Explosions In The Sky - End - Recensioni - SENTIREASCOLTARE

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Quando un gruppo con un corposo e significativo passato alle spalle come gli Explosions In The Sky intitola un album End, o qualcosa di simile, c’è sempre da preoccuparsi. Niente paura, però: loro hanno già rassicurato che questo non sarà il loro ultimo capitolo, quindi per Fine non è da intendersi quella del loro percorso artistico bensì la conclusione in senso lato, sia essa di una relazione amorosa o di un’amicizia. Che poi, si sa, una fine può anche segnare un nuovo inizio (e le mezze stagioni non esistono più).

Quanto a dischi in senso stretto i quattro di Austin mancavano da 7 anni, tanti ne son passati da The Wilderness, ma nel frattempo si son tenuti in allenamento arrivando a questo ulteriore step in piena forma, magari non al livello dei primi lavori ma comunque pregni di bellezza, potenza, intensità. La cifra è sempre quella che ha fatto di loro, a inizio 2000s, gli esponenti di punta del genere in USA e, in un ipotetico contest internazionale, sfidanti ideali dei canadesi Godspeed You! Black Emperor, degli scozzesi Mogwai e dei nostri Giardini di Mirò.

Dicevamo che post-rock e cinema sembrano fatti l’uno per l’altro. In effetti, in tema di colonne sonore gli EITS hanno già dato, vedasi – ma è solo l’ultima in ordine di tempo – quella del 2021 per il documentario naturalistico dedicato alla propria terra d’origine, il Texas. Pure questa loro ottava fatica in studio ha quel piglio cinematico che par pensato apposta per sonorizzare ampie vedute di panorami bradi, desolati (quando non post-atomici). Il commento sonoro a una puntata di Geo & Geo o Kilimangiaro, volendo. Una raccolta di brani ovviamente strumentali, musiche in cui forma e maniera ricoprono una parte preponderante, che il combo si trova ancora una volta a innervare con cuore e muscoli. L’impressione però è che, almeno nel loro caso, ci si sia allontanati dal post-rock classicamente inteso. Da tempo il genere ha perso la forza propulsiva degli inizi, e dopo essersi un po’ incartato su se stesso sembra che gli stessi suoi alfieri – quali sono indubbiamente gli EITS – si siano messi di punta per allargare il campo, pur restando fedeli a loro stessi.

Nell’opener Ten Billion People, per esempio, le coordinate sono quelle che abbiamo apprezzato nel summenzionato ultimo disco in studio: piano sequenza lunghissimi, pensati in grande, su schermo IMAX, un florilegio di riff circolari e ricami chitarristici wave/shoegaze, batterie cariche di riverbero, rintocchi di piano ed effetti che in sede di studio di registrazione, e post-produzione (è tutto un post- con loro), vengono amplificati e spazializzati per la massima resa di ogni strumento, alternando intimità e improvvise esplosioni (è proprio il caso di dirlo).

Non di meno il pezzo riporta a certe nevrosi urbane à la Broken Social Scene, con i tipici crescendo epici del caso. Al contrario Moving On, dall’impianto rock con basso e batteria ben in evidenza dalle parti dei GY!BE e un giro di chitarra a ricamare attimi di dolcezza e rasserenamento, è più quadrata, più afferente a un filone che nel XXI secolo pareva poter dare nuova linfa al rock ma è finito triturato – pure lui – nel calderone degli ascolti “liquidi”. Per parte sua Loved Ones parte quasi ambient per poi cedere il passo a una celestiale melodia al piano che si ispessisce via via, calibrando perfettamente impeto e calma, minimalismo e magnificenza. Peace Or Quiet risuona invece come un alito di vento che si spande in un paradiso incontaminato per poi ergersi maestosa come un gigantesco drago buono custode delle chiavi per l’infinito.

Del resto la stessa traccia conclusiva si intitola It’s Never Going To Stop, con tanto di rintocco d’orologio in sottofondo in stile Time dei Pink Floyd (che infatti dopo 50 anni rintocca ancora che è una bellezza). Senza scomodare quanti e paradossi nolaniani, come già dicevano gli Smashing Pumpkins: the beginning is the end is the beginning.

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