Michele Riondino racconta Palazzina Laf a Sentieri Selvaggi

Il regista e attore tarantino è stato ospite nella nostra sala romana per raccontare più nel dettaglio la storia di Palazzina Laf, esordio cinematografico premiato con tre David di Donatello

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“Quando ho cominciato a pensare a questo film e a questo tema ho iniziato ad avere il terrore che l’argomento potesse essere di difficile comprensione. Per me era un problema rendere chiari gli aspetti tecnici per i quali i lavoratori sono costretti a stare dentro la palazzina. Quindi ho cominciato a ragionare attorno alle modalità, alla strategia che avrei dovuto usare per poter rendere chiaro il tutto anche a qualcuno che non mastica di siderurgia, di contrattualistica e di quant’altro. L’aiuto mi è arrivato naturalmente anche dalle testimonianze che ho raccolto con i diretti interessati. La mia più grande soddisfazione, dopo l’uscita del film, è stata proprio quella di avere avuto la percezione che i messaggi fossero arrivati dove dovevano arrivare”.

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Con queste parole il regista e attore Michele Riondino ha aperto l’incontro che si è tenuto lo scorso mercoledì 8 maggio presso la sede di Sentieri Selvaggi. Un incontro durante il quale cineasta tarantino – fresco vincitore di tre David di Donatello con il suo personale esordio Palazzina Laf – ha raccontato più nel dettaglio l’esperienza vissuta nelle fasi di pre, post, produzione e “distribuzione” del film. A partire da quel tour di presentazione che, racconta lui stesso, ha fatto particolarmente presa sul pubblico: “Ci sono state diverse occasioni dove alcuni spettatori hanno raccontato la propria esperienza di mobbing. E questo mi ha colpito molto, perché io ci ho messo sette anni per fare questo film, perché ho dovuto raccogliere i materiali, ho cercato i diretti interessati e li ho intervistati, ho fatto delle lunghe chiacchierate dove ho dovuto anche trovare il modo di farmi raccontare le cose più scomode, le umiliazioni. Ma quando abbiamo portato in giro il film, in diverse piazze è avvenuto un fenomeno strano, quello della condivisione, della partecipazione, che ha trasformato l’evento in una sorta di autoanalisi dove qualcuno si è sentito libero di poter raccontare la propria esperienza”.

Palazzina Laf, racconto delle vessazioni che 79 lavoratori dell’Ilva subirono da parte dell’azienda circa trent’anni fa, è ambientato nel 1997. Una data che il regista ha scelto con attenzione e che ha un significato ben preciso. Innanzitutto, ha affermato Riondino, “i fatti della palazzina Laf si sono consumati in quegli anni, in quel periodo. Ma la coincidenza interessante, per quanto mi riguarda, è che io nel ’97 andavo via da Taranto. La storia diventa così un pretesto attraverso cui ho avuto la possibilità di raccontare molto di quello che invece esiste oggi. Nel ’97 io andavo via, mandando a fanculo tutto, e nel 2022 ho cominciato a fare un film dove ho però inserito una miriade di elementi, di dettagli particolari che richiamano la situazione di oggi. La scritta “Ilva is a killer”, sulla pensilina alla fermata dell’autobus, la giudice donna pensata per omaggiare Patrizia Todisco, che ha posto sotto sequestra gli impianti dell’Ilva; o ancora la pecora che muore e che fa riferimento agli oltre 600 campi di bestiame abbattuti nella masseria dove vive Caterino. E’ pieno di dettagli. Ma io nel ’97 avevo una valigia, uno zaino e stavo partendo. Mi divertiva molto l’idea di inserire questi elementi come una sorta di monito: “Adesso vai via ma guarda che cosa sta per succedere”.

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La storia narrata dal film è dopotutto la storia di una città che Michele Riondino si porta di fatto tatuata addosso. E che all’interno del film, complice la presenza di Maurizio Braucci in qualità di sceneggiatore dell’opera, è inserita all’interno di un apparato immaginifico che molto si rifà alla dimensione sacra e religiosa: “Il film doveva partire sul mosaico che si vede in apertura, spiega non a caso il regista; il mosaico di una chiesa che è a ridosso della fabbrica e che è stato donato proprio per benedire la fabbrica. Io stesso sono nato e cresciuto in un quartiere che si chiama Paolo VI, perché la fabbrica è stata benedetta da Paolo VI. La Chiesa, il Cristo, la cristianità, era parte del film sin dall’inizio”.

Questa dimensione sacrale, tra l’altro, torna per antitesi nella parabola priva di redenzione del protagonista Caterino, definito dal cineasta “Cristo e Giuda” del racconto, essenziale nel suo essere “una feroce critica rispetto alla classe operaia”.

