Cento suicidi in carcere in due anni, le storie e i drammi. La denuncia di Antigone: “Il malessere che nelle celle non viene capito” - la Repubblica

Cronaca

Cento suicidi in carcere in due anni, le storie e i drammi. La denuncia di Antigone: “Il malessere che nelle celle non viene capito”

Cento suicidi in carcere in due anni, le storie e i drammi. La denuncia di Antigone: “Il malessere che nelle celle non viene capito”
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Ecco il drammatico rapporto dell’associazione che meticolosamente elenca i suicidi, ne descrive le cause, e denuncia le inadeguatezze delle patrie galere e le responsabilità di chi le dirige

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ROMA - Cento suicidi in cella. In due anni. Ottantotto detenuti si sono impiccati. Cinque sono morti col gas. Tre per lo sciopero della fame. E altri tre si sono tolti la vita a seguito di incendi che loro stessi avevano provocato. È il “nodo alla gola” che quest’anno racconta il rapporto di Antigone, l’associazione che da anni si batte “per i diritti e le garanzie nel sistema penale” documentandone i numeri, le manifeste carenze, l’indifferenza della politica rispetto alle cifre drammatiche, con leggi e norme che producono sempre più galera, proprio come sta avvenendo col governo Meloni.

Che dire quando, a fronte di 51.178 posti disponibili sulla carta (ma già l’anno scorso a giugno ne andavano esclusi 3.640) i detenuti sono 61.049? E visto che, in media, aumentano di 331 al mese, la stima di Antigone è che a fine 2024 saranno “oltre 65mila”. Undici anni fa, quando se ne contarono 67mila, la Cedu mise l’Italia sotto i riflettori e la multò di santa ragione.

E non ci si suicidava allora come adesso. Tant’è che proprio Antigone produce un rapporto nel rapporto, quello dedicato al “nodo alla gola”, che ripropone le storie drammatiche di chi in cella decide di farla finita. Un rapporto che esce giusto nel giorno in cui alla Camera vengono presentati gli emendamenti al ddl Giachetti sulla “liberazione anticipata speciale”, 60 giorni di bonus anziché 45 ogni sei mesi, riconosciuti solo nei casi di “buona condotta”, ma su cui incombono già le pressioni carcerocentriche di chi, di fronte a qualsiasi concessione ai detenuti, agita lo spauracchio dei reati gravi come mafia e terrorismo che invece possono essere esclusi.

Il record dei cento suicidi

Sembrava che il 2022 dovesse passare alla storia “come l’anno record dei suicidi”, per via degli 85 accertati, ma invece ecco che tra il 2023 e il 2024 “si continuano a registrare cifre impressionanti”. Settanta detenuti suicidi l’anno scorso. E “almeno 30 quest’anno, perché numerosi decessi hanno cause ancora da accertare” scrive Antigone. E solo una volta, nel 2001, 69 detenuti si erano uccisi. Ovviamente, anche in questo caso come per il numero complessivo della popolazione carceraria, se il trend dei primi quattro mesi dovesse mantenersi stabile, giungeremmo “a livelli ancor più drammatici”. Ma non basta, perché confrontando il tasso dei suicidi dentro e fuori dal carcere Antigone scopre che “in cella ci si leva la vita ben 18 volte in più rispetto alla società esterna”.

Chi si suicida, da dove viene, e perché

Su cento detenuti suicidi, “cinque erano donne”. E Antigone nota che si tratta di “un numero particolarmente alto” visto che proprio le donne in carcere “rappresentano solo il 4,3% del totale”. E la memoria va subito alle tre che si sono uccise a Torino poi una a Trento, e ancora una a Bologna. Anche l’età colpisce, la media è sotto i 40 anni. Ecco 33 casi tra i 30 e i 39 anni, 17 tra i 20 e i 29.

Ci sono 27 casi tra i 40 e i 49 anni, 17 tra i 50 e i 59. Solo 5 casi dai 60 ai 69. Antigone registra l’ultimo suicidio prima di chiudere il rapporto, quello del 13 marzo nel carcere di Teramo, un ragazzo che giusto quel giorno compiva 20 anni. E dei cento suicidi ben 42 sono stati compiuti da stranieri, che rappresentano il 31,3% dei detenuti. Di questi 19 arrivavano dal Nord Africa e 13 dall’Europa orientale.

La sofferenza che il carcere ignora

Ma cosa c’è dietro il suicidio? “Il condizionale è d’obbligo” scrive Antigone perché dai dati anagrafici e dalle cronache giornalistiche si scopre che “almeno 22” dei cento detenuti suicidi “soffrissero di patologie psichiatriche”. E “almeno 12 pare avessero già provato a togliersi la vota”. E ancora “almeno 7 persone avevano un passato di tossicodipendenza”. Mentre “almeno 6 erano senza fissa dimora”. Dunque parliamo di tutte persone che, una volta entrate in carcere, avrebbero dovuto avere addosso i riflettori, e ovviamente un costante aiuto psicologico. Ma a parte le sole 4 telefonate al mese di dieci minuti ciascuna, che ovviamente Antigone chiede che vengano liberalizzate, ecco l’assoluta inadeguatezza dell’assistenza psicologica a fronte del ricorso massiccio agli psicofarmaci.

