Luca Manfredi: in nome del papà Nino - la Repubblica

Il Venerdì

Luca Manfredi: in nome del papà Nino

Nino Manfredi  (1921-2004) con la moglie Erminia Ferrari e le figlie Giovanna e Roberta agli inizi degli anni Sessanta (Archivio Famiglia Manfredi)
  
A cento anni dalla nascita, il figlio ha realizzato un doc per Sky Arte in cui mette in luce i tanti volti di Nino Manfredi: "Sono un grande fan dell’attore, ma come genitore fu un disastro"
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Nino Manfredi era un uomo parsimonioso, e quando tornava a casa dal set portava quanto rimaneva del cestino del pranzo. Lo consideravano un tirchio, ma questo comportamento era il retaggio delle sue origini poverissime in Ciociaria. Ogni giorno a casa nostra visitava il pollaio che si era costruito in giardino, dove raccoglieva le uova fresche, e poi apriva il frigo per studiare come riciclare gli avanzi. E faceva lo stesso col vino: seguendo l'insegnamento del nonno minatore in America, che si preparava l'acquata, un vinello fatto con gli scarti dell'uva, raccoglieva tutti i fondi di bottiglia, rossi, bianchi e persino lo champagne, per creare quelle che'ui considerava sopraffine miscele da enologo. In famiglia lo prendevamo in giro, e una volta gli regalammo un alambicco con un biglietto: 'Grande comico, piccolo chimico'".

Lo sceneggiatore e regista Luca Manfredi ricorda il padre con uno dei tanti aneddoti personali rievocati in Uno, nessuno, cento Nino, il suo documentario in programma su Sky Arte il 20 febbraio, che celebra i 100 anni dalla nascita dell'attore e regista  a Castro dei Volsci (Frosinone) il 22 marzo 1921. Un lavoro con tanti filmati privati, spezzoni d'archivio, interviste all'artista e a familiari, amici, attori e registi che raccontano il loro Manfredi e lo confrontano con gli altri mostri sacri della commedia all'italiana: Sordi, Gassman, Tognazzi. "Nino forse era il più moderno di tutti e l'unico in grado di sparire nei suoi personaggi" ci dice Luca al telefono da Roma. "Molti pensano che la sua recitazione fosse naturale, in realtà era il frutto di uno studio approfondito e  maniacale sui personaggi".

Luca Manfredi sul set con il padre Nino (Archivio Famiglia Manfredi)
  

Come li preparava?
 "Andava spesso a leggere i copioni al Giardino degli Aranci, sull'Aventino, perché era di fronte a casa sua. Fu lì che vedendo una bambina giocare con un bambolotto pensò che doveva interpretare Geppetto per il Pinocchio di Comencini come un bambino. Ma non era come Sordi, che si ispirava a persone attorno a lui, piuttosto cercava di inventarsi un tic, un modo di parlare o di comportarsi adatti a definire il personaggio. Per questo per Geppetto chiese di indossare scarpe di tre numeri più grandi: voleva ciabattare come fanno i bambini che giocano con quelle dei genitori".

C'è qualcosa che lega tra loro i personaggi interpretati da suo padre?
"Avevano sempre un fondo di dignità, ed erano scevri dal cinismo di quelli di Sordi o Gassman. Mio padre vi faceva convivere due anime, quella ironica e lieve e quella più malinconica e a volte drammatica, in onore a quanto gli diceva Silvio D'Amico all'Accademia d'arte drammatica: affrontare argomenti seri, ma sempre facendo spuntare un sorriso sulla bocca della gente. Un altro insegnamento, stavolta del suo maestro Orazio Costa, fu di esprimersi prima che con la parola con il corpo. Non a caso esordì alla regia con L'avventura di un soldato, tratto da Calvino, un episodio nel film L'amore difficile, in cui tutta la narrazione era affidata alla mimica. Ogni volta che doveva preparare la reazione di un personaggio, pensava al suo mito".

Vale a dire?
"Si chiedeva come lo avrebbe fatto Charlie Chaplin".