“Oggi a Taranto”, ha sottolineato Riondino, “abbiamo una categoria di lavoratori che non è più una classe. Non ha più la forza di recriminare, la forza di difendere il proprio status, la propria dignità e anche il proprio ruolo all’interno di un’azienda. L’operaio è l’elemento fondante di una fabbrica. Invece, oggi a Taranto l’operaio è semplicemente un bullone, l’ingranaggio di un macchinario che accendi e spegni a seconda di quanto ti può servire. Caterino è quello che è diventato il tarantino”.

“Io poi, ha proseguito, conosco diversi Caterino, ho i miei zii, ho il mio padre, ho il mio fratello, ho i miei amici, sono tutti Caterino. Io so della storia della Palazzina Laf per i loro racconti, e loro hanno sempre raccontato la storia di 79 lavativi, che non avevano voglia di lavorare, non volevano sudare e meritavano una punizione; ma quella non era una punizione, perché portavano a casa uno stipendio che loro, in quanto operai che mangiavano merda e si ammalavano, si sognavano. Qui nasce Caterino”.

Un ruolo che sarebbe dovuto andare a Elio Germano – poi scelto per vestire i panni di Giancarlo Basile; e finito invece, su suggerimento dello stesso Germano, sulle spalle  del regista: “Io in realtà  volevo godermi questa esperienza stando più dietro che davanti la telecamera, anche perché avevo paura di essere troppo pieno di roba, troppo pieno di informazioni. Poi però è successo che dovendo preparare il film da regista non ho avuto il tempo di prepararlo da attore. Di solito spendo mesi e mesi per preparare un personaggio, anche con risultati discutibili. E invece questo è venuto così proprio perché non l’ho preparato. Anche se forse sarebbe meglio dire che lo preparo da 45 anni”.

L’esperienza sul set, facilitata secondo Riondino “da una squadra tecnica incredibile e devota al film” è stata inoltre caratterizzata da scelte di ripresa particolarmente specifiche, come la quasi totale mancanza di vere e proprie soggettive o l’utilizzo dell’anamorfico.

La prima dettata dalla volontà di “non vedere la storia attraverso gli occhi di Caterino, ma vedere Caterino all’interno della storia, poiché non volevo che lo spettatore si sentisse all’interno della scena e voglio ancora oggi che il film sia guardato dalla sala e non ci sia nessun tentativo di compartecipazione” – ragion per cui “tutte le scene all’interno dell’azienda le ho volute su cavalletto, perché la fabbrica è una fabbrica statica, ferma come i macchinari e secondo me i lavoratori all’interno dell’azienda dovevano essere considerati delle macchine”. La seconda pensata invece per restituire la particolare visione della fabbrica da parte dei lavoratori stessi, gli unici cittadini, spiega Riondino, che non vedono la fabbrica perché chiusi al suo interno – e “l’anamorfico ti allarga l’inquadratura e te la restringe; è come se tu vedessi poco, poco di quello che c’è intorno dell’ambiente che però percepisci con la coda dell’occhio, ai bordi del frame, ai bordi dell’inquadratura”.

Il risultato finale è un prodotto che non smette di far parlare di sè; che si inserisce nel solco di una produzione cinematografica pugliese particolarmente attiva sul fronte documentaristico – un nome su tutti è quello di Paolo Pisanelli (Il mondo a scatti) – e che in Michele Riondino trova oggi un contraltare di finzione di tutto rispetto. Anche perché, ammette lui stesso, “avevo timore di essere didascalico, avevo timore di essere pedante, didattico, perfino di essere estremamente di sinistra, e quindi di mostrare un operaio arrabbiato. Molti si aspettavano questo, un film sull’ambiente, sulle morti, sulla questione sanitaria, sulla rabbia, sulla lotta, quella dura e pura, si aspettavano le Molotov. Ma a Taranto non si è scagliata una pietra, non è partita una Molotov, non c’è stata violenza. Sarebbe stata ridondante, sarebbe stato smaccatamente ideologico, e io non volevo compiacere nessuno. Quando Maurizio Braucci mi ha chiesto che film volessi, io ho risposto che non lo sapevo. L’unica cosa che sapevo è che volevo che non si salvasse nessuno”.

“In fondo”, ha rimarcato Riondino con forza, “non si salva nessuno nella questione legata a Taranto. L’operaio ha la sua colpa, il sindacalista ha la sua colpa, l’attivista ha la sua colpa, lo studente che scappa ha la sua colpa, il padre ha la sua colpa. Tutti abbiamo un ruolo all’interno di questo dramma”.

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