Vertigine [Laura, 1944] è la quintessenza del noir onirico degli anni Quaranta. Il film, primo successo americano del regista austriaco Otto Preminger, esce nel 1944, in concomitanza ad altri celebri noir che andranno grossomodo a codificare il genere di lì in avanti: La donna del ritratto [The Woman in the Window, 1944] di Fritz Lang, La fiamma del peccato [Double Indemnity, 1944] di Billy Wilder, e La donna fantasma [Phantom Lady, 1944] di Robert Siodmak. Una serie di capolavori, questa, che specifica quel noir che, per consuetudine, si tende a definire “onirico”, e che si contrappone alle produzioni di fine anni Quaranta e inizio Cinquanta, in cui dominerà, piuttosto, un impianto più prettamente realista e sociale – per intenderci, le opere di registi quali Kazan, Hathaway, Mann, ecc.1
Vertigine, innanzitutto, è la dimostrazione di come la classicità dello stile hollywoodiano, a volte, ceda sotto i colpi di un cinema moderno, ambiguo e tutt’altro che confortante. «Nel film classico il ruolo dominante della narrazione onniscente e della ripresa oggettiva esprime una rappresentazione unitaria del mondo in perfetta sintonia con la casualità narrativa del racconto […]. Il personaggio classico esprime la sua essenza nell’azione che traduce in modo a-problematico il suo desiderio. […] Il noir e il woman’s film rovesciano tutti i paradigmi elencati.»2 Se da un lato, infatti, il conflitto bellico della Seconda Guerra Mondiale inizia a gettare nello sconforto e nella preoccupazione gli Stati Uniti, dall’altro, l’interesse per la psicanalisi e l’esistenzialismo europei contribuiscono a demolire la stabilità del soggetto, e della sua personalità. Le teorie psicanalitiche, riviste in maniera popolare, ottengono un clamoroso successo negli Stati Uniti, volgarizzate attraverso plot cinematografici e romanzi d’appendice. Questo crescente interesse per il “lato nascosto” della natura umana non si limita, però, a rivedere trame e soggetti. Piuttosto, influisce direttamente sullo stile e sulla natura del film (nero) degli anni Quaranta, che inizia a farsi via via più ambiguo, doppio, confuso. Viene sostanzialmente meno quella “compattezza” che aveva caratterizzato gran parte della produzione hollywoodiana degli anni Trenta. In questo nuovo panorama, Vertigine si colloca in maniera decisamente paradigmatica.
Il film, tratto dal romanzo di Vera Caspary, non è – e non ha – l’aspetto del tipico noir di serie B. Vertigine è, infatti, un film girato quasi esclusivamente in interni lussuosi, e con protagonisti appartenenti alla medio-alta borghesia. La regia di Preminger è raffinata ed elegante. Le pieghe dell’ambiguità che caratterizzano questo noir sono piuttosto da cogliersi in profondità, in quegli scarti che Vertigine spesso nasconde, anziché dichiarare.
Il tono onirico che caratterizza Vertigine è evidente fin dal celeberrimo incipit: una voce over, indefinita, che preannuncia un flashback; una musica sensuale; uno schermo nero – d’altronde Vertigine è un film che, come scrivono Guglielmo Pescatore e Giulia Carluccio, nasce «dal nero dello schermo, e del noir»3. Un incipit, dunque, fortemente spaesante per lo spettatore, il quale si trova privato di alcuni classici riferimenti narrativi. Segue un long-take che conduce il nostro sguardo all’interno di un lussuoso appartamento dai décor orientaleggianti. È la casa di Waldo (interpretato dall’attore di teatro Clifton Webb), e sua è la voce che udiamo: «Non dimenticherò mai il giorno in cui Laura morì». Una voce, questa, che, più che descrivere l’ambiente, sembra evocare, creare l’immagine che vediamo – non a caso Waldo, nel corso del film, si descriverà come una mente “creativa”. In questo spazio, sovraccarico di oggetti, di specchi, di superfici riflettenti si muove il detective McPherson. «The powerful foreground objects seem at once constricting and symbolic of a precarious situations which threatens at any moment to shatter to the floor»4.

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Una brusca panoramica a schiaffo interrompe l’inquadratura. Finalmente vediamo l’aristocratico Waldo, in una lussuosa vasca da bagno. Eppure, questo flashback che dà vita alla storia non avrà mai una conclusione, in quanto, alla fine del film, Waldo verrà ucciso. Dunque, «dove si colloca il suo racconto, rispetto al passato di cui parla? […] Dove e quando si conclude il suo racconto? […] Un’ambiguità che non ci permette di collocare il tempo (perduto) della storia di Laura (perduta) rispetto a un tempo in cui ha luogo la rimemorazione»5. D’altronde, il film si conclude con l’immagine di una pendola rotta. Il tempo diviene davvero uno dei protagonisti di questa storia di fantasmi.