I dati ci dicono che “il 20% dei detenuti (oltre 15mila) fanno regolarmente uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi, cioè di quella tipologia di psicofarmaci che possono avere importanti effetti collaterali”. E ancora, “il 40%, 30mila persone, fa uso di sedativi o ipnotici”. Nel 2023 Antigone ha registrato 122 Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio, effettuati in carcere, che definisce “una pratica illegale se svolta all’interno delle sezioni detentive senza ricoverare la persona in un ospedale come richiede la legge”.

Quando e come avvengono i suicidi

È un fatto, che Antigone registra, come i detenuti suicidi siano molto spesso “in attesa di giudizio”. “Sono almeno 28 le storie di suicidi avvenuti dopo brevi, se non brevissimi periodi di detenzione. Alcune persone erano in carcere da qualche mese. Alcuni da qualche settimana. Almeno 9 erano entrate solo da una manciata di giorni”. Ma, all’opposto, si suicida anche chi sta per uscire dal carcere. “Se ne contano almeno 14 con una pena residua breve o prossimi a richiedere una misura alternativa”. E ad alcuni “mancavano solo pochi mesi per rientrare in società”.

Cento storie drammatiche

Ma chi era chi se n’è andato? Ecco la storia dei due detenuti morti per sciopero della fame ad Augusta, 41 giorni uno, 61 l’altro. Il primo, di Gela, diceva di essere finito in cella per errore, il secondo, un cittadino russo, voleva scontare la pena in patria. Le tre donne di Torino detenute alle Vallette potevano essere salvate. Ed ecco Bassem Degachi, suicida a Venezia anche se la moglie aveva avvertito il carcere che c’era questo rischio perché, proprio in procinto di uscire, s’era visto notificare una nuova ordinanza di custodia. E che dire del suicidio di Fakhri Marouane, un marocchino vittima di pestaggi a Santa Maria Capua Vetere, che sembra proprio recuperato, potrebbe fare l’operatore socio-sanitario, e invece si dà fuoco a Pescara morendo due mesi dopo all’ospedale di Bari?

È terribile quest’elenco di suicidi, che proprio Repubblica via via documenta. Come i tre avvenuti a Verona, tra novembre e dicembre 2023, un rifugiato politico afghano, “ospitato nell’area riservata ai pazienti psichiatrici”, un indiano adottato da una coppia veronese dentro da tre settimane, un marocchino che lamentava un grave disagio psicologico. Ed ecco il primo suicidio del 2024, un giovane di 25 anni che si toglie la vita ad Ancona. Un caso drammatico. Ricorda Antigone: “Da quando aveva quindici anni faceva i conti con un disturbo bipolare e poi con la tossicodipendenza. M. C. era tornato da poco in carcere a causa della revoca di una misura alternativa che aveva ottenuto grazie al lavoro. Aveva fatto ritardo rispetto all'orario previsto per il suo rientro e il giudice aveva deciso di rimandarlo dentro. Da settimane M. C. diceva di stare male. Venerdì 5 gennaio lo aveva ripetuto per l’ultima volta alla madre e agli agenti della penitenziaria durante un colloquio: “Se mi riportano laggiù in isolamento m’ammazzo”. Poche ore dopo è morto nella sua cella nel seminterrato dell’istituto. Gli mancavano otto mesi per uscire”. Ecco, quest’elenco potrebbe proseguire. E rivelerebbe la totale inadeguatezza dello Stato. Il Guardasigilli Carlo Nordio, appena un paio di settimane fa, ha stanziato 5 milioni di euro. Ma non è solo con il denaro, come dimostra il rapporto di Antigone, che si può chiudere questa spirale di morte.

Nessuno va buttato in galera

È scontato che chi sta male, anche psicologicamente, non dovrebbe essere “buttato in galera”. Ma la mentalità carcerocentrica del governo Meloni, i nuovi reati, l’inasprimento di quelli esistenti (mai per i colletti bianchi) non vanno decisamente in questa direzione. Tutt’altro. Antigone chiede “percorsi alternativi per chi ha problemi psichiatrici e di dipendenza”, ma che sia anche “migliorata la vita negli istituti per ridurre il più possibile il senso di isolamento e di marginalizzazione”. E quindi “le telefonate andrebbero liberalizzate”. E va attuata la sentenza della Consulta sul diritto all’affettività in carcere. Ma nel “carcere umano” che Antigone immagina il detenuto non andrebbe certo sbattuto in cella, ma dovrebbe “avere il tempo necessario per ambientarsi alla nuova condizione”. I “nuovi giunti” dovrebbero andare in reparti ad hoc. E le stesse modalità “dolci” andrebbero adottate nel fine pena, al punto che gli istituti penitenziari dovrebbe “dotarsi di un vero e proprio servizio di preparazione al rilascio”. Un carcere umano, a fronte della ferocia di quello attuale.

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