NERONE imperatore in "Enciclopedia Italiana" - Treccani - Treccani

NERONE imperatore

Enciclopedia Italiana (1934)

NERONE (Nero Claudius Caesar Drusus Germanicus) imperatore

Arnaldo MOMIGLIANO

Figlio di Gneo Domizio Enobarbo e di Agrippina, passata poi in seconde nozze all'imperatore Claudio, nacque il 15 dicembre 37 d. C. ad Antium: ebbe originariamente il nome di L. Domizio Enobarbo. Agrippina riuscì a farlo adottare da Claudio (di cui del resto N. era pronipote, essendo Agrippina figlia di Germanico fratello di Claudio): perciò egli assunse il nome di N. Claudio Cesare (50). Per un certo tempo portò anche il prenome di Tiberio, poi trascurato. Il nuovo legame familiare fu rinsaldato col matrimonio di N. con la figlia di Claudio e di Messalina, Ottavia (53 d. C.). Claudio finì così col preferire N. al figlio Britannico e designarlo alla successione. Infatti, morto Claudio, forse per veleno propinatogli da Agrippina per affrettare la successione del figlio, N. fu proclamato imperatore dai pretoriani comandati dal prefetto Burro, devoto ad Agrippina, e riconosciuto come tale dal senato, senza che alcuna resistenza gli venisse dalle armate provinciali (13 ottobre 54 d. C.); ai pretoriani fu concesso un donativo di 15.000 sesterzî a testa.

La successione al trono di N. provocò le maggiori speranze. La nobiltà romana (senatori e cavalieri) odiava Claudio, che, creando una burocrazia di liberti imperiali, l'aveva spodestata di molte cariche e aveva inoltre represso con spietatezza tutti i moti di reazione. Questa nobiltà sperava dunque che il nipote di Germanico avrebbe ripreso consapevolmente il programma filosenatorio che a torto o a ragione era attribuito a Germanico e si era creduto spezzato dalla sua morte immatura. Il sapere che Agrippina avrebbe cooperato direttamente al governo - insieme col pedagogo di N., il filosofo Seneca, e con Burro - sembrava confermare questa tendenza. D'altra parte anche nell'esercito e nelle provincie il ricordo di Germanico permaneva vivo e simpatico, e perciò la successione di N. non poteva essere che bene accolta. S'intende che il non ancora diciassettenne imperatore, e i suoi consiglieri, appunto per riguardo all'esercito e alle provincie, dovevano evitare atti troppo bruschi di reazione al governo di Claudio: perché in quegli ambienti Claudio, se non era amato, ché non era stato tipo da poterlo essere, era stimato e rispettato. Perciò N. non mancò di proporre la deificazione di Claudio e di tenerne un pubblico elogio durante il funerale, e d' iniziare la costruzione di un tempio in suo onore, sul monte Celio, più tardi lasciato a metà e trasformato in un serbatoio dell'acqua Claudia: uno dei nomi, con cui in onore di N. erano allora ribattezzate le tribù di Alessandria di Egitto, esaltava N. proprio come Philoklaudios, cioè pieno di amore per il padrigno. Ma quali fossero i sentimenti veri della corte dimostra la satira contro Claudio pubblicata anonima da Seneca, l'Apocolocyntosis Divi Claudii (La trasformazione in zucca del dio Claudio), dove implicitamente si prometteva che contro l'esempio di Claudio N. sarebbe ritornato alle tradizioni di Augusto, ivi rappresentato come l'antitesi di Claudio. Infatti N., in contrapposto all'intelligente severità del suo predecessore, venne sfoggiando nei primi tempi del suo governo mitezza e clemenza. Anzi "clemenza" era la parola d'ordine del nuovo regno, e Seneca, teorico della nuova era, vi scriveva sopra un trattato nel 55 (De clementia) dedicandolo al nuovo imperatore. I poeti facevano eco esaltando la nuova età dell'oro: tali Calpurnio Siculo nelle sue Bucoliche e l'anonimo autore dei Carmina Einsiedlensia. Alcuni processi di lesa maestà erano messi a tacere, un senatore o due reintegrati nella carica, da cui Claudio li aveva radiati. Certe tendenze reazionarie dell'aristocrazia erano carezzate, per esempio in alcuni decreti particolarmente severi contro gli schiavi e i liberti, che si fossero dimostrati traditori dei loro proprietarî o patroni. Non mancava nemmeno qualche restaurazione puramente archeologica per vezzo di ritornare all'antico: una nobildonna, Pomponia Grecina, superstionis externae rea, come dice Tacito, cioè forse piuttosto giudaizzante che non cristianizzante, come vuole l'interpretazione tradizionale, era consegnata al marito perché la giudicasse secondo le formule del tribunale domestico obliterato da secoli. Si aggiunga che, mentre il diritto di far coniare monete d'oro e d'argento era stato tolto al senato fin dai tempi di Augusto, ora gli era restituito e che le magistrature repubblicane, quali il consolato e la pretura, erano rivestite di alcuni nuovi privilegi ai danni delle magistrature un tempo rivali, il tribunato e l'edilità. L'imperatore prometteva anche di non più continuare i favori ai liberti nel dare le cariche pubbliche. Questa era l'apparenza. La realtà era che nessun imperatore, nemmeno Augusto, era stato mai posto tanto alto come divino largitore di benefizî ai mortali. Nella stessa parola d'ordine "clemenza" c'era più spirito dispotico che non amore di libertà repubblicane. Si lavorava insomma a elevare sempre di più la misura dell'imperatore sugli altri uomini, non già a ricondurlo al livello di un magistrato della repubblica. L'unico limite per l'autorità dell'imperatore era quello di sua madre Agrippina, la quale aveva voluto anche un pubblico riconoscimento della sua correggenza (sebbene questa non vada intesa in rigoroso senso giuridico) col far incidere la sua immagine a fianco di quella di N. nelle monete e col farsi chiamare, oltre che in monete, anche in iscrizioni, Augusta Mater Augusti. Ma questo limite doveva cadere presto. N., crescendo di età, non amava di essere fiancheggiato da nessuno, nemmeno da sua madre: e Burro e Seneca in fondo non vedevano con dispiacere che Agrippina fosse allontanata per poter avere una più esclusiva influenza sull'imperatore. Cominciarono quindi gli urti tra N. e Agrippina. E divennero più gravi quando N. sentì nella madre anche un impaccio alla sua vita libertina. Per reazione e certo per sincero affetto, Agrippina si atteggiò quindi a campione dei diritti di Ottavia, che N. trascurava o forse già odiava: solo per reazione si lasciò anche sfuggire minacce, che sembravano alludere a una sostituzione di Britannico a N. sul trono. Ne seguì che nel 55 Britannico era ferocemente ucciso e la stessa Agrippina era poco dopo allontanata dalla corte e privata della guardia.

