Abigail: recensione del film di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Abigail: recensione del film di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Dal thriller urbano sospeso tra heist e gangster movie, fino all'horror e al parodistico, il duo di registi che aveva messo d'accordo pubblico e critica con il folle ed esilarante Finchè morte non ci separi, si perde in una contaminazione tra i generi inizialmente riuscita e poi sempre più rischiosa. In sala dal 16 maggio, distribuzione a cura di Universal Pictures Italia

Una cinematografia che sta sperimentando sempre più, tanto in termini di autorialità, quanto di contaminazione di genere è quella dell’horror, che tra panorama statunitense ed europeo non smette di indagare e osservare la paura tra i linguaggi propri dell’arthouse, del commerciale, del cinema di serie A e di serie B e così del web. Guardando al panorama horror cinematografico statunitense si ha infatti l’evidenza di una new wave sempre più interessante e promettente che vede tra i molti protagonisti nomi come David Robert Mitchell, Ari Aster, Robert Eggers, Mike Flanagan, Trey Edward Shults, Patrick Brice, David Bruckner, Jordan Peele, Oz Perkins e così il curioso duo formato da Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, gli autori di Abigail. Cosa accomuna ciascuno di loro? Il racconto familiare nel cinema horror.

Abigail: Olpin e Gillett e la contaminazione tra i generi

A distanza di un solo anno da Scream VI e cinque dall’ambizioso, folle e memorabile Finchè morte non ci separi, Olpin e Gillett tornano dietro la macchina da presa firmando la regia di Abigail, scritto da Stephen Shields e Guy Busick e prodotto dallo sceneggiatore di Zodiac, James Vanderbilt. Così come per i precedenti titoli del duo registico, anche Abigail non fa riferimento ai linguaggi dell’horror canonico, non subito almeno, muovendosi tra il thriller metropolitano – che molto deve a Michael Mann e S. Craig Zahler – e così la commedia caustica dagli echi lontanamente pulp e pop – che richiamano piuttosto esplicitamente il cinema di Kevin Smith e Quentin Tarantino, basti pensare a titoli come Dogma, Red State e Le Iene – che qui tornano in più occasioni, in un divertente e goffo gioco citazionista, destinato a coinvolgere lo spettatore ancor più della narrazione propria del film che contiene lo stesso.

Tutto ha inizio con una rapina, o meglio, con un rapimento. A seguire una lunga e decisiva sequenza di fuga in auto tra le strade della notte di una città che non ci è mai realmente dato conoscere – il cinema di Olpin e Gillett d’altronde ci ha sempre condotti attraverso non luoghi -, nel corso della quale i sei componenti della banda si confrontano tra loro, mostrando fin da subito un’evidente frattura tra professionisti e semplici amatori dell’adrenalina propria delle azioni criminali e più in generale dell’illegalità. Ed è proprio all’interno di questa sequenza che Olpin e Gillett dialogando con lo spettatore, annunciano e sottolineano una delle componenti principali del loro cinema: non vi sono nomi, piuttosto volti.

Laddove però l’importanza decisiva dei volti funzionava nell’esilarante e sanguinoso Finché morte non ci separi, qui viene meno, a causa di una scelta di casting decisamente più debole, che pur poggiando sul carisma interpretativo di nomi quali Dan Stevens, Giancarlo Esposito e Kevin Durand, non trova profondità e simbolismo nel volto di colei che lentamente – ma è chiaro fin da subito – si rivelerà la vera protagonista del film, ossia la Joey/Ana Lucía Crux di Melissa Barrera, precedentemente vista in Scream VI e perfino in quel caso piuttosto dimenticabile.

Ancora una volta, così come in Finché morte non ci separi, una villa imponente, elegante e remota e così un gruppo di persone confinate al suo interno, partecipi di un gioco al massacro sospeso tra i toni della commedia grottesca e quelli decisamente più sanguinosi, cupi e feroci dell’horror. Gioco che è destinato a non lasciare alcun sopravvissuto, se non fosse che qui, come sempre accaduto nella filmografia del duo, si parla di famiglia e di spietatezza che pur facendo capolino, svanisce.

Olpin e Gillett questa volta, mantenendo una leggerezza ai limiti del parodistico – perfino il sovrannaturale è sovrascritto e l’aspetto caricaturale prende il sopravvento -, annullano tensione e adrenalina proprie dell’horror canonico, favorendo un divertimento buffo che in più di un’occasione stona in relazione all’elemento macabro, sinistro ed efferato della faccenda, suscitando nello spettatore un’inevitabile e nient’affatto funzionale sensazione di sgomento e privazione.

Abigail: recensione del film di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Abigail: valutazione e conclusione

Abigail è molte cose e al tempo stesso nessuna. È cinema da camera, eppure è nella dimensione metropolitana che sembra funzionare maggiormente. È un horror, eppure è proprio nella dimensione comica e buffa, che lo spettatore percepisce la reale scrittura del film. Ed è un racconto familiare, un vero peccato dunque che tale verità venga svelata soltanto negli ultimissimi minuti del film, mancando d’approfondire l’unico elemento degno di nota dell’intero film. A fronte di una durata di 109 minuti, è necessario sottolineare quanto Abigail potrebbe – anzi, dovrebbe – durare almeno una mezz’ora di meno, così da non sfiancare lo spettatore tra gag tanto inutili, quanto ripetute, situazioni gangsteristiche ai limiti del ridicolo e sequenze orrorifiche prive di coraggio.

Curiosa però l’impronta stilistica del duo che dopo Finchè morte non ci separi e la parentesi Scream, torna in tutta la sua potenza fumettistica e splatter attraverso quell’improvvisa ed esilarante esplosione di corpi, capace di rendere qualsiasi scenario ed inquadratura la comprende, una bizzarra tavolozza colma di rossi accesi, bianchi sbiaditi, gialli purulenti e così via.

Più che un horror sul vampirismo ed il trauma familiare, Abigail è un goffo crime a tinte sovrannaturali, sull’importanza della fiducia e della conoscenza profonda tra i componenti di una banda. C’è chi indovina, chi osserva e chi invece se ne disinteressa, il Dean di Angus Cloud, che inevitabilmente è sempre Fezco di Euphoria – cui il film è dedicato – in questo senso merita tutta la nostra simpatia, all’interno di un lungometraggio che arranca tra protagonisti piuttosto insopportabili e respingenti ed una contaminazione tra generi inizialmente interessante e in definitiva sfiancante.

Abigail è al cinema a partire da giovedì 16 maggio, distribuzione a cura di Universal Pictures Italia.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 2
Recitazione - 2
Sonoro - 2
Emozione - 2

2.1