Dark Shadows Recensione

Tim Burton torna grande con Dark Shadows: ecco la nostra recensione del film

10 maggio 2012
4 di 5
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È un oggetto strano, il nuovo film di Tim Burton. Un’opera sghemba, bislacca, senza dubbio imperfetta. Eppure divertente, emozionante e interessante.


È un oggetto strano, il nuovo film di Tim Burton.
Un’opera sghemba, bislacca, senza dubbio imperfetta. Eppure divertente, emozionante e interessante.
Un’opera che riesce ad essere chiaramente figlia del suo autore, a rispecchiarne i vari registri, senza però replicare stanchi e affettati burtonismi.

Siamo lontani, insomma, dalle zoppìe più o meno evidenti dei titoli che l’hanno preceduta come Alice in Wonderland o Sweeney Todd, o persino La fabbrica di cioccolato, e più vicini allo spirito e allo stile di film più felici e lontani come Mars Attacks!, Sleepy Hollow, Ed Wood.

Dopo un incipit che, onestamente, non fa sperare per il meglio (proprio perché sembra il Burton più maniera di sé stesso), ecco che Dark Shadows si trasforma in qualcosa d’insolito e meticcio, capace di ibridare in maniera profonda generi differenti come l’horror di stampo hammeriano e cormaniano, la commedia surreal-demenziale di derivazione sit-com e la soap opera, rispettando al tempo stesso con sorprendente rigore l’identità in purezza delle singole componenti.

Burton
mescola i generi e le sue diverse anime, da quella gotica a quella ultrapop passando per quel romanticismo misurato ed estremo che ha contraddistinto le sue opere migliori. Ecco che allora al cerone ceruleo di Depp, al sangue rosso finto e ai momenti che richiamano alla mente le pellicole gotiche con Vincent Price o Christopher Lee si alternano i colori sgargianti e le note distorte del setting in purissimo spirito seventies (o delle sue riletture più ironicamente trash), che le situazioni tese e orrorifiche cambiano repentinamente di segno abbracciando l’umorismo ironico e quasi demenziale da un lato, il sentimentalismo passionale carico degli amori da telenovelas dall’altro.

A risultare predominante – e paradossalmente non è un difetto, quanto un pregio – è proprio quest’ultimo aspetto, la matrice soapoperistica che, nelle mani di
Burton (e dello sceneggiatore Seth Grahame-Smith, non a caso autore del mash-up letterario “Orgoglio e pregiudizio e zombie”) viene declinata con modalità da romanzo ottocentesco.
E allora, se Depp è troppo macchietta di sé stesso, è il personaggio di Eva Green (brava e bella, per una volta ci possiamo abbandonare al luogo comune) a risultare il cardine, il pilastro di un film che tratteggia il nucleo familiare come un luogo di deviazioni come fosse Dallas o Dinasty. O True Blood.

Angelique, strega per amore, è allora davvero un’antieroina letteraria, una fuoriuscita per cattiva e perversa condotta dalle pagine di un libro delle Brontë o di Jane Austen, un personaggio dalla straordinaria caratura tragica che ama di un amore cannibalico e autolesionista, eppure sincero e, a suo modo, disperatamente struggente.
Nel suo unire Heathcliff, Bette Davis e Brooke Logan, è quello della Green il ruolo più bello e coerente di un film che trova nell’incoerenza, nei ribaltamenti di fronte improvvisi e grossolani, nel disordine creativamente anarchico la sua energia, la sua forza, il suo trascinante potenziale d’intrattenimento.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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