LA CHIMERA - Spietati - Recensioni e Novità sui Film
Drammatico, Recensione, Streaming

LA CHIMERA

NazioneItalia, Francia, Svizzera
Anno Produzione2023
Durata130'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Fa parte di una banda di “tombaroli” – un po’ ne è il leader -, ladri di bellezze etrusche rimaste nel sottosuolo del mondo e del tempo; ha conosciuto l’amore e poi lo ha perduto. La misteriosa, imprendibile chimera di Arthur è, prima di tutto, la sua esistenza.

RECENSIONI

Piccola Italia Centrale, anni Ottanta. Il sole insegue gli amanti nella Chimera: lo dice Beniamina (Yile Vianello) - quasi ad avvertire una minaccia, una presenza ostinata e contraria, una sventura prossima - ad Arthur (Josh O’Connor), «l’inglese», così lo chiamano, mentre, e chissà dove sono, i due giocano all’amore, ai suoi sguardi, ai suoi occhi. E sembra, il volto di Beniamina, come sfuggito all’inchiesta di Futura, il documentario sui sogni e sulle speranze di gioventù girato su e giù per l’Italia da Alice Rohrwacher con Francesco Munzi e Pietro Marcello prima e durante la pandemia; pare provenire da un quadro sopravvissuto al tempo, da un altro mondo, da un romanzo in versi di Attilio Bertolucci che ne scruta la pelle, il colore. Sembrano, i due (ma è, quello di Arthur, come altri che vedremo nel film, un sogno? un ricordo? una vita passata? inventata?), un’immagine, un fantasma, un compimento fragile di quella frommiana arte di amare per la quale «dare è in se stesso una gioia squisita […] l’amore è una forza che produce amore; l’impotenza è l’incapacità di produrre amore». Arthur è ora un orfano del sentimento, un bambino sperduto diventato adulto lontano dall’Isola che non c’è, se mai c’è stata, un vampiro incapace e malinconico condannato alla sospensione tra i mondi della vita e della morte, del passato e del presente, sotto la terra e in superficie. È un “tombarolo” questo straniero senza patria, senza tempo, senza dèi ma attraversato da spettri, devoto a una mitologia che sa sentire, che sa avvicinare, ma che non sa, che non può, realmente vivere, avvinghiato inerme a una magia che lo ammalia e lo annichilisce. «Gli etruschi hanno dedicato la loro arte, la loro maestranza, le loro risorse all’invisibile. Per i tombaroli semplicemente l’invisibile non esiste», afferma la regista. E dal loro scardinato, rabberciato, immobilistico universo felliniano preda di improvvise accelerazioni da balletto pasoliniano, discendono nei meandri della Storia e delle divinità, si inabissano nella terra, tra i sepolcri di una civiltà perduta, in un’archeologia immortale, sottraendole manufatti, reperti, le meraviglie, ma non l’anima, le anime.

Arthur, però, è il corpo estraneo della sua banda, è un rabdomante, calpesta un sottomondo il cui cuore batte con un ritmo che solo lui sa, lui che ha perduto il filo, lui che ha perduto l’amore in questo film che sospende le categorie, facendole galleggiare nella nuvola dell’impalpabilità, del tempo che è e non è nel medesimo istante, che si espande e restringe, respira. È una fiaba, La Chimera; un cantastorie intona le gesta dei ladri, la legge goffamente li insegue, un mercante d’arte di cui nessuno conosce le fattezze quasi ne regge i destini. Anche le partecipazioni di Isabella Rossellini e Alba Rohrwacher, i loro personaggi, come gli altri, sono saltelli del racconto, improbabili verità, bizzarre smarginature. È un‘opera in 35 mm, in 16mm, in super 16 mm: Alice Rohrwacher gioca con il racconto e con l’immagine, con l’incanto e con il lutto attraversandoli con una levità sorprendente, con una nostalgia dal cuore slapstick, quasi una molla, dentro un cinema a nostro avviso pienamente liberatosi per la prima volta da certi obblighi e crismi autorialistici presenti in passato. Arthur è una (in)felicissima fantasia, un uomo fantasticamente assurdo, dinoccolato tra la resa e la rivolta - impossibili entrambe – al reale; l’occhio di Rohrwacher è serafico, la regista guarda il suo protagonista come lo vede Beniamina, il film tiene per mano Arthur, gli sorride ineffabile mentre gli dà le spalle come fa la sposa allo sposo sul Sarcofago, è cinema che danza come l’auleta su un vaso dipinto. Il senso di beato smarrimento che Rohrwacher sa produrre è un innesto, una nuova memoria narrativa, recupero del tempo perduto, del tempo mai avuto. Ci consegna un filo in mano al principio, e insieme la libertà di tenderlo per vedere dove porta oppure di lasciarlo andare e smarrirsi. I tombaroli raccontano che quando si scoperchiano le tombe quel che erano stati corpi, arrivati dai millenni fino all’orlo dei nostri giorni, al contatto con la luce e l’aria, in un istante evaporino. Questa bellezza non è fatta per gli occhi degli uomini - direbbe Arthur -, non più. Questo film, invece, deve ancora incontrare più occhi possibili. E poi evaporare.