Ogni divisione di poteri era quindi impedita. N. restava il capo unico dello stato. S'intende che per il momento (solo per il momento) governavano in suo nome Seneca e Burro, i quali provvidero a soddisfare l'ambizione del giovane imperatore col fare apparire sue iniziative i loro progetti. Il che aveva naturalmente anche il vantaggio di non comprometterli nel caso che questi progetti incontrassero troppe resistenze: come accadde per il grandioso tentativo di rinnovare l'ordinamento tributario con l'abolire tutti i dazî e le percentuali che impacciavano la vita economica dell'impero e in specie gli scambî tra le provincie, con la speranza evidentemente che le imposte dirette, rese possibili dall'incremento dei traffici, avrebbero compensato l'abolizione. L'idea era certo di Seneca e di Burro, ma fu N. a portarla in Senato nel 58, sicché fu facile poi al suo governo, viste le resistenze (troppo giustificate del resto), di ritrattare la proposta e accontentarsi di piccoli ritocchi al sistema vigente. Tra questi è da ricordare una serie di provvedimenti (come l'esenzione da ogni tassa delle navi da trasporto) intesa a facilitare i rifornimenti alimentari, soprattutto di Roma.

Ma il problema principale dei primi anni di N. fu di politica estera. I Parti avevano riconquistato l'Armenia negli ultimi mesi del governo di Claudio. Toccò al governo del successore restaurare il prestigio romano in Oriente. Si ebbe la mano felice nello scegliere il generale in capo, a cui affidare la guerra, nella persona di Corbulone, già fattosi notare in Germania per la sua abilità e la sua severità, tanto più necessaria presso le legioni dell'Oriente dell'impero, in cui la disciplina rilassata era tradizionale. Per quanto una ribellione interna del regno di Partia impedisse a lungo al re Vologese di venire in aiuto al fratello Tiridate che egli aveva nominato re di Armenia, i Romani furono lenti a ottenere successi decisivi. Oltre all'indisciplinatezza dei soldati, nuocevano i contrasti tra Corbulone e il legato di Siria, Quadrato, nonché la diversa valutazione del momento tra lui e il governo centrale di Roma. Perché quest'ultimo voleva una guerra a fondo e invece Corbulone inclinava (almeno sembra) a imporre soltanto a Tiridate il riconoscimento del protettorato romano. Infine prevalse la prima politica e Corbulone, piegandosi agli ordini di Roma, giunse a occupare le due capitali dell'Armenia, Artassata e Tigranocerta (57-58 d. C.). I Parti erano quindi costretti a riconoscere la supremazia romana sull'Armenia. Nel 60 era anche repressa la ribellione in Britannia guidata dalla regina Boadicea o Boudicca.

