“Il senso delle donne per la città” di Elena Granata. Per una città della cura e delle relazioni - AgenziaCult
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LETTURE LENTE - rubrica mensile di approfondimento
Il libro di Elena Granata “Il senso delle donne per la città” (Einaudi, 2023) è ben di più che un testo sul rapporto tra donne e città, sulla città per le donne. È un libro che propone una nuova visione delle città, in cui le donne emergono - quasi inconsapevolmente e con un senso di riscatto storico e intellettuale - come le vere protagoniste, riscoperte per la loro capacità di generatrici e attivatrici di questa visione
© Photo: Lina Bo Bardi si occupa del progetto Solar do Unhão in Brasile (Fonte: Instituto Bardi/Casa de Vidro)

“Quando rifiutiamo l’unica storia, quando ci rendiamo conto che non c’è mai un’unica storia per nessun luogo, riconquistiamo una sorta di paradiso” (Chimamanda Ngozi Adichie)

La professoressa di urbanistica del Politecnico di Milano, Elena Granata, è profonda indagatrice e conoscitrice della materia. In questo libro ha raccolto, connesso e intessuto in modo efficace e articolato molti riferimenti della sua ampia conoscenza disciplinare (e del suo vissuto personale – tema che considera importante nel riflettere sulla città) e della sua passione per la materia, per dare forma a una riflessione innovativa nei confronti del pensiero urbano che ha dominato per secoli e millenni. Come indica l’autrice: “cambia il pensiero sulle città e cambiano le lenti con cui lo guardiamo”.

Il libro si articola in 10 capitoli, ricchi di riferimenti bibliografici nella quasi totalità a testi scritti da donne. Le tesi presentate nei capitoli sono riportate nel “decalogo per una città condivisa”, riportato alla fine:

  • La città è fatta di persone e relazioni
  • Imparare dai luoghi e dai paesaggi
  • Lavorare sulla natura ibrida e aperta degli spazi
  • Ripartire dal corpo e dalle sue abitudini
  • Promuovere ciò che ha valore ma non ha prezzo
  • Cogliere la relazione tra i vari sensi
  • Costruire una nuova città, per tutti
  • Cambiare il modo di parlare dei luoghi che abitiamo
  • Cercare lo spirito vitale dei luoghi
  • Pensare in modo ecologico

Il libro propone una rivoluzione copernicana fondata sull’urgenza di una nuova consapevolezza, un rinnovamento dello sguardo, coinvolgimento dei sensi e della nostra responsabilità sociale nei confronti dei luoghi fisici, partendo dalle persone che li abitano e dalle loro relazioni reciproche e con il mondo. Questo approccio si può tradurre in una proposta di percorsi di formazione diversi per chi si occupa a vario titolo di città, nelle pratiche della progettazione, trasformazione e cura dei luoghi in cui abitiamo. È un libro da presentare e far discutere nelle università, ma anche negli ambienti professionali, nei luoghi decisionali e tecnici, ricordandosi però sempre che le città e i luoghi non sono solo un dato professionale, decisionale e tecnico, un “problema da risolvere”, ma il nostro spazio di vita, di felicità o infelicità, in cui siamo immersi con i nostri corpi e spiriti, in perenne evoluzione, necessità di interpretazione e rielaborazione a scala individuale e sociale. Non si tratta di una sfida teorica, ma molto pratica. Con un’espressione inglese, si potrebbe dire che anche per le città “the proof of the pudding is in the eating”: la prova di una buona progettazione urbana non è nel buon progetto sulla carta, ma la città reale che viviamo.

