Pain & Gain - muscoli e denaro Recensione

Pain & Gain - Muscoli e denaro: la recensione del film di Michael Bay

12 luglio 2013
2.5 di 5

Pain & Gain è la dimostrazione ennesima del fatto che Michael Bay è un autore. Nel senso teorico-critico del termine.

Pain & Gain - Muscoli e denaro: la recensione del film di Michael Bay

Quella di Pain & Gain è una di quelle storie tanto assurde che solo la straordinaria creatività della vita vera e realmente accaduta può scrivere.
Una storia che, nella sua metaforica assurdità, racconta tanto, tantissimo sugli Stati Uniti, sull’inarrestabile trasformazione in incubo del Sogno Americano.
L’ossessione per il successo (e per il sesso), i guru televisivi, il fitness, la forma sopra la sostanza, la presunzione degli idioti e la manipolazione dei deboli, la religione del controllo, la sottovalutazione, il pregiudizio, l’equilibrio dei valori tradizionali: Pain & Gain aveva a disposizione una quantità di toni e sfumature tematiche e narrative che gli avrebbero permesso di essere molto più interessante di quello che è risultato: una sorta di Fargo for dummies dall'estetica disdicevole.
Ma, soprattutto, l'ennesima dimostrazione del fatto che Michael Bay sia un autore, capace di piegare alla sua idea e filosofia di cinema ogni tipo di racconto.

Bay è un autore. In quanto tale, si ritrova nel il look degli anni Novanta, setting del film ma anche suo periodo di formazione, lo ealta, ammicca a Miami Vice senza coglierne la sostanza, tra fluorescenze diffuse e bikini sgambatissimi, canotte da body-builder e luci al neon, abbronzature arancione-lampada e Lamborghini viola. Shakera il tutto con una macchina da presa in perenne e ansioso movimento - perché Bay è doer, non un don’ter – ossessionato da un fare che si traduce in un eterno cinetismo destinato a non procedere mai, in una muscolatura ultrapompata artificialmente, e quindi vuota.

Certo, l’interpretazione possibile e legittima è che, con tutta la naturalezza del caso, Michael Bay abbia applicato la sua idea di cinema testosteronica e steroidea proprio lì dove il materiale narrativo, per sua natura, lo richiedeva. Che insomma la sceneggiatura di Pain & Gain e lo stile cinematografico del suo regista siano le proverbiali due metà della stessa mela, due coloratissimi pezzi di Tetris destinati a incastrarsi perfettamente.
L’impressione è però, al contrario, che nel porsi al di sopra del suo materiale, nel canzonarlo scimmiottandolo, Bay abbia commesso lo stesso errore del suo protagonista, un uomo che si crede una volpe, destinato a grandi cose, ma che è tale e quale ai suoi compari che tiranneggia: un pallone gonfiato senza troppo sale in zucca, destinato all’inevitabile fallimento.
L’impressione è che, sotto il peso (e i pesi) dello stile di Bay, invece che tonificarsi e  diventare più forte, la storia di Pain & Gain sia stata schiacciata, appiattita, ridotta ad una surreale barzelletta all’interno della quale circolano corpi caricati e caricaturali, ma senza vera anima.

Peccato, perché il trio formato da Wahlberg, Johnson e Mackie poteva essere fruttato meglio, e comunque ce la mette davvero tutta per raccontare dei personaggi che siano più di un insieme di pettorali, quadricipiti e spinali. E il contorno dei vari Shalhoub, Wilson e Harris può arricchire, ma non sostituire le proteine e il ferro mancanti di una carne al fuoco abbondante, potenzialmente succulenta ma cucinata troppo e male, e quindi rovinata.
Il pain c'è, il gain è tutto da dimostrare. Autore o non autore.

 



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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