Il referendum sul divorzio, il trionfo dell’Italia laica

Il referendum sul divorzio, il trionfo dell’Italia laica

Il referendum sul divorzio del 1974 fu uno dei momenti cruciali della storia della Repubblica, un simbolo di cambiamento in un contesto segnato da profondi contrasti ideologici

La copertina di 'La Stampa' del 14 maggio 1974

La copertina di 'La Stampa' del 14 maggio 1974

Foto: Pubblico dominio

Il 12 e il 13 maggio 1974, interrogati sulla possibilità di abrogare la legge che quattro anni prima aveva sancito e disciplinato il diritto al divorzio, cittadini e cittadine italiani si espressero in modo inequivoco. La prevalenza del NO, con un secco 59% rispetto al quasi 41% del SÌ, impedì la cancellazione della norma già votata a maggioranza dal parlamento e difese un istituto giuridico che in molti avevano cercato di cancellare o quantomeno ridimensionare. Fu l’affermazione del laicismo in un’Italia da sempre influenzata dal clericalismo e dal conservatorismo. 

L’ora del diritto

A partire dall’unità d'Italia del 1861, qualsiasi tentativo di promulgare una legge sul divorzio si era infranto contro un muro, soprattutto a causa della Chiesa cattolica. La dittatura fascista aveva congelato la questione, chiudendo ogni spiraglio, e anche nel dopoguerra l’indissolubilità del matrimonio rimase un caposaldo della legislazione nazionale, a differenza di altri Paesi europei. Separarsi legalmente in Italia era possibile, seppur complicato, ma le norme in vigore, anche quando i coniugi non vivevano più insieme, prevedevano condizioni vincolanti per la libertà individuale, soprattutto delle donne. In presenza di un diritto di famiglia ancora arretrato, rifarsi una vita con nuovi parnter, dopo essersi sposati una prima volta, risultava piuttosto difficile e solo i più abbienti, ricorrendo alla Sacra rota, uno degli organismi di giustizia della Curia romana, potevano permettersi di sciogliere definitivamente un matrimonio

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Tutto iniziò a mutare negli anni sessanta, quando si registrò uno straordinario sommovimento democratico grazie all’impegno profuso dai gruppi femministi dell’Unione donne in Italia (UDI) e dalla Lega italiana per il divorzio (LID). Si arrivò così, dopo un confronto molto intenso, al dibattito serrato tra i partiti in parlamento, i quali riuscirono a valorizzare le nuove istanze e a portare a termine un percorso tortuoso nel dicembre del 1970. Il varo della legge n.898, detta Fortuna-Baslini (dal nome dei primi firmatari, il socialista Loris Fortuna e il liberale Antonio Baslini), fu perciò un traguardo significativo, ma anche la ragione di una contrapposizione inevitabile

Papa Paolo VI

Papa Paolo VI

Foto: Pubblico dominio

L’onda antidivorzista

Nel 1947 lo stato repubblicano, anche per motivazioni di ordine politico, aveva recepito il contenuto dei patti Lateranensi del 1929 nell’art. 7 della costituzione, garantendo al Vaticano ampie tutele e generose prerogative. Proprio richiamandosi a quel legame, instaurato negli anni del fascismo ma sopravvisuto al tempo della democrazia, la chiesa di Roma avanzò serie rimostranze sulla questione del divorzio, ritenendo inopportuna o addrittura illeggitima qualsiasi iniziativa legislativa che intervenisse sui matrimoni concordatari svolti con rito religioso (allora la stragrande maggioranza, rispetto a quelli di natura strettamente civile). Quando la contestazione fallì, una parte considerevole del mondo cattolico visse l’approvazione della legge come una forzatura inaudita. Lo stesso Papa, Paolo VI, espresse ferma contrarietà. Nonostante alcune turbolenze, la risposta non tardò ad arrivare. 

Gruppi di cattolici, per reagire, ricorsero a uno strumento previsto dalla carta costituzionale ma fino a quel momento mai utilizzato per via della mancata regolamentazione: il referendum popolare abrogativo. Le 500mila firme richieste furono raccolte già nel 1971. In vista della consultazione, fissata infine il 12 e 13 maggio 1974 a causa di una crisi di governo che dilatò i tempi, lo scontro si fece serratissimo. Il Comitato nazionale per il referendum sul divorzio (CNRD), pronto a battersi per abrogare la legge, si riunì attorno al giurista Gabrio Lombardi e venne supportato da personalità ben in vista. Dietro l’apparente ventata di moderazione, però, la carica antidivorzista fu assai decisa. Per riaffermare la centralità del cattolicesimo, l’onda che si abbatté sulla legge Fortuna-Baslini venne infatti sospinta anche da correnti d’opinione integraliste. Malgrado le iniziali cautele, così, la lotta contro il divorzio si trasformò in una battaglia identitaria, portata avanti per arginare l’orientamento dell’assemblea parlamentare e scavalcare il ruolo dei partiti. Nella convinzione che la comunità dei credenti fosse stata tradita si tentò dunque di contrapporre la volontà della piazza alle deliberazioni del palazzo, con un appello al popolo che sconfinò nell’antipolitica. Fu un clamoroso passo falso. 

