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Proteste degli studenti filopalestinesi -  foto GettyImages

La riflessione

Cosa resterà delle proteste nelle università? Al momento, ben poco

Guglielmo Barone

Le proteste filopalestinesi nelle università porteranno a qualche risultato sul breve o lungo termine? Per ora, il sospetto è che si tratti solo di qualcosa di effimero

Da un paio di settimane le università sono diventate il centro delle proteste di impronta filopalestinese. L’ondata, partita negli Stati Uniti, si è successivamente estesa a Canada, Messico, Australia e ai principali paesi europei. In Italia, dove il livello dello scontro è per adesso più contenuto, si discute di interrompere le collaborazioni scientifiche tra università e partner israeliani e si è annullato un convegno dedicato al 7 ottobre. Questi fatti sollecitano diversi spunti di riflessione. Di seguito, mi concentro su un paio di questioni. 


La prima riguarda gli effetti a breve termine: queste proteste influenzano le opinioni politiche dei cittadini e gli esiti elettorali immediatamente successivi (si pensi, per esempio, alle prossime elezioni europee e alle presidenziali statunitensi)? Oppure sono semplicemente qualcosa di più transitorio che scalda il dibattito pubblico e mediatico per un po’ per poi spegnersi senza un impatto apprezzabile? Per rispondere, conviene partire dai risultati degli studi degli economisti e dei politologi che utilizzano credibilmente dati e metodi quantitativi per l’analisi dei fenomeni sociopolitici. L’evidenza a oggi disponibile non è conclusiva.

 

In base ad alcuni studi, le proteste contano. Per esempio, le manifestazioni degli Indignados in Spagna (2011), delle Sardine in Italia (2020) e quelle contro Jean-Marie Le Pen in occasione delle presidenziali francesi del 2002 hanno portato voti in più alla sinistra o comunque ne hanno sottratti alla destra. In Germania, le proteste del movimento Fridays for future hanno aiutato i Verdi nel 2019. Negli Stati Uniti, le manifestazioni di Black Lives Matter hanno favorito Biden alle presidenziali del 2020, mentre quelle promosse dal Tea Party hanno accresciuto il sostegno ai Repubblicani nelle elezioni di midterm del 2010. Un lavoro più recente, che riguarda l’America e abbraccia uno spettro di proteste più ampio e un arco temporale più esteso, mette tuttavia in discussione queste conclusioni. Analizzando tutte le proteste del periodo 2017-2022, riconducibili a diversi movimenti (ciascuno concentrato su diversi temi: ambiente, razzismo, uguaglianza di genere, uso delle armi, immigrazione, guerra, impeachment), si mostra che queste iniziative accrescono molto la mobilitazione virtuale dei cittadini, con alcuni hashtag d’ordinanza che rapidamente diventano virali sui social, ma che questo eros pubblico coagulato su temi specifici si spegne poi rapidamente senza modificare le opinioni politiche né tantomeno i comportamenti elettorali. Solo nel caso della causa antirazzista, si è notato un qualche effetto alle elezioni, favorevole ai democratici. E’ presto per dire se le manifestazioni di questi giorni condizioneranno le europee o le presidenziali statunitensi. La risposta dipenderà dalla loro intensità e durata e da quanto le posizioni politiche sottostanti corrispondano realmente a un diffuso sentore sociale e non siano invece ristrette a un’élite giovanile mediaticamente sovrarappresentata. Al momento, resta il dubbio che possa trattarsi di qualcosa di effimero. Semplificando ma non troppo: stasera esco, che protesta indosso?

 
La seconda considerazione riguarda le conseguenze più a lungo termine di questa ondata di movimentismo studentesco. Un precedente a cui guardare è quello del ’68. Come è andata a finire in quell’occasione? Ci si aspetterebbe che il ’68 abbia spostato a sinistra le preferenze dei cittadini. E invece no. L’unico studio accademico disponibile analizza dati su dieci paesi e sulle proteste studentesche del periodo 1964-1979 e suggerisce che l’ubriacatura sessantottina ha portato, a distanza di anni, a preferenze politiche leggermente più conservatrici. Un riflusso interpretabile probabilmente come una reazione oppositiva agli eccessi antimeritocratici del ’68, alle sue degenerazioni violente e alla successiva stagione delle droghe pesanti. Rubando le parole a Ligabue (e alla saggezza popolare): “Nasci da incendiario, muori da pompiere”. 

 

Guglielmo Barone, Università di Bologna
 

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