Granata dimostra, con molti riferimenti di piacevole lettura, come questa rivoluzione copernicana del pensiero urbano sia già da molto tempo insita negli approcci e nelle pratiche di molte donne che si occupano, in modi vari, di città. È quello che chiama nel titolo il “senso delle donne per la città”. Questa sensibilità – come da sottotitolo l’insieme di capacità di “curiosità, ingegno e apertura” – è stata pochissimo valorizzata dalla “storia unica” al maschile della progettazione urbana, del potere politico e della cultura mainstream. In un certo senso, la rivoluzione, dolce e necessaria nel disegno e soprattutto nella “cura” (parola che rimanda al femminile) delle nostre città e dei nostri spazi quotidiani – spazi pubblici, case, luoghi di lavoro, scuole, luoghi di cura, parchi, ecc. – è stata già elaborata e promossa, in modo sotterraneo e da lungo tempo, da molte donne che si sono occupate del tema.

La tesi di fondo del libro è che abbiamo un enorme bisogno di luoghi in cui vivere diversi da quelli realizzati finora, in gran parte ostili ed escludenti, non a misura delle vite delle persone, di tutte le persone nelle loro diversità, di corpo, mente, storie, pensieri e aspirazioni. I luoghi – in modo simile al linguaggio, altro tema portante del femminismo – non sono marginali rispetto alle nostre esistenze. Sono straordinariamente importanti: riflettono il modello di società e di potere implicito in cui siamo imbevuti/e ogni giorno e a loro volta conformano i nostri pensieri, il modo di essere, vivere, relazionarci, le opportunità che il mondo ci offre, i sentimenti, il nostro grado di benessere e la qualità della vita.

L’urbanistica e l’architettura “al maschile” si sono concentrate sul gesto progettuale e costruttivo definitivo e eccezionale dell’architetto e urbanista, maschio, che crea grandi monumenti, impianti urbanistici altamente simbolici e funzionalisti, riduzionisti rispetto alla complessità, spesso radendo al suolo il passato per ridare ogni volta ordine a un presente e futuro assoluto e luminoso. Salvo poi che questi protagonisti vengono di volta in volta rimessi in discussione, nella feroce lotta di potere e di ego da altri professionisti, sempre maschi e appartenenti alla categoria culturalmente e economicamente dominante del momento.

Il risultato è stato la creazione di città che rappresentano la visione di un mondo maschilista, patriarcale e in generale escludente. In questa visione ha prevalso la decontestualizzazione e l’isolamento dell’opera d’arte, dell’edificio, l’eccellenza del gesto dell’architetto o urbanista, quasi prometeico, che disegna l’edificio o il piano urbanistico, il cui valore culturale dipende dall’accreditamento presso la casta dei professionisti e del potere politico, e non dall’apprezzamento e rispondenza i bisogni delle persone che lo abitano. In questo paradigma, alcuni edifici e parti delle città sono stati considerati degni di maggiore sforzo, ma il resto del territorio è poi lasciato a piani totalizzanti “per le masse” o a un mercato predatorio e sconclusionato, al predominio dell’auto nello spazio pubblico, a spazi ostili alla vita umana e sociale, all’annullamento di ogni elemento naturale: quella che Granata chiama “la città della negazione”.

Le donne sono state quasi sempre emarginate dalla storia dominante dell’architettura e della pianificazione. Sono state relegate al ruolo di assistenti, collaboratrici, decoratrici (ad es. nella Bauhaus), dedicate alle “piccole cose”, progettiste dello spazio domestico, educatrici, giardiniere, rispetto ai colleghi maschi che si occupavano del “gioco serio”, dei “grandi progetti”, che costruivano, parlavano in pubblico, guadagnavano, si accapigliavano e comandavano. Oggi riscopriamo che molti dei pensieri di queste donne erano invece all’avanguardia. Ci rendiamo conto che il mondo ha proprio bisogno dello sguardo che queste visionarie hanno coltivato. Granata riporta numerose donne progettiste, artiste, economiste, sociologhe, ambientaliste, attiviste e così via straordinarie, raccontando il loro pensiero. Tra le protagoniste di questa storia diversa, alcune che lei stessa evidenzia sono: Sarah Robinson, Jane Jacobs, Izaskun Chinchilla, Joëlle Zask, Caroline Criado Perez, Florinda Saieva, Leslie Kern, Lucia Tozzi, Sharon Egretta Sutton, Sumayya Vally, Irene Ranaldi, Charlotte Perriand, Selena Savić, Lina Bo Bardi, Majora Carter, Toni Griffin, Laura Imai Messina, Ginevra Bersani e Lucile Peytavin.