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Si schierarono per il mantenimeno del divorzio, oltre che una variegata galassia di movimenti, tutti i maggiori partiti laici: il Partito comunista, il Partito socialista, il Partito repubblicano, il Partito liberale e il Partito socialdemocratico. Altrettanto importante fu poi il Partito radicale di Marco Pannella, il quale, pur non essendo ancora in parlamento, si mosse con decisione. Contro il divorzio si levarono invece tante voci. Per un ampio strato della società italiana – avverso alla modernizzazione di costumi e comportamenti – la legge Fortuna-Baslini rappresentava infatti l’inizio di un pericoloso declino morale. Per questo la Democrazia cristiana, il partito di maggioranza relativa, dopo aver votato contro la legge nel 1970, si pose alla testa del fronte per l’abrogazione sotto la spinta del suo segretario, Amintore Fanfani, convinto che l’Italia non volesse davvero il cambiamento. Al suo fianco trovò Giorgio Almirante, leader intransigente di una forza di estrema destra in cerca di legittimazione, il Movimento sociale italiano – Destra nazionale (MSI-DN). 

Amintore Fanfani, segretario nazionale della Democrazia cristiana dal 1973 al 1975 e presidente del partito dal 1975 al 1976

Amintore Fanfani, segretario nazionale della Democrazia cristiana dal 1973 al 1975 e presidente del partito dal 1975 al 1976

Foto: Pubblico dominio

Si andò così verso il primo referendum della storia della Repubblica. Il dibattito fu molto polarizzato, anche per la presenza di forti tensioni sociali e da un quadro politico destabilizzato dalla presenza di formazione neofasciste e dallo stragismo nero. Il clamoroso sequestro del giudice Mario Sossi in piena campagna referendaria da parte delle Brigate rosse, l'organizzazione armata sovversiva di estrema sinistra, non fece che aggravare la situazione. I votanti furono circa trentatré milioni, più dell’87% degli aventi diritto, e il responso delle urne fu preciso, senza ambiguità di sorta: il SÌ, l’opzione favorevole alla cancellazione della legge sul divorzio, ottenne più di tredici milioni di voti (il 40,74% del totale), mentre il NO, quella a favore del mantenimento della medesima legge, prese invece oltre diciannove milioni di voti (il 59,26% del totale). La sconfitta degli antidivorzisti fu incontrovertibile e l’Italia mostrò di essere, per citare la storica Simona Colarizi, un «Paese in movimento», attraversato da una robusta mobilitazione civile, tutta proiettata all’allargamento del perimetro democratico. 

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La delusione dei cattolici

Per i cattolici il referendum fu la fine delle illusioni e l’avvio di un ripensamento generale che condusse, più avanti, a inedite aperture e ambigui arroccamenti. I toni concilianti utilizzati dopo la sconfitta non riuscirono a nascondere la presa d’atto di una realtà amara per il Vaticano: l’influenza politico-culturale del cattolicesimo, per anni fortissima, stava inesorabilmente calando. L’Italia degli anni settanta, insomma, non era più quella degli anni cinquanta. 

Sul momento la stampa d’area, come L’Osservatore Romano, comunicò il proprio disappunto per l'esito del referendum con un certo equilibrio. La Conferenza episcopale italiana (CEI), l’assemblea di rappresentanza dei vescovi, non contestò la «volontà  espressa dalla maggioranza dei  votanti», nondimeno, in una nota ufficiale, manifestò il suo profondo rammarico «per il definitivo venir meno nella legislazione civile del modello naturale  cristiano, umanamente validissimo, di matrimonio indissolubile e di famiglia stabilmente unita». Papa Paolo VI, in un discorso del 15 maggio rivolto agli «sposi novelli», sostenne di essere deluso per il voto di una «larga maggioranza dell’amatissimo popolo italiano» e ancora di più perché, a suo giudizio, era mancata «la doverosa solidarietà di non pochi membri della comunità ecclesiale». Una parte del mondo cattolico, culturalmente attiva, aveva infatti difeso la legge, contravvenendo alle indicazioni del clero.

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Foto: Cordon Press

All’indomani del referendum Il Corriere della Sera titolò: «La democrazia si rafforza». L’Unità, il quotidiano del Partito comunista, sottolineò il contributo fornito in tutta la penisola, dalle regioni industriali ai centri operai, dalle metropoli alle campagne. Si leggeva in prima pagina: «È una grande vittoria della libertà, della ragione e del diritto, una vittoria dell'Italia che è cambiata e che vuole e può andare avanti». Enrico Berlinguer, il segretario del PCI, disse: «È un bene per il Paese che sia andata così. La sconfitta di chi aveva voluto a ogni costo il referendum, e di coloro che hanno tentato di trasformarlo in una crociata, consente ora di guardare ai gravi problemi del paese con maggiore serenità e di affrontarli con spirito costruttivo». 

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Ferruccio Parri, già dirigente partigiano, ex-presidente del Consiglio e direttore della rivista L’Astrolabio, scrisse che proprio le distinzioni tra i cattolici erano state un elemento di notevole discontinuità rispetto al passato. I «cattolici dissenzienti», infatti, si erani liberati «dalla soggezione della duplice gerarchia, della Chiesa e del Partito» e avevano compiuto un gesto «di rivoluzionaria importanza», riconoscendo la necessità, in Italia, dello «stato non confessionale, cioè laico». Scrisse Parri: «Minacce oscure covano negli oscuri soffofondi politici. Pure, se un avvenire non di disastri ci è riservato, se una base di coscienza civile rimane disponibile, il verdetto del referendum resta un punto fermo nella nostra storia politica, quello che si dice una data storica. Ed anche se temporaneamente mascherati, ritardati, deviati, è lecito sperare che gli effetti, le conseguenze di questa prova e di questa lezione restino operanti anche per l'avvenire». Si aprì allora una nuova stagione politica.

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