Corpi modificati artificialmente, corpi ipertrofici portati all’espansione più estrema e corpi assottigliati che sembrano tendere alla sparizione. Corpi che davanti allo specchio decidono di affrontare mutamenti estremi inseguendo una forma tanto più astratta e irreale quanto più definita e anatomicamente dettagliata. Una ricerca utopica, esasperata per difetto o per eccesso, alimentata da canoni estetici imposti da un contesto culturale in continuo cambiamento, che spesso si innesta su un disagio del quale anoressia e vigoressia non sono che sintomi opposti e complementari.

Con l’approssimarsi del 2 giugno, Giornata mondiale contro i disturbi dell’alimentazione e della nutrizione, è bene tornare sui numeri del fenomeno, ma anche sui contenuti dello stesso, per provare a guardare più da vicino un quadro generale che allarga la sua forbice. Come spiega Laura Dalla Ragione, direttrice scientifica della rete pubblica umbra sui Disturbi del Comportamento Alimentare, «non esistono solo anoressia e bulimia. Tra i Dca rientrano anche patologie meno note, ma sempre più diffuse: ortoressia, vigoressia, diabulimia, binge eating disorder (disturbo da alimentazione incontrollata)». La giornata del 2 giugno dovrebbe essere allora l’occasione per lanciare un allarme sui rischi connessi alla diffusione di patologie che, in Italia, contano oltre tre milioni di pazienti in carico al Ssn e che, solo nel 2023, hanno provocato quasi quattromila morti. Nei primi anni Duemila le persone che soffrivano di disturbi dell’alimentazione in Italia erano circa 300mila, oggi sono oltre 3 milioni. E il fenomeno è in aumento soprattutto tra gli adolescenti.

Ne abbiamo parlato con Francesca Marzia Esposito, partendo da un dato statistico, ma anche culturale, su cui è bene tenere una luce accesa: «C’è ancora – ci dice in chiusura di intervista – una presa di coscienza diversa nei ragazzi rispetto alle ragazze, ma le motivazioni sono simili, non c’è distinguo quando il corpo disturba». A tal proposito è utile, sempre per cercare di fare il più possibile divulgazione, citare un altro libro appena uscito: il saggio di Romana Andò, Bravi ragazzi, che decostruisce le categorie abusate tramite cui si analizza l’adolescenza, la crescita e l’identità maschile, provando a dare un’immagine che chiede di essere vista e ascoltata al di là degli schemi.

Bravi ragazzi

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Tornando ai corpi, tuttavia, come si accennava rispetto al libro di Esposito, non si tratta di numeri, ma di riflessioni che intrecciano storie ed esperienze personali, e sono utili per indagare questo mondo. Tra gli esempi riportati dall’autrice nel suo saggio narrativo Ultracorpi. La ricerca utopica di una nuova perfezione, appena uscito per Minimum Fax, si indaga su canoni estetici e trasformazione artificiale del corpo, in particolare analizzando due estremi, da una parte la danza, dall’altra il body building. Esposito infatti è ballerina e insegnante di danza, il fratello invece è un ex body builder. Nel libro c’è la sua storia, ma anche quella di casi esemplari come Ronnie Coleman, Arnold Schwarzenegger, Carla Fracci, Rudolf Nureyev e Roberto Bolle, attraverso i quali l'autrice mappa una sorta di immaginario legato al corpo e alle sue trasformazioni: «L’egemonia del corpo medio seriale – scrive – in tutta la sua piatta astrazione, regala comunque un sollievo alle masse che, con l’idea di sentirsi incluse e rappresentate, possono arginare quel senso di ansia esistenziale che l’uomo come individuo unico si porta sempre in seno».

Ultracorpi. La ricerca utopica di una nuova perfezione

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Esposito, come nasce Ultracorpi?

