Regolamentata dalla legge n. 508 del 21 dicembre del 1999, l’Afam (Alta formazione artistica musicale e coreutica) attende ancora oggi una lunga serie di aggiustamenti normativi per dirsi pienamente equiparata al modello universitario, e questo a partire dallo status giuridico-economico dei suoi docenti. Argomento, in mezzo a ulteriori altri, oggetto di pubblico, politico dibattito il 7 maggio scorso al Senato della Repubblica, dove su iniziativa della senatrice Mariastella Gelmini si è tenuto l’incontro “Quale futuro per l’Afam?”.

Nel corso dell’evento si sono confrontate sigle sindacali, associazioni, direttori di conservatorio, presidenti di organizzazioni varie, politici, studenti e docenti: “Le mansioni dei professori Afam – ha spiegato la senatrice Gelmini, vicesegretario e portavoce di Azione – sono pressoché identiche a quelle dei professori universitari, i primi hanno circa lo stesso carico didattico dei secondi; come l’università l’Afam bandisce concorsi pubblici per le proprie posizioni e per l’abilitazione nazionale. Ciò nonostante i professori Afam vengono pagati molto meno dei professori universitari perché la loro assunzione è legata al contratto collettivo nazionale del lavoro, il che vuol dire che percepiscono uno stipendio grossomodo identico a quello degli insegnanti di scuola superiore”.

Problematica a cui si aggiunge quella relativa alla piena valorizzazione della ricerca: da poco è stata istituita, anche negli istituti Afam, la figura del ricercatore insieme al relativo contratto, senza però alcuna destinazione di fondi dedicati. La ricerca, dunque, viene ancora oggi svolta su base volontaria e con risorse proprie dei docenti “volenterosi”, non certo il migliore degli incentivi possibili a un settore d’intervento cruciale per il futuro della cultura artistica italiana. “La ricerca – afferma Antonio Caroccia, presidente nazionale di ANDA, Associazione Nazionale Docenti Afam -, motore di ogni Paese avanzato, dovrebbe essere, come per l’università, obbligatoria, sottoposta a valutazione e, di conseguenza, finanziata, non lasciata in preda di un deleterio spontaneismo”.

Altrettanto urgente è poi la questione dei titoli accademici rilasciati dalle istituzioni Afam, che nonostante abbiano in comune con l’università l’articolazione degli studi in tre cicli, la struttura in crediti, l’equiparazione dei corsi di studio di terzo ciclo (i corsi di formazione per l’Afam che corrispondono ai dottorati di ricerca delle università), il monteore dei docenti, ecc., rilasciano diplomi accademici di I e II livello che, sebbene equiparati alle lauree, creano ancora ambiguità e confusione: in quanto diplomi accademici di I e II livello hanno cioè difficoltà ad essere riconosciuti a livello europeo, dove, per i corsi di studio di primo e secondo ciclo, vige invece un’unica denominazione, Bachelor’s degree e Master’s degree.

La questione si fa ancora più grave soprattutto in considerazione del fatto che si parla di un settore, come spiega Caroccia, “(…) che coinvolge circa 100.000 studenti, di cui il 10% stranieri (dato, quest’ultimo, di gran lunga superiore alle università), oltre 8.000 eventi organizzati sul territorio nazionale tra concerti, mostre e convegni) e 10.000 docenti a tempo indeterminato e determinato”.

Che la musica, nonostante l’identità culturale italiana sia storicamente a fortissima trazione musicale, non sia mai stata il primo dei problemi della classe dirigente questo è noto, e lo è specie in considerazione del fatto che la proposta di legge per l’inserimento di storia della musica in tutti i gli istituti liceali giaccia ancora, dal gennaio del 2019, in qualche cassetto della Camera dei Deputati. Sarebbe però arrivato il momento che la politica se ne assumesse la piena responsabilità: “Non si procede a strappi – ha detto Mariastella Gelmini il 7 maggio scorso -, serve una certa gradualità, ma dal ’99 a oggi son passati 25 anni, i decreti attuativi della 508 devono essere completati e il Parlamento deve iniziare a ragionare su come superare queste disparità di trattamento”.

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