Quante di queste sono studiate all’università, da chi poi si occuperà delle nostre città? Quante sono oggetto di convegni, premi? Senza menzionare, nel passato, l’assenza delle donne nella titolazione di strade, monumenti, ecc., Le Corbusier ha fatto più disastri con il suo “Modulor” (ovviamente un corpo maschile) e le “macchina da abitare” e la sola proposta del Plan Voisin degli anni ’20 del secolo scorso (che avrebbe raso al suolo il centro di Parigi, ovviamente solo una provocazione, o più o meno) rispetto alla qualità della vita delle persone. Questi “maestri” hanno creato schiere di epigoni che si sono sentiti liberi di realizzare edifici e città invivibili (in cui loro stessi probabilmente non sceglierebbero di vivere). Ma è ancora considerato un grande architetto da venerare.

Jane Jacobs è invece ancora considerata un’urbanista minore, perché outsider rispetto all’accademia e alla professione. Jacobs invece ha introdotto temi straordinariamente nuovi per i suoi anni, oggi considerati fondamentali: il punto di vista delle persone che vivono la città, l’importanza del “capitale sociale” e della sua attivazione, gli “usi misti dello spazio”, gli “occhi sulla strada” (oggi si direbbe “safety by community”, il controllo sociale “umano” ad esempio nei confronti dei bambini e non attraverso meccanismi di “safety by design” come le telecamere), l’importanza delle piccole strategie di cambiamento e adattamento rispetto ai grandi progetti speculativi. Ha innovato l’attivismo urbano, schierandosi personalmente, e il linguaggio con cui oggi si parla di città.

Un altro, tra i molti esempi riportati, è la storia di Denise Scott Brown. che è stata trascurata dalla storia ufficiale dell’architettura rispetto al marito Robert Venturi Tutto il lavoro confluito nel celebre testo “Imparare da Las Vegas” era stato fatto insieme, anzi Scott Brown aveva avuto un ruolo fondamentale nell’indagare i temi della città contemporanea con i suoi studenti. Ma il premio Pritzker venne assegnato solo a Venturi, non unica tra molte discriminazioni a cui essa venne sottoposta. Scott Brown si ribellò per prima a un mondo professionale e accademico maschilista che le attribuiva solo il ruolo di “moglie di”, aprendo la strada al lungo e faticoso riconoscimento dei contributi delle donne nell’architettura.

In conclusione, però è importante fare attenzione al fatto che, se l’urbanistica e l’architettura procedono ora verso approcci che a lungo sono stati considerati “femminili”, in un attimo questi approcci diventeranno nuovi ambiti di potere, e quindi terreno di competizione per gli uomini. È importante allora che le donne conquistino e mantengano ruoli di leadership, in questa piccola o grande rivoluzione a cui hanno così tanto contribuito, se e come si realizzerà, auspicabilmente con modelli manageriali più attenti e inclusivi. Come ci ricorda Granata:

“Ora è evidente che l’architettura debba fare propri quei valori e quei principî che un tempo erano ascrivibili all’universo femminile – come la cura della natura, la poesia, la domesticità, il benessere delle persone, la morbidezza degli interni (come già sta avvenendo nei luoghi di lavoro dei grandi brand). Spesso facendo a meno del contributo delle donne”.

Elena Granata, “Il senso delle donne per la città. Curiosità, ingegno, apertura”, Einaudi, 2023

ABSTRACT

Elena Granata’s book “Women’s Sense for the City” (Einaudi, 2023) is more than just a text on the relationship between women and the city, on the city for women. It is a book that proposes a new vision of cities, in which women emerge-almost unconsciously and with a sense of historical and intellectual redemption-as the true protagonists, rediscovered for their capacity as generators and activators of this vision.

 

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