1970 - Avishai Cohen - recensione

Prima di mettermi a scrivere questa recensione ho aspettato diverso tempo e diversi ascolti, perché Avishan Cohen è uno dei bassisti e compositori più interessanti e creativi del panorama jazz mondiale.

Il già recensito su questa bacheca “Gently Disturbed” del 2008, per me, è decisamente un capolavoro in epoca moderna per quanto riguarda il trio contrabbasso/piano/batteria, per intenderci.

Nel 2017 il bassista/contrabbassista jazz israeliano pubblica “1970”, un disco che viene reclamato come “non propriamente jazz”.

Ed è cantato.

Dallo stesso Cohen.

Dopo aver chiuso gli occhi e respirato bene, mi sono messo alla ricerca dell’album che vede coinvolti Itamar Doari (percussioni e voce), batterista nel Trio, la cantante Karen Malka, Yael Shapira (violoncello e voce), Elyashaf Bishari (oud, chitarra baritona, voce), Jonathan Daskal (tastiere) e Tal Kohavi (batteria).

Cinque cover e sette composizioni originali.

Partiamo con le cover.

La prima è “Se’i yona”, che ho scoperto essere una canzone popolare yemenita, già incisa da Ofra Haza, in cui risalta l’oud di Bishari ed il basso acustico dello stesso Cohen. La seconda è “For no one” del duo Lennon-McCartney (album “Revolver” del 1966) e l’effetto è minimalista, piano didascalisco di Daskal, voce precisa ed incisiva e un piccolo movimento di contrabbasso a concludere. Non me ne voglia il baronetto, ma Cohen ne ha fatta una versione migliore, per i miei gusti. La terza è “Motherless Child”, ovvero “Sometimes I feel like a Motherless Child”, scritta probabilmente un secolo prima del titolo del disco (1870 circa), arricchita di un’orchestrazione di archi, mantenendo il gospel spirit e dandole una connotazione funky. Sono riproposti nell’album anche gli “Oh Buon Dio”, traduzione italiana di “Oi va voi”, gruppo elettro-rock ebreo-inglese stabilitosi a Londra. Il brano in questione è “D’ror Yikra”, la rivisitazione non perde l’importanza delle percussioni e mantiene l’impostazione minore armonica, ma ne guadagna indiscutibilmente in gusto e perizia tecnica. L’ultima “latinata” è dell’americano-portoricano Eddie Palmieri, ovvero “Vamonos P’al Monte”, che perde un po’ di spirito salsa-rock, ma incrementa con favore in anima, grazie all’importante traccia di basso.

Passiamo alle composizioni originali.

In “Song of Hope” siamo assolutamente in un contesto musicale degli anni ’70. Wah-wah, tastiere in vibes e time signature 4/4 con batteria che raddoppia solo sul charleston. La canzone di speranza ha un testo gradevole, ma niente di sconvolgente e mai sentito.

Traccia d’amore in modalità blues è “My Lady” con un basso “vocale” che strappa un sorriso, mentre in “Move on”, sempre in love-mood, si esprime il dolore per il più classico dei “passiamo oltre”, in cui la fortificazione pianistica permette al basso, all’oud e al cello di emergere con gusto. “Ha’ahava” è tradotto letteralmente in “L’amore” e tratta dell’amore di cui avrebbe bisogno il mondo in questo periodo storico (che un po’ si ricollega a “Song of Hope” nei contenuti).

Soul alla “Seal” (bello il gioco di parole, nevvero?) in “It’s been so long”, bell’intreccio di voci tra la profondità di Cohen e la delicatezza d Karen Malka, mentre “Emptiness”, ha la strofa e la parte strumentale impostata su un dinamico 5/8, risultando la traccia più convincente dell’opera.

La composizione più pop dell’album é “Blinded”, con semplici assoli di basso e chitarra e l’introduzione dell’elettronica.

Ho tenuto proprio “Blinded” in un paragrafo a parte per utilizzare la parola “pop”, perché questo é “1970”. E’ un disco letteralmente POP(ular), nessuna accezione negativa, ma non è ciò che mi aspettavo da un “non propriamente jazz”. Sì, strizza l’occhio al jazz, è vero, al funk, al latino-americano, ad Israele, tramite la lingua e nell’utilizzo armonico e strumentale (vedi l’oud), ma non mi aspettavo una virata pop dopo “From Darkness”.

Album indiscutibilmente ben prodotto (Jay Newland non è un cretino), ottimamente suonato e ben cantato (da questo punto di vista Cohen è stato sicuramente una rivelazione positiva, mettendo in mostra un timbro profondo ed espressivo), ma è una svolta radio-amica, che spero non sia “svolta”, ma solo vezzo artistico che l’artista di Kabri si è voluto concedere dopo 20 anni di incisioni.

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