L'ELEMENTO DEL CRIMINE - Spietati - Recensioni e Novità sui Film
Drammatico, Giallo, Recensione

L’ELEMENTO DEL CRIMINE

Titolo OriginaleForbrydelsens element
NazioneDanimarca
Anno Produzione1984
Durata104'

TRAMA

Il Cairo. L’ispettore Fisher, traumatizzato, si reca dallo psichiatra per raccontare, sotto ipnosi, l’ultimo incarico che gli è stato affidato. Gli racconta del suo viaggio in Germania, dove gli è stato affidato un caso: un serial killer che uccide solo venditrici di biglietti della lotteria. Fisher si reca in visita da Osborne, il suo vecchio professore, autore de L’elemento del crimine, nel quale ha teorizzato che un poliziotto debba identificarsi con il criminale per svelare il mistero della sua condotta…

RECENSIONI

Ambizione e gioco trovano nell'opera di Von Trier scientifica applicazione in territorio comune, sin dal momento in cui al danese viene concessa la possibilità di affrontare la prima, fisiologica in un esordio, obstruction: l'anonimato. Von Trier devasta sino alla tabula rasa qualsiasi vaga possibilità di oblio con L'elemento del crimine, film di chirurgica, lucida e ludica sfacciataggine, calibrato per sfidare occhi negli occhi il concetto di Autorialità: rifuggire la mediocrità, imponendosi come auteur, richiede una glaciale conoscenza del gusto generale e dei suoi limiti, da forzare sino alla presunta inaccettabilità, ricorrendo sistematicamente alla provocazione. Dagli intenti (pubblicati nel primo, superficialmente controverso, quindi efficacemente provocatorio manifesto) all'opera in sé, L'elemento del crimine disarma e annichilisce il pubblico, svende mangime artificiale al pollame critico. Punto e a capo, e così via: 25 anni fa, e siamo solo all'inizio. Post-noir dal prefisso marcatamente sottolineato, L'elemento del crimine immerge Mr. Arkadin in mitteleuropei territori annientati dalla notte e unti incessantemente dalla pioggia («Acqua dappertutto e nemmeno una goccia da bere»), intesse colti e frequentemente gratuiti slanci citazionistici, estrania tramite movimenti di macchina di cristallina precisione, corrompendo la continuità spazio-temporale per compressione o dilatazione. Abusa del genere, declinando la severa risolutezza dei dialoghi noir in scurrilità («Tengo il mondo per le palle, cazzo e peli compresi»), semplicemente demistificando ironicamente ( - «Credi nel bene e nel male?» - «Accidenti, Signor Fisher, ha davvero detto questo?»), enfatizzando al parossismo lo scontro archetipico tra caos e ragione («Tu vuoi capire tutto. Questa è la differenza tra te e me»), riducendo le psicologie alla caricatura senz'anima. Non temano gli ottusi sostenitori della verosimiglianza, ché la peculiarità del quadro descritto trova giustificazione nell'antefatto: L'elemento del crimine è narrazione distorta perché personale, legata al ricordo, confessata sotto ipnosi. «La fantasia è OK, ma il mio lavoro è mantenerla nella giusta direzione» dichiara il wellesiano ipnotista, occhi verso la camera, interpellando direttamente lo spettatore. A partire dalle origini il cinema di Von Trier dichiara la sua obliquità programmatica, titillando svergognatamente la lettura meta, instillando il germe di un'accomodante, quanto accattivante, scoperta ermeneutica, innanzi alla quale onanisticamente non ci ritiriamo, denunciandone però l'indefinitezza: se la figura dell'ipnotista è sovrapponibile di volta in volta al ruolo di produttore e a quello del regista, il personaggio di Fisher apparirà di conseguenza, in relazione al contesto, come regista, attore o, semplicemente, spettatore.
In ogni caso il finale rivela Fisher come tipico idealista vontrieriano: giocato dalle proprie convinzioni, inesorabilmente sconfitto, abbandonato nel territorio sospeso dell'ipnosi, ossessione che dominerà tutta la trilogia europea, luogo che sul finale di Epidemic diverrà organico, che fagociterà tutto Europa, punto di incontro tra realtà (o quantomeno disvelamento della finzione) e finzione stessa, tra ingenua credulità e disilluso distacco. Luogo del contratto di sospensione, territorio dell'ipnosi chiamata cinema. E via teorizzando, elucubrando, sul fumo sadicamente confezionato e regalatoci. Un esordio impressionante per padronanza stilistica e sfacciataggine, per il divertito gelo scientifico che dimostra nel commisurare la provocazione all'ammicco intellettuale, puntualmente (ingenuamente o consapevolmente) colto: L'elemento del crimine è già puro Von Trier, la sublime e ghignante arroganza del fare cinema, umilmente presentata come tale.

A Lars von Trier non interessano tanto la logica dell’ingranaggio, i risvolti psicologici o la coerenza di svelamento della detective story, quanto le sensazioni a latere da poter tradurre figurativamente in un (magistrale) gioco di colori ed inquadrature, raffinati attacchi di montaggio, plongèe claustrofobici, décor depresso e desolato in un futuro prossimo sporco, infangato, cupo, post-apocalittico post-moderno (un “cubismo” che, a tratti, ricorda Eraserhead di David Lynch), dominato dalle piogge come Blade Runner (altro noir poliziesco mascherato, non a caso). I rischi del suo esordio nel lungometraggio (e di tutto il suo cinema) sono l’esercizio di stile che sovrasta la sostanza, l’intellettualismo compiaciuto nelle simbologie ermetiche, la sperimentazione fine a se stessa di tecnicismi antispettacolari che gettano l’ancora al ritmo ma l’imprevedibile autore sceglie un finale che getta nuova luce sui passi precedenti, sfoggiando il tema prediletto che riflette sul Male, sull’elemento del crimine come parte fondante dell’essere umano (o compagno inseparabile dell’ossessione per la conoscenza, tipica anche del detective) che, difatti, abita uno scenario “europeo” squallido (un bianco e nero virato prima in seppia poi nel rosso raggrumato del sangue), popolato da esseri cinici e violenti. L’emblematica “coincidenza” (da poliziotto ad assassino) in cui si trova il protagonista dal volto fassbinderiano è, in questo senso, affascinante e la serie di indizi assurdi che seguono (o precedono) trovano giustificazione nel clima sognante (Fisher ricorda durante una seduta ipnotica, con un Io narrante artefatto nel timbro vocale, come fosse in un sonno profondo), in flashback che diventano incubali (Fisher chiede al “terapeuta”: “Sei lì?”, “Seguimi!”, ma vede solo gli occhi desolati di una scimmia). I rigorosi piani sequenza preferiscono i movimenti della macchina da presa e le superfici riflettenti, certe invenzioni figurative incantano (il passaggio dalla Volkswagen giocattolo a quella vera; la zattera con Fisher sdraiato; la sala delle bottiglie) o atterriscono (l’inquietante immagine del cavallo morto; i cadaveri “sparsi” nel profilmico), il registro principale guarda al macabro e alla claustrofobia kafkiana, nonostante le frequenti virate nel grottesco/straniato o nell’umorismo più gratuito (“Voglio scoparti fino a riportarti all’età della pietra”; la gag del caffè), nell’irriverente (“Scopa dio dentro di me”), nell’indecifrabile (perché i biglietti della lotteria?), nel caos strutturale per rappresentare l’anarchia più stimolante (vedi il finale, del tutto scollegato dalla trama ma allegorico, con il gioco della morte).