N. era intanto giunto al punto decisivo della formazione della sua personalità. Egli si era sempre più accentuatamente indirizzato verso attività che, in apparenza, con la politica non avevano nulla da fare: amava musica, poesia, giuochi sportivi, gozzoviglie con un misto di raffinatezza e di volgarità. Ma, convinto della sua natura sovrumana, convinto d'altra parte del supremo valore delle cose a cui attendeva, non era disposto a tenerle in penombra come distrazioni di un privato. Egli voleva elevare i suoi interessi a politica e trasformare quindi la vita dell'impero. In questo modo egli finiva con l'inserire le sue propensioni personali nel grande processo di rinascita dell'Oriente ellenistico, che si sviluppava davanti ai suoi occhi per effetto della pace romana: nel periodo ellenistico infatti musica, poesia, giuochi e anche orge avevano avuto una parte assai importante della vita pubblica, con precise organizzazioni, che N. voleva ora importare a Roma. Solo che, come è ovvio, la politica di ellenizzazione a cui N. aspirava si rivolgeva a quei pochi superficiali aspetti dell'ellenismo che egli era capace d'intendere. Egli aveva anche trovato in Poppea Sabina, moglie del suo amico Otone, la donna che per un suo confuso misticismo (Flavio Giuseppe la dice "credente nel Dio supremo") e per tendenza a raffinatezza e lussuria, era capace di comprenderlo. N. provò una folle passione per questa donna, che gli fece posporre altri suoi amori, come quello per la liberta Atte. Ma se gli era stato facile liberarsi del marito di lei, mandandolo governatore di Lusitania, non osava sposarla.

Certo in tutta la sua attività N. continuava a vedere nella madre l'impedimento, quasi la voce della tradizione familiare che ella impersonava. E perciò N. si decise all'ultimo passo: sopprimere la madre. Agrippina era invitata dal figlio a un convito a Baia nel marzo 59 e poi nel mezzo della notte era fatta salire per ricondurla alla sua residenza di Anzio su una nave appositamente preparata perché naufragasse. Il disastro avveniva. Ma Agrippina riusciva a salvarsi a nuoto in una sua villa sul lago Lucrino. Quando l'imperatore lo riseppe ordinò che fosse uccisa, adducendo poi a motivazione ufficiale che Agrippina aveva tentato di farlo assassinare. Il giorno della nascita della madre era fatto dichiarare nefasto. Le prime iniziative personali di N. nella vita pubblica seguono appunto l'assassinio della madre.

Nello stesso 59 egli introduceva i ludi greci in Roma col nome di Ludi Iuvenales in un circo fattosi appositamente costruire nella valle del Vaticano e organizzava i giovani della nobiltà in una formazione detta degli Augustiani, il cui scopo era di collaborare con lui nella ellenizzazione della società romana. Non c'è dubbio che gli Augustiani volevano essere una cosciente imitazione dei "paggi regali" (βασιλικοὶ παῖδες) delle corti ellenistiche, e avrebbero anche potuto diventare un abile mezzo di riavvicinamento della nobiltà romana con la corte accattivando i giovani, se N. non avesse guastato dalla radice la sua iniziativa con l'adoperarla per imprese frivole. L'anno dopo, nel 60, era istituita una nuova festa dello stesso genere dei Ludi Iuvenales, ma con più precisa imitazione delle feste olimpiche: fu chiamata Neronia o certamen quinquennale perché doveva ripetersi ogni quinquennio ed era costituita da gare atletiche, corse sui carri, agoni di musica ed eloquenza. Alla festa, riservata ai soli uomini, erano ammesse le vestali, come a Olimpia le sacerdotesse di Demetra. La festa fu poi ripetuta nel 65, ma cadde in dimenticanza dopo la morte di N. e non fu ripresa che da Gordiano III nel 240. Nel 61 N. istituì un ginnasio che, bruciato l'anno dopo, ricostruì nel 66. All'inaugurazione, come un ginnasiarca ellenistico, distribuì l'olio ai senatori e ai cavalieri che prendevano parte agli esercizî. E per rendere più gradito ai Romani il soggiorno nel ginnasio, vi costruì accanto le terme dette neroniane, che stupefecero per lo splendore i contemporanei. Intanto ferveva a corte quella vita raffinata di cui dà una descrizione uno dei più singolari amici di Nerone, Petronio Arbitro nel suo Satyricon. Poesia, eccentricità, fasto, lussuria si alternavano. N. scriveva un poemetto sulla distruzione di Troia, un componimento sui biondi capelli di Poppea, un altro intitolato Luscio, ecc. Frequentavano la sua corte molti artisti, come Lucano; gli dedicava i suoi epigrammi Lucilio.

In tutta questa attività germinava il dissenso con Burro e Seneca. Nel 62 Burro moriva, e si sospettava che l'imperatore lo avesse fatto avvelenare. È sicuro ad ogni modo che N. non lo sostituì affatto con un prefetto del pretorio amico di Seneca, ma ritornò all'antica consuetudine di due comandanti dei pretoriani e per ciascun posto cercò persone non gradite a Seneca: in particolare era avverso a Seneca uno dei due prefetti, Sofonio Tigellino, dal passato avventuroso. Seneca capì che queste nuove nomine erano un invito ad andarsene. Lo riprese allora con maggior forza l'ideale sempre perseguito nei libri, ma non mai attuato, di una vita modesta e ritirata, e diede le dimissioni, che N. con molte buone parole accettò. L'allontanamento di Seneca diede a N. il coraggio, fino allora mancatogli, di liberarsi anche di Ottavia per sposare Poppea. Nello stesso 62 divorziava, poi, spaurito da piccole dimostrazioni di simpatia del popolo per Ottavia, la faceva relegare nell'isola Pandataria e uccidere.

