A un primo impatto si ha come l’impressione di entrare in una sorta di tempio contemporaneo. Di quelli realizzati da qualche archistar giapponese dove le linee sono iper-essenziali e i dettagli ridotti al minimo. Poi tutto cambia e soprattuto si evolve. Si nota subito che i dettagli ci sono eccome e costellano ogni centimetro quadrato del soffitto grigio antracite scendendo fino a quasi il pavimento. L’effetto iniziale di chi entra nel Padiglione Australiano, meritatissimo Leone d’oro alla Biennale di Venezia curato da Ellie Buttrose, è più o meno questo. Si parla a bassa voce, quasi si fosse spinti da una forma di rispetto. Ma per chi? Il progetto firmato da Archie Moore dal titolo “Kith and Kin” (“amici e parenti”) è tanto commovente quanto ambizioso. L’artista con sangue aborigeno ha creato un gigantesco albero genealogico che ripercorre i nomi degli antenati. Un monumento concettuale che è un continuo work in progress, dove poter aggiungere di volta in volta altri nomi, altre presenze. Un macramè di identità, imponente eppure delicato.

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Moore. Photographer: Andrea Rossetti
Archie Moore / Kith and Kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024

“Mi sono interessato alla genealogia e ho iniziato a cercare negli archivi il lato Kamilaroi e Bigambul di mia madre e il lato britannico e scozzese di mio padre. Mi sono imbattuto in materiale in biblioteche, giornali, mappe catastali, diari pastorali, società storiche, archivi di stato e racconti orali dei miei familiari. I dati disponibili nella mia parte aborigena si perdono molto prima di quelli del mio lato europeo, perché l’archivio orale delle Prime Nazioni è stato spazzato via dalla della colonizzazione”.

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© Archie Moore. Photographer: Andrea Rossetti
Archie Moore / Kith and Kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024

Quello realizzato da Moore è una sorta di risarcimento per tutte le sofferenze affrontate dai nativi nel corso dei secoli. C’è voluto un mese all’artista originario di Toowoomba, per scrivere sulle pareti ogni singolo nominativo, ogni singola connessione. Ha così creato un’intricatissima rete grafica grazie alla quale ha messo bianco su nero (l’effetto è quello del gesso su una lavagna) i collegamenti di oltre 2.400 generazioni nell’arco di 65.000 anni di storia. In mezzo ai nomi fanno capolino di volta in volta tre grandi buchi neri, che rappresentano dei vuoti nel tracciato della linea genealogica. “Ognuno di questi blackout - spiega l’artista - è frutto di una carneficina, di un’epidemia, della distruzione di documenti e perfino di una perdita linguistica. Dei quasi 800 dialetti indigeni che si contavano in Australia quando gli inglesi vi sbarcarono nel 1770, oggi ne sopravvivono circa 150”.

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© Archie Moore. Photographer: Andrea Rossetti
Archie Moore / Kith and Kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024

C’è un pizzico di Opalka e tanto Emilio Isgrò in quest’opera d’arte delicata e intensa, che trova la sua summa al centro della grande sala. Qui è posta una vasca nera, una sorta di memoriale a ricordo delle ingiustizie subite dai nativi. Mentre su di essa è raccolto un grande archivio contenente migliaia di documenti, soprattutto rapporti del medico legale e inchieste coloniali sulla morte di indigeni australiani in custodia di polizia, che Moore ha selezionato per testimoniare il dolore provocato dalle continue torture, dalle incarcerazioni e dalle lotte in nome della giustizia sociale. Sono molte le parti in cui questi documenti appaiono incompleti o cancellati: ogni vuoto racconta le atrocità inflitte alle comunità, i massacri, l’introduzione di malattie e la distruzione della conoscenza. Ferite indelebili che continuano a lasciare il segno ancor oggi. “Nonostante costituiscano solo il 3,8% della popolazione australiana, - spiega Moore - le persone delle Prime Nazioni rappresentano il 33% della popolazione carceraria del paese, rendendoli uno dei gruppi più incarcerati a livello mondiale”.

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© Archie Moore. Photographer: Andrea Rossetti
Archie Moore / Kith and Kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024

Insomma, “Kith and Kin” è un'opera in perfetta coerenza con lo spirito della Biennale 2024 firmata da Adriano Pedrosa, una kermesse creata con l’obiettivo di recuperare il tempo perduto e ridare luce a tutti quei popoli e ai massacri rimasti per secoli in silenzio. “Con questo lavoro - fa sapere l’artista - volevo mostrare che siamo tutti legati sulla Terra da una più grande rete di parentela. Un po' come avviene per i canali di Venezia: l'acqua là fuori va nella laguna, poi nell'oceano Atlantico e nel resto del mondo, compreso il continente australiano, e questo è un altro modo per mostrare i nostri legami".