Maxiprocesso di Palermo: cos’è, chi erano i giudici e chi sono stati i condannati | Studenti.it

Maxiprocesso di Palermo: cos’è, chi erano i giudici e chi sono stati i condannati

Maxiprocesso di Palermo: cos’è, chi erano i giudici e chi sono stati i condannati
getty-images

Maxiprocesso di Palermo: cos’è, chi erano i giudici e chi sono stati i condannati

Fonte: getty-images

Il Maxiprocesso di Palermo è forse, ad oggi, il capitolo più importante della lotta alla mafia in Italia. La denominazione di questo processo penale, assegnata dai giornali alla vicenda, prende il nome sia dalla città nella quale si svolse il procedimento giudiziario, sia dalla portata di quest’ultimo.

Questo processo, che si è svolto nel capoluogo siciliano tra il 10 febbraio 1986 e il 30 gennaio 1992, vide come protagonisti ben 475 imputati in primo grado e circa 200 avvocati difensori, e le sentenze che ne derivarono raggiunsero un totale di 2665 anni di reclusione.

Quello che avvenne nell’aula bunker del carcere dell'Ucciardone ha segnato una svolta nella storia giudiziaria italiana, oltre a portare per la prima volta alla conoscenza del grande pubblico le attività e i personaggi di Cosa Nostra, e il peso che questa aveva ormai raggiunto in Sicilia e in tutto il Paese.

La situazione generale a Palermo

Negli anni ‘80 Palermo era una città era profondamente segnata dall'ombra della mafia, che dettava legge in molte sfere della vita cittadina, dalla politica all’economia, attraverso violenze e intimidazioni. All’inizio del decennio si era infatti verificata quella che fu poi definita “Seconda guerra di Mafia”, conclusasi con l’affermazione del Clan dei Corleonesi e del loro capo, Totò Riina, che ebbero la meglio sulla fazione palermitana guidata da Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e Gaetano Badalamenti.

Le strade di Palermo non di rado erano teatro di omicidi, spesso vere e proprie esecuzioni, con i cittadini che vivevano nel terrore di subire ritorsioni se avessero osato parlare o denunciare quanto visto. Senza contare che la mafia era ormai infiltrata anche nelle istituzioni, motivo per il quale i cittadini iniziavano a vederle sempre con maggiore diffidenza.

La nascita del pool antimafia

Fonte: getty-images

La svolta giunse quando l'Ufficio istruzione del tribunale di Palermo si dotò di un pool di giudici istruttori che lavorano esclusivamente sul problema. Il consigliere istruttore Rocco Chinnici affidò quindi le prime indagini di questo gruppo al giudice Giovanni Falcone.

Il magistrato Rocco Chinnici venne però ucciso, insieme ad altre tre persone, da Cosa Nostra nel luglio 1983, in quella che viene ricordata come “Strage di via Pipitone”. Il suo posto venne preso dal giudice Antonino Caponnetto, che mise al fianco di Falcone i giudici Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello, i quali, insieme ai sostituti procuratori, diedero così vita al pool antimafia.

Durante tutta la fase istruttoria della grande inchiesta sulla fazione dei Corleonesi, e i numerosi delitti commessi, vennero raccolte numerose prove, ma il pool dovette comunque fare i conti con la diffusa omertà che, di fatto, faceva sì che nessuno sapesse con certezza come funzionasse e in cosa realmente consistesse Cosa Nostra. Ma le cose cambiarono con l’arresto di Tommaso Buscetta.

L'arresto di Tommaso Buscetta

Tommaso Buscetta, detto don Masino, era un importante membro di Cosa Nostra, latitante fuggito in Brasile da un regime di semilibertà in Italia. Nell’ottobre 1983 Buscetta venne arrestato nella sua casa a San Paolo e, dopo un incontro con Giovanni Falcone, venne estradato, decidendo di diventare un collaboratore di giustizia.

Rompendo il cosiddetto “codice d’onore”, in una serie di interrogatori Buscetta raccontò ai giudici dettagli importanti per ricostruire l’organizzazione interna e le regole di Cosa Nostra, i nomi, i luoghi e i progetti, nonché le identità di mandanti ed esecutori di numerosi delitti.