Seneca e Burro lasciarono ai loro successori in eredità il problema partico. Perché, nel 61, sembra per una provocazione del vassallo posto dai Romani in Armenia, Tigrane, il re dei Parti invadeva di nuovo l'Armenia. Mentre Corbulone, nominato da tempo legato di Siria, si limitava a difendere la sua provincia, Cesennio Peto era incaricato di riconquistare l'Armenia ed era clamorosamente sconfitto e costretto a ritirarsi con l'esercito in pieno disordine. Era appunto il tempo del ritiro di Seneca, e N. decise di abbandonare la politica fino allora sostenuta, accettando il suggerimento di Corbulone, che consigliava di accontentarsi che il re messo dai Parti in Armenia si riconoscesse, in quanto re di Armenia, vassallo di Roma. Infatti nel 63 s'iniziavano le trattative in questo senso, che giunsero a risultati conclusivi; ma solo nel 66 il partico Tiridate verrà a Roma a prendere la corona reale di Armenia da N. con una serie di cerimonie estremamente fastose, in cui, tra l'altro, il parto salutò N. come signore del mondo e nuovo Mitra e lo iniziò ai misteri mitriaci. Nel 63, o l'anno dopo, Roma aggregò anche il regno vassallo del Ponto, già tenuto da Polemone II, alla provincia di Galazia: questo provvedimento va forse messo in rapporto con gli approvvigionamenti di grano ricavati dalle regioni del Mar Nero, per cui a Roma conveniva avere quella regione in amministrazione diretta. Anche il regno bosporano di Coti I era, a quanto sembra, aggregato a vantaggio della provincia di Mesia. Movimenti di tribù sarmatiche erano infine fermati sulle rive del Danubio. Nel 66 scoppiava la ribellione giudaica, che richiedeva l'intervento di quasi 60.000 soldati, il cui comando era affidato a Vespasiano. Tutto questo complesso di operazioni militari non avrebbe potuto compiersi senza la fedeltà dell'esercito, che veramente fu, sino agli ultimi tempi del regno, esemplare. Il governo neroniano manifestò sempre, del resto, particolare interesse per i militari, come prova la numerosa serie di colonie a loro destinate in Italia e fuori, ma soprattutto in Italia per combattere il crescente spopolamento. L'opposizione a N. non fu dunque in origine militare. Si opponevano a lui invece molti della vecchia nobiltà ormai disillusi sulle intenzioni dell'imperatore e gli uomini di cultura, a cui la vita lussuriosa di corte era oggetto di sdegno continuo. L'opposizione di questi ultimi si suole chiamare stoica, perché i più erano nutriti di stoicismo: si pensi al poeta Persio, ai filosofi Musonio Rufo e Anneo Cornuto, il secondo dei quali si meritò l'esilio per aver dichiarato a N. inutile il poema sulla storia romana che l'imperatore progettava. Ma l'ostilità si diffuse anche nelle masse popolari, sia dopo l'assassinio di Ottavia, sia soprattutto dopo l'incendio di Roma.

Di questo incendio, scoppiato nella notte del 18 luglio 64, che distrusse molti quartieri della città, pur lasciando intatti il Campidoglio e il Foro, N. non aveva naturalmente alcuna responsabilità: egli, che era allora in villeggiatura ad Anzio, si precipitò a Roma per organizzare i soccorsi alla popolazione e assicurarne gli approvvigionamenti. Anche la leggenda che dall'alto della torre di Mecenate, contemplando l'incendio, cantasse la distruzione di Troia, è probabilmente inventata. Ma il popolo ha sempre cercato un colpevole nelle sue disgrazie e nel caso specifico il nome di N. si offriva spontaneo, non solo per tutti i delitti precedenti, ma per le opere grandiose intraprese dall'imperatore per ricostruire la città, sicché poteva sembrare verosimile che egli avesse voluto incendiare Roma per poi riedificarla secondo i proprî gusti. Difatti Roma fu ricostruita con nuovi criterî per impedire il ripetersi di questi incendî, e N., in sostituzione del palazzo imperiale, la domus transitoria, che l'incendio gli aveva distrutto ancora incompiuta, dava inizio a quell'enorme complesso di edifici e di giardini noto col nome di domus aurea, che avrebbe dovuto estendersi tra il Celio e l'Esquilino. L'opera non era ancora compiuta quando Vespasiano la distrusse sovrapponendo a una sua parte il Colosseo. Per adornare questo edificio e in genere la nuova Roma, N. fece compiere vere razzie di opere artistiche in Grecia e nell'Oriente ellenistico non senza sollevare (p. es. a Pergamo) disordini.

