Atalanta, quel filo nerazzurro che unisce
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Atalanta, quel filo nerazzurro che unisce i bambini di ieri e di oggi

Articolo. Che fortuna (e che invidia) essere bambini a Bergamo durante questo ciclo dell’Atalanta. I piccoli tifosi si stanno costruendo ricordi indelebili, e non dimenticheranno mai con chi li hanno vissuti

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Camminata Nerazzurra (Foto Bedolis)

Per chi è di Bergamo l’Atalanta c’è sempre stata e sempre ci sarà: poco importa che giochi il derby contro l’AlbinoLeffe o l’Alzano, come accadeva una ventina di anni fa, o che sia in finale in Europa League. Dettagli. È come Piazza Vecchia, come le Mura: che sia invasa di turisti o meno, rimane “nostra”, e lo sappiamo senza che ce lo dicano l’Unesco, le guide internazionali o Le Corbusier che «non si può più toccare neppure una pietra, sarebbe un delitto».

L’Atalanta è nostra e nessuno ce la tocca, anche se non andiamo allo stadio, anche se non tifiamo. È in tutte le nostre memorie personali e familiari: nelle radioline portate in montagna la domenica per tenersi informati sulla partita (un’era geologica fa), nelle frasi di circostanza: «Speriamo che l’Atalanta si salvi» è stata per decenni una frase di uso comune in primavera tanto quanto «Mi sa che va a piovere». Nelle magliettine nerazzurre regalate ai neonati che nascono negli ospedali bergamaschi, nei ricordi delle generazioni passate, nel passato velato di malinconia dei tempi di Strömberg.

La costruzione di un ricordo

I bambini di oggi si stanno costruendo ricordi nerazzurri meno malinconici: la festa in centro dopo il 3-0 contro l’Olympique Marsiglia rimarrà nei cuori di molti. Immaginate cosa dev’essere stato parteciparvi per un ragazzino. Sono momenti che si potranno raccontare ai nipotini fra settant’anni, così come i sessantenni di oggi condividono sui social le foto in bianco e nero della Coppa Italia del 1963.

Quanti sono i bergamaschi che di fronte all’ennesimo successo dell’Atalanta pensano ai loro cari che non ci sono più? Il mio pensiero va a nonna Luciana: tifosissima, abbonata in curva, grande fan di Pippo Inzaghi. Le sarebbe scoppiato il cuore a vedere l’Atalanta giocarsi una coppa europea. La passione per una squadra cementifica il rapporto fra genitori e figli, un gol può portare abbracci a figli adolescenti che nella vita quotidiana sono ormai un miraggio. Una partita vista allo stadio, o in piazza di fronte a un maxischermo sarà per molti il primo ricordo sportivo, e non dimenticheranno mai chi c’era con loro. Anche essere fra i 15mila che hanno sfilato nella camminata nerazzurra di domenica sarà un ricordo indelebile, di comunità.

«Tifi l’Atalanta, e poi?»

Uno dei miei primi ricordi, sul pulmino della scuola, è il coro «Vola, Caniggia vola» sulle note di «La notte vola» di Lorella Cuccarini. Come molti altri cori da stadio, proseguiva con un testo non propriamente educativo, incomprensibile alle mie orecchie di bambina finché non me lo spiegò un cugino più grande.

Essere “dell’Atalanta” era un requisito minimo, di base, per maschi e femmine, anche per chi come me non ha mai fatto un album di figurine e ha sempre trovato il calcio noioso. Ma quando ero piccola erano pochi i bambini “solo” atalantini. Certo, c’era l’Atalanta, ma poi – per avere la soddisfazione di vincere le coppe e fare la Champions, o anche solo di seguire la serie A– chi amava il calcio doveva forzatamente avere anche una seconda squadra: «Tifo l’Atalanta, e poi l’Inter, la Juve, il Milan» (i più sofisticati tra noi tiravano fuori il Parma: era la fine del secolo scorso).

Che fortuna essere bambini bergamaschi oggi e poter dire: «Tifo l’Atalanta, e basta». Poter seguire sui palcoscenici internazionali più importanti la squadra di casa – una piccola casa, dove ci si conosce tutti e Gasperini sembra quasi tuo zio, Percassi il nonno e capita di incontrare i giocatori al supermercato. Andare al mare, e gli amichetti nuovi sanno esattamente qual è la squadra della tua città, senza doverglielo spiegare. Farsi regalare per il compleanno la maglietta di Scamacca. Scambiarsi le figurine di Koopmeiners e De Roon. Avere imparato la Papu Dance all’asilo, tifato Zapata e Ilicic in prima elementare e rimanere delusi per la finale di Coppa Italia contro la Juventus a otto anni.

Comunque vada

Sì, anche il ricordo di una delusione può diventare un grande ricordo. La semifinale persa il 20 aprile 1988 contro i belgi del Malines non è forse una delle più belle pagine di storia dell’Atalanta? La cavalcata in Coppa delle Coppe resterà per sempre uno dei capitoli più amati dell’epica atalantina, pur senza avere portato nessun trofeo.

Per anni mi sono chiesta, con l’ingenuità di chi non segue il calcio: «Perché l’Atalanta non può andare in Europa?» e ora che ci siamo non voglio perdere la meraviglia di esserci. Una meraviglia da coltivare anche nei piccoli tifosi.

Ad abituarsi a viaggiare nelle parti alte della classifica, a giocarsi le qualificazioni e le finali, si rischia di diventare ingrati. Non ingrati nei confronti della società, della proprietà o dell’allenatore, ma proprio nei confronti di noi stessi, di quando non giocavamo a Dublino ma allo stadio Pier Giovanni Mecchia di Portogruaro. Perciò, comunque vada, forza Atalanta: siamo orgogliosi di te, di noi.

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