Ha iniziato a recitare in sanatorio, mentre aveva la tubercolosi, poi si è laureato in Legge per accontentare il padre e ha studiato all'Accademia d'arte drammatica. Come arrivò al cinema?
"All'inizio non lo volevano: dicevano che aveva una faccia troppo normale. E così lavorò molto come doppiatore, diventando bravo al punto che Fellini lo chiamò per dare la voce a Franco Fabrizi nei Vitelloni. Doppiò in due film addirittura Marcello Mastroianni, il cui timbro era considerato troppo nasale. Fu poi il successo in tv con Canzonissima del 1959 a lanciarlo. Il primo a dargli un lavoro però fu Vittorio Gassman in teatro. Che lo difese quando mio padre, appena arrivato nella compagnia, fece scena muta il primo giorno di prove. Con Vittorio restarono molto amici per tutta la vita".

I registi cui è stato più legato?
"Sicuramente Ettore Scola, con cui girò C'eravamo tanto amati e Brutti sporchi e cattivi, Luigi Magni che lo scelse come interprete della Roma papalina in Nell'anno del signore, In nome del Papa Re e In nome del popolo sovrano, e Dino Risi con cui c'era un grande feeling. Loro e altri, come Sordi, Totò, Germi, Monicelli, venivano a trovarlo a casa. Io mi mettevo in un angolo e li ascoltavo lavorare alle loro sceneggiature, che nascevano anche da grandi litigate".

E i suoi film del cuore?
"Pane e cioccolata, in cui raccontò il dna della propria famiglia di emigranti, e Per grazia ricevuta, con cui vinse la Palma d'oro a Cannes come miglior regista esordiente".

Nel documentario lei lo mostra in Il padre di famiglia, in cui dà di matto perché i figli fanno confusione e non lo lasciano lavorare...
"Era lo stesso a casa nostra: se doveva concentrarsi voleva il silenzio assoluto. Solo che io e le mie sorelle Roberta e Giovanna facevamo baccano e lui sbraitava contro mia madre per farci stare zitti. Le sue sfuriate facevano paura, era un po' un orco. Sono un grande fan dell'attore, ma come genitore è stato un disastro: io facevo gare di canoa e un mio compagno di squadra era sempre accompagnato dal padre, che lo sosteneva, mentre Nino non è venuto a vedermi neanche una volta".

Sarà andato meglio come marito: con sua madre Erminia Ferrari è rimasto insieme tutta la vita.
"È tutto merito di mia madre, il vero pilastro della famiglia, che ha avuto l'intelligenza di gestire un uomo così complesso, e la capacità di sopportare le sue angherie. Siccome Nino diceva che un personaggio pubblico non poteva farsi vedere con le amanti in hotel o al ristorante, se le portava direttamente a casa, inventando per ogni donna un ruolo: la dattilografa, l'insegnante d'inglese e così via. Poi si chiudeva nel suo studio con loro. E mia madre sopportava".

Lei e suo padre avete lavorato diverse volte insieme. 
"Io mi ero diplomato in marketing e tecniche pubblicitarie e lui mi chiese di inventare qualche spot per lui, perché quelli che gli proponeva Armando Testa avevano un umorismo troppo piemontese. Aveva fatto tante pubblicità: il ladro per Ignis, l'inventore dell'acqua frizzante per Idrolitina. I soldi che ricavava gli servivano a rifiutare i brutti film. E così ci siamo trovati per la campagna della Lavazza: "Più lo mandi giù e più ti tira su". È durata 17 anni".

Suo padre è scomparso nel 2004. Aveva rimpianti?
"Quello di non aver imparato l'inglese da sua madre Antonia, che era vissuta in America e si rifiutava di parlarlo perché si vergognava di essere stata emigrante. E così, quando Billy Wilder lo chiamò per fargli fare un film con Jack Lemmon, lui disse che non poteva recitare a memoria in una lingua che non capiva. E lo stesso fece con David Mamet, che lo voleva per Le cose cambiano".

Considerava qualche attore più giovane un suo possibile erede?
"Nessuno. Anche se ammirava diversi attori. Di Giorgio Tirabassi si innamorò a teatro vedendolo in un monologo in cui interpretava tutti i tipi di coatto romano".

Come mai ha intitolato questo film Uno, nessuno, cento Nino?
"Perché era una persona dalle tante facce: divertente ma severo, ironico e loquace se gli girava bene, ma anche taciturno e umorale. A volte era tenero ma spesso irascibile. Sicuramente era vero e genuino, ma anche un gran bugiardo e un incantatore. Un uomo semplice, ma pieno di contraddizioni".

Sul Venerdì del 12 febbraio 2021