Un'altra ragione d'impopolarità (e di ostilità presso le classi alte) venne poi all'imperatore dalle misure finanziarie (confische, svalutazione della moneta), che necessariamente dovette prendere per compensare le spese provocate dal suo abituale tono di vita e in particolare dalle opere pubbliche, sia in Roma, sia fuori.

N., molto sensibile alla popolarità, credette utile deviare l'attenzione dalla sua persona perseguitando i cristiani, ormai ben distinti dagli ebrei. Si è molto discusso se i cristiani siano stati perseguitati perché cristiani o perché incendiarî di Roma, ma la verità sta quasi certamente nel mezzo, in quanto i cristiani dovettero essere perseguitati come sediziosi e perciò anche presumibili incendiarî di Roma: l'accusa d'incendiarî dovette essere insomma solo un particolare della responsabilità complessiva attribuita al nome di cristiano. La persecuzione si limitò probabilmente a Roma ed ebbe solo echi isolati nelle provincie. Di per sé fu dunque più un fatto politico che religioso, ma l'eco profonda che la persecuzione ebbe nelle coscienze cristiane allora per la prima volta sicuramente individuate dal governo, il ritenere che vi fossero morti San Pietro e San Paolo, valsero a dare a questa persecuzione un significato per la storia umana e per la stessa fama di N. nei tempi successivi che in sé non poteva avere. Ma la persecuzione giovò poco a N.; Tacito anzi afferma che essa provocava pietà per i perseguitati anche da parte di chi li odiava, troppo essendo palese lo scopo della persecuzione.

Il contrasto tra l'imperatore da una parte e le classi alte e il popolo di Roma dall'altra si faceva sempre più netto. Due mentalità erano in opposizione. N. si atteggiava sempre più a "padrone del mondo", a "salvatore del mondo", come lo chiamano spesso iscrizioni e monete d'ispirazione ufficiale: egli s'identificava con tutte le maggiori divinità, Giove, Apollo, Elio, Ercole, Esculapio. Quando nel 63 moriva di pochi mesi la piccola bimba Claudia, nata da Poppea, la consacrava come diva Claudia; e quando nel 65 moriva Poppea stessa (dicono per un calcio datole da N. in un momento d'ira) anch'ella era consacrata. Pure alla terza moglie, Statilia Messalina, sposata nel 66, erano decretati frequenti onori divini. La sua burocrazia accoglieva sempre in maggior numero Greci e Orientali: basti qui ricordare i due prefetti d'Egitto, Balbillo, un astrologo alessandrino, e Tiberio Alessandro, un ebreo apostata. Anche ai liberti, contrariamente alle promesse, erano continuati a dare posti di grande responsabilità: la flotta del Miseno, la prefettura dell'annona, il governo della Giudea, ecc., ebbero spesso funzionarî liberti. Per contrario gli oppositori vagheggiavano un ritorno alla repubblica o almeno a un principato rispettoso delle tradizioni romane e delle classi alte.

Una congiura in questo senso fu scoperta nel 65. Vi facevano parte senatori, cavalieri, intellettuali (tra cui Lucano guastatosi con l'imperatore e forse Seneca), militari, tra cui il prefetto del pretorio Fenio Rufo, geloso del collega Tigellino. Il capo della congiura era C. Calpurnio Pisone, romano di antica nobiltà, famoso oratore, generoso protettore di artisti. Tutti i congiurati erano d'accordo nella necessità di sopprimere N.: non altrettanto nel modo di sostituirlo, alcuni pensando a Pisone successore, altri a Seneca, altri volendo francamente la repubblica. Ma i dissensi non ebbero modo di manifestarsi. La congiura, per l'imprudenza di una liberta, Epicharis, ammessa nel segreto, era svelata: tutti i congiurati furono conosciuti. Alcuni, come Pisone, furono uccisi, altri ebbero tempo di uccidersi e affrontarono la morte con la serena intrepidità che lo stoicismo aveva loro insegnato. Tali Lucano e Seneca. In totale 19 persone erano uccise e 13 esiliate, senza contare le persone coinvolte più tardi e indirettamente, perché questa congiura accrebbe naturalmente la sospettosità di N. e favorì l'inizio di un regime di polizia durissimo, organizzato da Tigellino. Tra le vittime di questi sospetti furono Petronio Arbitro e Trasea Peto, il senatore che celebrava con ghirlande e libagioni gli anniversarî della nascita di Bruto e di Cassio. Tuttavia l'opposizione non disarmava ancora, perché nel 66 era scoperta una nuova congiura, detta viniciana da Annio Viniciano, che aveva sposato la figlia di Corbulone. Da questa congiura furono travolti, oltre che Corbulone, anche i generali della Germania superiore e inferiore, Scribonio Rufo e Scribonio Proculo, come Corbulone allontanati dai loro eserciti senza che nulla trapelasse dei sospetti sul loro conto e poi messi nel dilemma tra il suicidio e la condanna a morte.