Il libro si apre con un capitolo “zero” dove racconto l’origine del mio interesse. L’evento cardine che ha travolto me e mio fratello molti anni fa e che poi, riavvolgendo il nastro, ho collegato con il nostro cercare riparo nel corpo magro e nel corpo grosso. Le nostre passioni, la danza e il body building, si sono cibate di quella furia che ci accomunava per il corpo perfetto. Il nostro corpo non andava mai bene. Mio fratello voleva un corpo enorme, ipertrofico, io bramavo un corpo sottile. Così lo abbiamo modificato, torturato in maniera opposta e speculare per creare il nostro ultracorpo. Poi, nel tempo, quasi per osmosi, ho cominciato a interessarmi non solo al corpo ultrasottile ma a quello ipertrofico dei culturisti. E ho ragionato sul fatto che il corpo per alcuni diventa un luogo dove sfogare le proprie scontentezze, la solitudine, le mancanze che arrivano chissà da dove.

Secondo lei che effetto ha questo interesse esasperato per il corpo sulla società contemporanea?

C’è una rappresentazione ostinata e pervasiva della leggerezza soprattutto per la donna. Il mito della leggerezza rimane intramontabile e dominante. Nella danza le punte stesse portano a un’immagine lieve, che sfiora appena il pavimento, che pesa poco. Il corpo magro è sempre stato vincente, in scena e nella vita. Ma siccome è difficile da ottenere, e genera sofferenza, allora la controtendenza attuale è quella di rivendicare la perfezione della normalità. La perfezione dell’imperfezione. Non siamo sbagliati, siamo solo personali. La body positivity fa esattamente questo, tenta di azzerare il canone dominante e accoglie la diversità, la pluralità, il corpo multiforme e quotidiano.

Come sono cambiati i corpi?

L’ultracorpo contemporaneo ha messo insieme diverse rarità. Nella danza per esempio Roberto Bolle con il suo corpo eccelso è riuscito a sposare il mito della leggerezza con il corpo scultoreo della massa. Ha creato un ibrido, un corpo statuario, un corpo armonico ed elegante e però estremamente ginnico. Ha sportivizzato in un certo senso l’immaginario del ballerino, dandogli una connotazione anche più appetibile al grande pubblico. Sportivizzare la danza vuol dire anche andare incontro a un corpo che apparentemente veicola una magrezza buona.

Cosa ne pensa dei biomateriali e delle biotecnologie per portare i corpi a iper-performare?

Il tentativo di modificare come più ci aggrada il nostro corpo per me rimane sacrosanto. Ma le trasformazioni fisiche eccessive vengono spesso additate dalla morale comune come estreme, dannose, mostruose, che fanno perdere di vista il valore etico di un corpo. Come se il corpo non fosse soltanto nostro e ogni modifica apportata personalmente potesse infastidire chi invece sceglie di vivere nel corpo ovvio. Un esempio è la chirurgia estetica, il suo uso e abuso. Il punto sarebbe solo accettare che esiste chi decide di vivere un benessere personale fatto di ciò che gli altri possono considerare mostruoso. Ci troviamo in uno spazio soggettivo del concetto di benessere. E credo che se di inclusività si voglia parlare, occorra includere il diverso in maggiore, non solo il diverso in minore che ci piace tanto e che ci rende la realtà accomodante nella sua normalità convenuta.

Che influenza hanno i social sul tema dell’immagine?

Il libro fa proprio un percorso dal corpo materiale a quello s-materiale. Un viaggio dalla materia pesante alla sua smaterializzazione. Tutta la nostra realtà è votata all’ultrasottile. Nel tech tutto è piatto, slim, leggero. Non abbiamo più bisogno della materia, ci basta la sua immagine. E così anche il corpo vive di una nuova vita utopica, distante dal suo corrispondente in 3d e al tempo stesso unito a esso come a un’eco lontana. E in questo doppio gancio la nostra immagine modificata, limata, edulcorata, liscia, perfetta, ci accalappia e ci seduce.

Cosa ci può fare lo specchio?

Il tentativo di modificarsi di solito parte da una solitudine e un’insoddisfazione, da un vuoto che non si riesce a colmare. Ci sono cose più grosse del corpo a cui non si riesce ad accedere, mentre sul corpo si riesce a mettere a fuoco. Lo specchio allora crea un circolo vizioso, porta a vedere le cose in modo distorto, porta a vedere le rinunce, gli affetti mancati, la ferita narcisistica dell’abbandono. Tutte cose che vanno a irrobustire il sostare troppo davanti allo specchio, qualcuno per sottrazione e qualcuno per addizione.

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