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A rendere ancora più strutturale l’ambiguità che pervade Vertigine, nel corso del film il protagonista “depositario” della narrazione cambia: avviene infatti una sorta di transfert di coscienza – suggerito esclusivamente attraverso i movimenti di macchina – tra Waldo e il detective McPherson – due figure, non a caso, contrapposte tanto sul piano caratteriale e fisico quanto su quello sociale. Inizia così un secondo tempo dai caratteri ancora più enigmatici. McPherson, nella sequenza più celebre di Vertigine, si addormenta sul luogo del delitto osservando il quadro della vittima, la bellissima Laura (Gene Tierney). La donna, data per morta, (ri)appare – si scopre infatti che la vittima è un’altra. Preminger stringe sul volto dell’uomo, con una modalità che suggerisce il passaggio al mondo del sogno: «ed ecco apparire, davanti a lui, la ragazza, la cui natura fantasmatica è accentuata sia dall’abito bianco che indossa, sia dal tipo di inquadratura, che lascia ben visibile, dietro di lei, il quadro, a ribadire il legame fra due diverse forme di condensazione dei desideri di McPherson.»6

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Nasce dunque il sospetto che tutto ciò che vedremo, di qui a seguire, sia semplicemente la proiezione onirica di McPherson. Avviene infatti una riscrittura sostanziale dei ruoli dei personaggi: ora Waldo – prima protagonista -, diventa l’assassino; McPherson, il poliziotto perdente, diviene un eroe, e Laura, la determinata donna in affari, una fanciulla da salvare. Ovviamente, che tutto questo sia una proiezione di McPherson, il film non lo rivela: l’ambiguità dominerà fino alla fine. Anche in questo caso, Preminger asseconda, attraverso uno stile assolutamente preciso e puntuale, il cambio di prospettiva: «l’intero rapporto tra il poliziotto e Laura è del resto caratterizzato innanzitutto da una serie di ricorrenti strutturazioni dell’immagine: finché Laura è una creatura immaginaria, a prevalere è il grande ritratto che domina dall’alto Dana Andrews; quando invece la donna compare in carne e ossa, Preminger predilige inquadrature fondate su una forte diagonale, in cui Dana Andrews occupa la parte alta del fotogramma e Gene Tierney la parte bassa, confinata in un angolo.»7
Nucleo centrale, su cui ruota Vertigine, è dunque Laura, o, per meglio dire, il suo ritratto. Il dipinto è in quegli anni un topos del cinema noir – basti pensare a Rebecca – La prima moglie [Rebecca, 1940], a La donna del ritratto, a La strada scarlatta [Scarlet Street, 1945], a Il ritratto di Jeannie [Portrait of Jennie, William Dieterle, 1948], e poi, più avanti, La donna che visse due volte [Vertigo, 1958]. Come scrive Paolo Bertetto, «[…] sono i film stessi a oggettivare a volte, in maniera suggestiva, il carattere simulacrale dell’immagine filmica […] sono i film classici, che senza intaccare la struttura narrativa, rivelano in passaggi dalla forte valenza eidetica, il meccanismo del cinema e il carattere simulacrale dell’immagine.»8 Oltre a costituire un chiaro richiamo meta-cinematografico nei confronti del riquadro dello schermo, il ritratto conferisce alla figura femminile un ruolo ideale, o per meglio dire, idealizzato. Cosa altro non è, Laura, se non la proiezione (del desiderio) maschile? Un’immagine “animata” dallo sguardo del poliziotto? Il quadro mette dunque in risalto la centralità del ruolo dell’occhio (maschile) – che è il soggetto -, nei confronti dell’oggetto guardato – la donna9. Nel film, tutti desiderano Laura, che si fa figura fantasmatica, simulacrale, e mortuaria: l’amore di MacPherson per la donna (morta) non è, infatti, molto distante da quello, necrofilo, di Scotty per Madelaine, nel celebre film di Hitchcock del 1958.
Passione, perversione, desiderio si ritrovano e si condensano tutti in questo film, che è probabilmente uno dei più grandi esempi di noir in cui il sogno non è più una “storia nella storia”: sogno e realtà si compenetrano e si confondono, diventano tutt’uno. Dal nero dello schermo, ovviamente.

 

 

NOTE

1. Cfr. R. Borde, E. Chaumeton, Panorama du film noir américain, Paris, Edition de Minuit, 1955, e P. Schrader, Notes of Film, in (a cura di) A. Silver e J. Ursini, Film Noir Reader, New York, Limelight Edition, 1996.

2. V. Pravadelli, La grande Hollywood, Padova, Marsilio, 2007, p. 122.

3. G. Carluccio, G. Pescatore, Dal nero. Del noir, dello schermo, «Cinema&Cinema», 61, maggio-agosto 1991.

4. J. Place e L. Peterson, Some Visual Motifs of Film Noir, in (a cura di) A. Silver e J. Ursini, opera cit., p. 72.

5. G. Carluccio, L. Cena, Otto Preminger, Milano, Il Castoro, 1991, pg. 39.

6. L. Gandini, Il film noir americano, Torino, Lindau, 2008, p. 82.

7. R. Venturelli, L’età del noir – Ombre, incubi e delitti nel cinema americano, 1940-1960, Torino, Einaudi, 2007, p. 158.

8. P. Bertetto, L’immagine e il simulacro, Milano, Bombiani, 2007, p. 40.

9. Cfr. L. Mulvey, Visual and Other Pleasure, Bloomington, Indiana Univ. Press, 1989.