Gli eserciti tuttavia, nonostante questa ostilità dei capi, non si muovevano ancora. Ma N. non aveva finora trovato la grande iniziativa che potesse soddisfare le sue aspirazioni di artista e di salvatore del mondo. Nel 66, sotto l'impressione delle feste trionfali per la sottomissione del partico Tiridate, si diede a organizzare tutto un complesso di grandi imprese, che noi conosciamo soltanto in parte, essendo state troncate dalla morte. Mentre arruolava una nuova legione di truppe sceltissime (la I Legio Italica) a cui dava il nome di "falange di Alessandro Magno", che era tutto un programma, e vagheggiava spedizioni nel Caucaso e forse in Etiopia, iniziava un viaggio in Grecia. Egli voleva nella terra delle arti e dei ludi dare sfogo a quelle sue passioni, che in Roma erano troppo poco apprezzate: a parte i ludi quinquennali, solo a Napoli, città ellenica, egli aveva fino allora osato presentarsi in pubblico a recitare. In Grecia invece fece svolgere nello stesso anno tutti i grandi giuochi panellenici e in ciascuno di essi si presentò come concorrente in molte gare e vinse quanto volle. Ma a due altre iniziative egli diede particolare valore: alla così detta liberazione della Grecia e al taglio dell'istmo di Corinto. Il 28 novembre del 66 a Corinto, durante i giuochi istmici (che fece ripetere l'anno dopo) nel luogo ove era già avvenuta la proclamazione di Flaminino, proclamò nuovamente la libertà dei Greci. Ciò non significava affatto che i Greci fossero staccati dall'impero: significava soltanto che, come le città libere, non avrebbero più pagato tributi e non avrebbero più obbedito, per l'amministrazione interna, ai magistrati romani, salvo a essere legati per ogni atto di politica estera a Roma. Tutta la Grecia insomma sarebbe stata elevata alla condizione di Sparta e di Atene già libere. Non era dunque vera libertà politica quella che N. concedeva, ma sempre sufficiente, soprattutto perché accompagnata dallo sgravio tributario, a sollevare entusiasmi nei Greci e riprovazione nei Romani: tanto è vero che Vespasiano, appena salito al trono, annullò il provvedimento. Anche il taglio dell'istmo di Corinto, iniziato con solenni feste nel 67, non fu continuato dopo N., non avendo importanza che per la Grecia, poiché le grandi vie di comunicazione dell'impero ne erano lontane.

Ma alla fine del 67 il liberto Elio, che N. aveva lasciato come suo rappresentante in Italia, invitava l'imperatore d'urgenza a ritornare alla capitale. I motivi precisi che inducevano Elio a temere della situazione non sono noti. Ma s'intende bene che la lontananza dell'imperatore non poteva che avere accresciuto il vigore dell'opposizione. Si aggiungeva per di più il malcontento delle provincie per i privilegi largiti alla Grecia. E questo malcontento era tanto più pericoloso in quanto alcuni provinciali avevano alte cariche nell'esercito e quindi potevano unire nella loro persona l'avversione di generali romani verso un imperatore imbelle e l'ambizione di provinciali per una maggiore libertà e importanza delle loro regioni. Certo è che, se N. poté fare ancora un ritorno trionfale in Italia e con solenne processione portare al tempio di Apollo sul Palatino le 1808 corone guadagnate in Grecia, presto lo raggiungeva (marzo 68) la notizia della ribellione del governatore della Gallia Lugdunense, il gallo romanizzato Gaio Giulio Vindice. Fu il segno del tracollo per N. La sua politica superficiale di ellenizzazione non gli aveva creato nessun sostegno sicuro, ma solo dei nemici. L'unica sua forza poteva essere la fedeltà tradizionale, sincera, alla famiglia Giulia, ma fu una molla che egli non seppe far agire. Se le legioni della Germania superiore al comando di Verginio Rufo ubbidirono a N. e repressero il moto di Vindice, si ribellò l'Iberia, dove prese la direzione del movimento il governatore della Spagna Tarraconense, Sulpicio Galba, a cui aderì tra gli altri Otone, l'ex-marito di Poppea. Il senato, che non attendeva se non l'occasione di abbandonare N., si dichiarò per Galba. Lo stesso Tigellino, vista la situazione, tradiva. E N., inesperto di ogni problema militare, eccitabile, capace solo di gesti teatrali, non sapeva apprestare alcuna seria difesa. L'unica sua iniziativa, l'arruolamento di una nuova legione, tratta dai marinai (I Legio Adiutrix) non aveva alcuna importanza perché la legione giungeva a essere costituita solo quando N. aveva già perso il dominio della situazione. In tale caos bastò che il prefetto del pretorio Ninfidio Sabino si schierasse per Galba e con la promessa di un donativo di 30.000 sesterzî a testa persuadesse i pretoriani a salutare imperatore Galba, perché N. fosse perduto. La notte dell'8 giugno 68 egli fuggiva dal palazzo reale per cercare rifugio nella villa del suo liberto Faonte tra la Via Salaria e la Via Nomentana a quattro miglia da Roma. Quando seppe di essere inseguito, si cacciò il ferro in gola aiutato da uno dei pochissimi che l'avevano seguito, il liberto Epafrodito. Dicono che nelle ultime ore andasse ripetendo: "Quale artista perisce con me!" e che al centurione sopraggiunto per catturarlo mormorasse ormai agonizzante "Tardi! Questa è la fedeltà!". La sempre devota Atte provvide a seppellirlo nella tomba di famiglia dei Domizî in Campo Marzio (9 giugno 68). N. aveva 30 anni e 6 mesi circa.

