’altro, quindi sapere che vuole proiettare Troppo azzurro nel suo cinema mi fa ben sperare.

Una scena di Troppo azzurro di Filippo Barbagallo

Una scena di Troppo azzurro di Filippo Barbagallo

Sa che molti penseranno che dietro a un simile endorsement c’è il legame tra Nanni Moretti e suo padre?

Posso immaginarlo, e non è l’unica cosa che sapevo avrei dovuto affrontare. Avevo messo in conto con largo anticipo che avere un padre produttore avrebbe portato con sé le conseguenti chiacchiere. Ma l’obiettivo è cercare di essere abbastanza bravo da giustificare dove mi trovo. Se dimostrerò che il mio lavoro vale, allora spero passerà in secondo piano di chi sono figlio. Altrimenti è ovvio che un certo stigma rimane. E anche con Moretti, la gente può pensare che ci conoscevamo da anni, ma in realtà abbiamo avuto a che fare solo di recente. E non posso negare che sia bello il fatto di aver voluto accogliere il mio film.

Sarà che ha rivisto in Troppo azzurro molto del suo cinema, soprattutto degli inizi? Anche perché saprà bene che quasi chiunque ha associato la pellicola ad uno stile morettiano.

Che poi, in verità, non mi ci sono ispirato per niente. Mi piace tantissimo come regista. Ma se mi dicono che c’è una somiglianza mi tocca ammettere che, purtroppo, io non la vedo. O che se c’è non è stata cercata. Il motivo è semplice: non si può imitare uno stile talmente unico. Sarebbe un suicidio. Perciò non posso dire che abbia ricercato una specifica assonanza. Al massimo riesco a capire che i nostri protagonisti hanno un elemento che li accomuna, ossia il sentirsi sempre fuori posto.

Lei si sente fuori posto?

Quando ho scritto Troppo azzurro sì. Riconoscevo la condizione psicologica di Dario, perché so bene qual è la sensazione di trovarsi in una situazione di stallo. Mi riguardava nel profondo. Ma il film non è mai stato un mio ritratto o un’opera autobiografica, anche perché non ho vissuto gli stessi eventi e se avessi avuto quel carattere, beh, sarei stato eccessivo. Oddio, forse l’ho avuto, c’è stato un momento nella mia vita in cui mi sentivo bloccato e potrei aver avuto reazioni o sentimenti esasperati. Ma io non sono il mio personaggio.

Fare il film l’ha cambiata?

Crescere mi ha cambiato. E sì, anche fare il film. Sono andato a vivere da solo. Mi sono innamorato. Sono riuscito ad uscire da quella tarda adolescenza che mi trascinavo. C’è stato anche il covid di mezzo, parte del mio percorso al Centro Sperimentale l’ho vissuto durante la pandemia. La necessità di uscire, da casa o da una propria bolla, è diventata una priorità.

E il Centro fa parte proprio di un percorso di studi e apprendimento che l’ha portata al suo primo film, più che la sua famiglia.

Sapere di essere stato scelto al corso di sceneggiatura dopo aver superato vari step mi ha rassicurato. Durante l’ultimo anno di scuola ho partecipato a degli stage e, quando con un mio compagno abbiamo finito quello con Annamaria Morelli, ci ha chiesto se avevamo qualcosa di nostro da farle leggere. Così comincia Troppo azzurro. Da stagista. Che sia chiaro, non nego il privilegio di essere cresciuto in una famiglia che lavora nel cinema e mi ha permesso di avere una certa confidenza con un ambiente come i set. Ma la mia passione me la sono coltivata da solo. Sono uno spettatore qualsiasi. I film me li vedevo in cameretta.

Quindi nessun momento di folgorazione sul set?

No, anzi, dei set da piccolo più che il senso di meraviglia ricordo la paura di fare rumore, rompendo il sacro silenzio.

Chi le faceva compagnia?

Woody Allen. Il suo umorismo.

E tutti gli altri riferimenti che la gente vede in Troppo azzurro? Non mancano anche gli accostamenti con Un sacco bello, debutto di Carlo Verdone.

È un gioco che si fa sempre, soprattutto quando una persona è all’opera prima. Non ho avuto nessuno riferimento, ho troppa stima e timore per scomodare certi autori. Ma mi rendo anche conto di aver realizzato una pellicola molto classica nella forma, dove non ho di certo rivoluzionato il genere o inventato nulla di nuovo, quindi è ovvio che si voglia trovarne l’origine.

Tra l’altro, al Centro, ha seguito il corso di sceneggiatura, non di regia. Era in programma passare dietro la camera da presa?

Era auspicato. Ma è sempre stato merito di Annamaria, che mi ha proposto di dirigere il film.

Le sarebbe dispiaciuto affidare il copione a qualcun altro?

Non ci penso, alla fine non è mai stata un’opzione sul piatto.

Filippo Barbagallo in una scena del suo film d'esordio Troppo azzurro

Filippo Barbagallo in una scena del suo film d’esordio Troppo azzurro

E adesso che è uscito?

Sono felice di essere arrivato in fondo. La vera ansia e pressione l’ho sentita solo prima dell’inizio delle riprese. Non sapevo a cosa andavo incontro. Non avevo paura di non farlo bene o non farlo male, ma di non riuscire a farlo e basta. Di sicuro anche la distribuzione e la promozione possono essere fattori di stanchezza, ma almeno sono consapevole che non rischio di incappare in danni giganteschi, come mentre scrivi, dirigi o sei al montaggio.

Comunque, da questa chiacchierata, sembra che lei viva con un continuo senso di paura.

Chi non ne ha?

Prima di Troppo azzurro ha lavorato sui set di Tito e gli alieni e Ride. Cosa si è portato dietro, oltre a Valerio Mastandrea che ha accettato anche di far parte di Troppo azzurro?

Il contatto con la troupe. Stando lontano da dove si dirigeva e recitava, ho potuto constatare quante ore di fatica richiede stare su un set e quanto sia importante garantire gentilezza e rispetto a tutti. Con Valerio, invece, ho avuto un contatto diretto perché mi occupavo dei pick-up: lo andavo a prendere, lo portavo in giro. E sì, un po’ l’ho supplicato di entrare in Troppo azzurro. No, non supplicato, però insomma, ho insistito. Anche perché, il vero rischio non era un rifiuto, ma un riuscire ad incastrare i tanti progetti che ha.

Tra l’altro lei ha avuto il merito di mostrarci un lato insolito di uno degli attori che più spesso vediamo nel nostro panorama, ma raramente con un’aria tanto tenera.

Per me Valerio è così. Non mi sorprende che la gente riesca a intravedere in lui una certa tenerezza, di persona è l’aspetto più appariscente della sua personalità.

Cosa dobbiamo aspettarci, dunque, dopo Troppo azzurro? Il suo Dario riuscirà a diventare adulto?

Chissà. Però magari nel prossimo film il protagonista sarà qualcuno in grado di potersi pagare le bollette da solo.