Nonostante Buscetta inizialmente si rifiutò di parlare dei rapporti tra mafia e politica, le sue dichiarazioni segnarono un punto di svolta per le indagini, permettendo di costruire le basi per quello che sarebbe poi diventato il Maxiprocesso di Palermo.

L’aula bunker

Fonte: getty-images

Fu fin da subito evidente però che un evento così importante, dall’eco così grande e dalla difficile organizzazione, non si sarebbe potuto tenere nel Tribunale di Palermo. Per garantire la sicurezza dei giudici, dei testimoni e degli imputati coinvolti nel, venne allora appositamente costruita, nel giro di pochi mesi, un’aula bunker nel carcere dell’Ucciardone.

Un’aula ottagonale dall’alto livello di sicurezza, con pareti rinforzate e un avanzato sistema computerizzato di archiviazione degli atti, necessario nel processo che ebbe alla fine inizio il 10 febbraio 1986, alla presenza oltre mille persone tra imputati, avvocati e giornalisti da tutto il mondo.

Il processo di primo grado

Diversi enti rappresentanti delle istituzioni, tra i quali anche il Comune di Palermo, si costituirono parte civile nel processo di primo grado che vide imputati 475 membri di Cosa Nostra per vari capi d'accusa, tra:

  • Omicidio;
  • Traffico di stupefacenti;
  • Rapina;
  • Estorsione;
  • Falsa testimonianza;
  • Reticenza;
  • Associazione mafiosa.

Alcuni degli imputati più importanti, come Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, non furono mai presenti in aula, dove però testimoniarono molti mafiosi. Uno dei momenti più importanti del processo fu il confronto tra Tommaso Buscetta e Pippo Calò, considerato il “cassiere di Cosa Nostra”.

Il processo andò avanti per 349 udienze e 1314 interrogatori. Il 16 dicembre 1987, il presidente Giordano lesse la sentenza emessa dalla Corte d’assise, con la quale vennero condannati 346 imputati e 114 vennero assolti. Le condanne contarono 19 ergastoli e un totale di 2665 anni di carcere.

Il processo d’appello

Mentre Cosa Nostra proseguiva con le violenze, nel febbraio 1989 iniziò il processo d’appello, sempre nell’aula bunker dell’Ucciardone, durante il quale vennero esaminati i ricorsi presentati dalle difese degli imputati condannati nel primo grado.

Come per il processo di primo grado, anche in questa fase le rivelazioni dei pentiti hanno contribuito a chiarire ulteriormente i meccanismi e le gerarchie di Cosa Nostra. Malgrado ciò, il 10 dicembre 1990 i giudici della Corte d’Assise pronunciarono la sentenza, riducendo di oltre un terzo le condanne emesse in primo grado, che scesero quindi a un totale di 1576 anni di reclusione.

Una decisione derivante anche dal fatto che per alcuni reati i giudici non potevano avere certezza di quanto accaduto, dato che alcuni testimoni non erano considerati pienamente attendibili o, in certi casi, addirittura volutamente fuorvianti.

La sentenza

Bisognava quindi passare dalla Cassazione per mettere un punto al Maxiprocesso, la quale avrebbe potuto tanto confermare le condanne, quanto optare per ulteriori riduzioni o assoluzioni.

Per evitare questa possibilità, Giovanni Falcone fece eseguire un costante monitoraggio sui giudici della Corte.

La sentenza definitiva venne emessa il 30 gennaio 1992: le condanne vennero tutte confermate, e buona parte delle assoluzioni del processo d’appello vennero annullate, con gli imputati che vennero nuovamente mandati a giudizio.

Questa sentenza ha rappresentato un momento di enorme significato per la lotta alla mafia in Italia, dimostrando che nel nostro Paese c’erano persone ancora determinate a combattere l’illegalità. Il Maxiprocesso di Palermo è stato un punto di svolta nei rapporti delle istituzioni e dei cittadini con la mafia, restituendo una speranza di legalità a partire proprio dal territorio più martoriato da questo problema.

Altri contenuti su Storie della Lotta alla Mafia

Un consiglio in più