La leggenda di Nerone. - Le stesse circostanze della sua morte favorirono il diffondersi della credenza che egli non fosse morto (Nero redivivus). Ciò fu specialmente creduto in Grecia, dove N. godeva di particolare popolarità, e presso i Parti, tra cui le vicende della guerra e più l'iniziazione mitriaca di N. avevano confermato la convinzione della sua natura sovrumana. Due mistificatori, uno nel 69 e l'altro nel 79 (quest'ultimo di nome Terenzio Massimo) ebbero quindi facilità a farsi passare per N.: il secondo anzi si rivolse ai Parti. Ma entrambi, smascherati, finirono miseramente. Non bastano però le vicende misteriose della morte a spiegare la fortuna postuma di N. Essa affonda nello stesso carattere del suo governo, il primo che avesse dato ai sudditi la sensazione della dignità imperiale come di una forza eccelsa ex lege, capaee delle cose più generose (liberazione della Grecia) come delle più terribili (matricidio). Nell'Occidente il fenomeno ebbe una portata piuttosto limitata: chi rimpianse N. rimpianse in lui la famiglia Giulia Claudia: chi lo odiò, lo odiò come cattivo imperatore. Ma in Oriente, dove il terreno era preparato, la sua figura si disumanò. Dione Crisostomo attesta che al tempo di Traiano ancora si attendeva il suo ritorno. Solo però presso gli ebrei e i cristiani N. assunse quegli aspetti diabolici che tutta la tradizione medievale con mille fantasie ha conservato e sviluppato. Ebrei e cristiani per il loro più fine senso morale non potevano non sentire il massimo orrore per il matricida e il lussurioso. Per gli Ebrei inoltre sotto il regno di N. si era iniziata la tragica lotta, che porterà alla distruzione di Gerusalemme: gli oracoli sibillini giudaici considerarono il ritorno al trono di N. come il trionfo momentaneo di Satana, che precede l'avvento del regno messianico. Con più profondità la tradizione apocalittica cristiana identificherà più precisamente N. o con l'Anticristo o come colui che precede e prepara l'avvento dell'Anticristo prima della fine dei giorni. Colui che si era atteggiato a salvatore del mondo diventava così il contrapposto del Salvatore, i cui fedeli aveva perseguitati. E come persecutore sopra tutto visse nella memoria delle seguenti generazioni cristiane, e fornì agli apologisti latini un valido argomento: gl'imperatori che hanno perseguitato i cristiani furono quelli il cui governo fu più abbominevole. Nel popolino romano rimase però anche la memoria di una certa truce grandezza non scompagnata da splendore e magnificenza: la sua tomba fu ravvisata presso il casale che porta ancora questo nome, sulla via Cassia, ove esiste il grande sarcofago di P. Vibio e nella Torre delle milizie, quella di Mecenate, donde N. avrebbe contemplato l'incendio da lui stesso provocato (v. sopra).

Ma né la grande tragedia classicheggiante, né le arti figurative s'occuparono molto di N.; almeno fino al romanticismo. Allora - forse per un influsso di opere come Les martyrs dello Chateaubriand, che ridestò l'interesse per l'antichità cristiana - qualche pittore prese come soggetto l'incendio di Roma, attenendosi naturalmente ai motivi leggendarî. N. fu scelto a protagonista di drammi, come quello di P. Cossa (1871; dall'autore definito "commedia") e opere in musica (A. Rubinstein, 1879; A. Boito, P. Mascagni). A risvegliare l'interesse degli studiosi per la questione storica dell'incendio e della persecuzione anticristiana, e a rendere ancora più popolare l'immagine di N. tiranno, cui fanno contrasto, nella loro eroica mitezza, i martiri cristiani, contribuì, nei primi anni del 1900, il Quo Vadis? di H. Sienkiewicz, che ebbe spettacolose riduzioni cinematografiche.

