La storia di Vialli conquista anche i detenuti del carcere di Saluzzo - La Stampa

Tanto acrobatici e non per tutti erano i suoi gol, quanto universali e valide anche in un carcere le dieci cose che si possono fare senza aver bisogno di alcun talento che Gianluca Vialli ci ha lasciato nel libro postumo «Le cose che ho imparato» (Mondadori), curato da Pierdomenico Baccalario e Marco Ponti. Ieri (venerdì 10 maggio) Ponti ha raccontato il Gianluca - anzi, il Luca, -, conosciuto durante le riprese del film «La bella stagione», dedicato alla favola della Sampdoria scudettata della stagione 1990/1991 e finalista di Coppa dei Campioni nel 1992, ai detenuti della casa di reclusione «Rodolfo Morandi» di Saluzzo grazie al progetto «Voltapagina» del Salone Internazionale del Libro di Torino. «Gentile, educato, generoso, ironico, appassionato: questo era Luca – ha detto Ponti -. Aveva il dono di far ridere e si impegnava sempre, in qualsiasi cosa».

Se per tante delle sue tifoserie ha assunto una statura quasi agiografica, «di cavolate ne ha fatte tantissime, come tutti: non è diventato un maestro», ha chiarito il regista. Gli eroi lasciamoli sul campo da calcio, teniamoci stretti gli uomini che, come Luca, ci mostrano cosa conta davvero. L'amicizia, su tutto. «Quella Samp che scrisse la storia era prima di tutto un gruppo di buon amici, di fratelli che si volevano bene», ha raccontato Ponti. E poi il rapporto fraterno con Roberto Mancini, «quando Luca ci ha lasciato ho pensato che Roberto senza di lui non se la sarebbe sentita di continuare la sua avventura da ct»: Vialli morì il 5 gennaio 2023, Mancini si dimise il 13 agosto. Così diversi, così legati. «All'inizio Luca tenne nascosta la malattia a Roberto per non farlo soffrire. Roberto però l'aveva saputo e per un po' gli rimase accanto senza affrontare il tema». L'abbraccio dopo il successo nella finale di Euro 2020 era quello di due buoni compagni di viaggio che non avrebbero voluto lasciarsi mai.

Alle numerose domande su Vialli - a una, quella su un'eventuale censura del suo primo libro «The Italian Job», Ponti cercherà la risposta leggendolo e documentandosi - si sono affiancate una serie di riflessioni sul sistema calcio. «Oggi ci sono una sopravvalutazione della vittoria e una certa disaffezione tra i giovani: all'epoca dei gemelli dei gol un ragazzino non avrebbe mai detto di tifare per il Real Madrid, o per una squadra italiana, ma solo un po', e solo quell'anno». Quel calcio romantico che molti dei detenuti presenti all'incontro ricordano bene non è perso per sempre. «Un suo ritorno non è impossibile: sono sempre le persone a fare la differenza e a definire le regole del sistema». E così ascoltare una narrazione della sconfitta e dell'infortunio come quella di Sinner fa credere che ci sia ancora speranza. È proprio la sconfitta secondo Luca il momento dal quale nascono i successi più grandi. Lui e Mancini non si sono fermati dopo quella nella finale di Wembley, chi è dietro le sbarre ha innanzitutto la sua storia da raccontare, un decalogo di obiettivi: essere puntuali, lavorare con onestà intellettuale, impegnarsi al massimo, esprimersi bene, essere vitali, determinati, metterci tutta la passione, lasciarsi guidare, cercare di fare sempre qualcosa in più e farsi trovare pronti - come guida e un pallone da inseguire. E pazienza se di Vialli non si ha la coordinazione o l'elevazione: il torneo interno che si sta disputando in questi giorni della casa di reclusione si può vincere in molti modi diversi, ma sempre di squadra. E chissà che a premiare i vincitori Ponti non porti un campione.

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