Fonti: Le fonti principali sono Tacito, Annali, XIII-XVI (interrotto all'anno 65); Svetonio, Vita di Nerone; Dione Cassio, LXI-LXIII, in parte nei riassunti degli epitomatori. Questi tre autori risalgono probabilmente alle Storie di Plinio il Vecchio. Interessante anche la tragedia Octavia, attribuita falsamente a Seneca e scritta poco dopo la morte di Nerone. I frammenti poetici di Nerone in Morel, Fragmenta poetar. latin., pp. 131-32. Le principali iscrizioni in H. Dessau, Inscriptiones latinae selectae, n. 225-36; 8901-2. Le principali iscrizioni greche in W. Dittenberger, Sylloge, 3ª ed., 807-14; id., Orientis Graeci Inscriptiones selectae, 55; 475; 538; 666-8. Monete in H. Mattingly e E. A. Sydenham, The roman imperial coinage, I, Londra 1923, p. 137 segg. Le monete alessandrine di particolare importanza in J. Vogt, Die alexandrinischen Münzen, Stoccarda 1924, p. 26 segg. Per l'iconografia neroniana J. Bernoulli, Römische Ikonographie, II,1, Berlino e Stoccarda 1886, p. 385 segg. Per la leggenda di N. i principali testi raccolti in C. Pascal, Nerone nella storia aneddotica e nella leggenda, Milano 1923.

Bibl.: È possibile qui indicare solo alcuni studî fondamentali o comunque famosi. Una bibliografia sistematica e aggiornata si potrà trovare in Cambridge Anc. Hist., X (1934), in appendice al capitolo su N. di A. Momigliano. Le monografie fondamentali sono H. Schiller, Gesch. des röm. Kaiserreichs unter N., Berlino 1872, e B. W. Henderson, The life and principate of the emp. N., Londra 1903. Hanno interesse storico l'Encomium Neronis di G. Cardano, Amsterdam 1640, e D. Diderot, Essai sur le règne de Claude et de N. et sur les møurs et les écrits de Sénèque, Parigi 1779. Buono per la diligente raccolta del materiale l'articolo di E. Hohl, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III suppl., col. 349 segg.

Sulle ricerche delle fonti le indicazioni bibliografiche in A. Momigliano, Osservazioin sulle fonti per la storia di Caligola, Claudio e N., in Rendiconti dei Lincei, s. 6ª, VIII (1933), p. 293 segg. Su N. e l'Oriente, W. Schur, Die Orientalpolitik des Kaisers Nero, in Klio, suppl., Lipsia 1923, fasc. 15°; G. Schumann, Hellenistische und griechische Elemente in der Regierung Neros, diss., Lipsia 1930; U. Wilcken, Kaiser Nero und die Alexandrinischen, in Arch. f. Papyrusforschung, V (1913), p. 182 segg. Per la persecuzione contro i cristiani, C. F. Arnold, Die Neronische Christenverfolgung, Lipsia 1888; Th. Mommsen, Der Religionsfrevel nach römischen Recht, in Gesammelte Schriften, III, p. 389 segg.; A. Coen, La persecuzione neroniana dei Cristiani, in Atene e Roma, III (1900), pp. 249 segg., 297 segg., 329 segg.; C. Pascal, L'incendio di Roma e i primi cristiani, in Fatti e leggende di Roma antica, Catania 1903, p. 117 segg.; A. Profumo, Le fonti e i tempi dell'incendio neroniano, Roma 1905; E. Meyer, Ursprung und Anfänge des Christentums, Stoccarda e Berlino 1923, III, p. 500 segg. Per l'opposizione sotto N., G. Boissier, L'opposition sous les Césars, 1ª ed., Parigi 1875; E. Ciaceri, La congiura pisoniana contro Nerone, in Processi politici e relazioni internazionali, Roma 1918, p. 363 segg.; C. Barbagallo, La catastrofe di N., Catania 1915. Per la concessione della libertà ai Greci, M. Holleaux, Discours de Néron prononcé à Corinthe pour rendre aux Grecs la liberté, Lione 1889 (cfr. Bull. Corresp. Héllen., XII, 1888, p. 510). Per la domus aurea, F. Weege, Das Goldene Haus des Nero, in Jahrb. d. deutsch. archäol. Instit., XXVIII (1913), p. 127 segg. Per la politica di colonizzazione, A. Sogliano, Colonie neroniane, in Rend. Acc. Lincei, s. 5ª, VI (1897), p. 389 segg. Per la cronologia, H. Mattingly, Tribunicia potestate, in Journ. Roman Studies, XX (1930), pp. 79-80 e L. Holzapfel, Römische Kaiserdaten, in Klio, XII (1912), p. 483.

Per la leggenda e la fortuna letteraria di N., oltre il citato libro del Pascal, si cfr. A. Reville, N. l'Antichrist, in Essais de critique relig., Parigi 1869, p. 79 segg.; A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medioevo, I, Torino 1882, p. 332 segg.; D. Gnoli, N. nell'arte contemp., in Studi lett., Bologna 1883, p. 241 segg.; E. Callegari, N. nell'arte figurativa contemporanea, Venezia 1891; id., N. e la sua corte nella storia e nell'arte, I: L'arte antica e mediana, Venezia 1892; J. Geffcken, Studien zur älteren Nerosage, in Nach. Gesell. Gött., 1899, p. 441 segg.

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