Salman Rushdie: "Sono tornato, ora giudicatemi per la mia arte" - la Repubblica

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Salman Rushdie: "Sono tornato, ora giudicatemi per la mia arte"

Salman Rushdie
Salman Rushdie 
Diritti delle donne, intelligenza artificiale, analisi del potere. Mentre esce il nuovo romanzo, ecco la prima intervista italiana all’autore dopo l’attentato
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I diritti della donna nell'India dell'antichità, il potere che si nasconde dietro la fede, la memoria come pozzo di ricordi e la pubblicazione di Victory City per guardare oltre la grave aggressione subita nell'agosto dello scorso anno. Lo scrittore Salman Rushdie si racconta a Robinson nella prima intervista a un giornale italiano dopo l'attentato che ha messo in serio pericolo la sua vita. L'occasione è l'uscita di La città della vittoria (Mondadori), un romanzo dove il realismo magico consente di immergersi nel regno Mogul del Sud dell'India, un luogo immanente che Rushdie sente di avere dentro di sé e nel quale accompagna il lettore per scoprire personaggi, luoghi e valori che hanno richiami evidenti anche nel mondo di oggi. Il tutto fra i ricordi di Italo Calvino e le letture di García Márquez, l'amore per Firenze e un approccio all'intelligenza artificiale capace di individuarne i punti deboli. La conversazione che segue è avvenuta durante una video chiamata nella quale Salman Rushdie ha parlato confermando la sua grande passione per la vita, mischiando humour, cultura e memoria - come alcuni suoi personaggi - e mostrando di convivere con i danni subiti dal suo corpo a causa del tentato omicidio avvenuto nella Chautauqua Institution, nello Stato di New York, che lo ha obbligato a un lungo periodo di riabilitazione. Dal quale è uscito con l'energia e la fantasia di sempre, che ne fanno uno degli scrittori più popolari al mondo. Capace di restare se stesso, protagonista di arte e conoscenza, senza cedere nulla all'ombra feroce della fatwa che l'ayatollah iraniano Khomeini gli scagliò contro nel 1989 e che ancora continua a inseguirlo.


Cosa le ha ispirato l'ambientazione della "Città della vittoria", il suo nuovo romanzo?
"Prima di essere uno scrittore di romanzi mi sono formato come storico e ho sempre avuto un grande interesse per tutti i temi collegati alla storia e, naturalmente, la storia dell'India mi è particolarmente cara. Ricordo che quando scrissi L'incantatrice di Firenze, tanti anni fa, la parte del libro che non parla dell'Italia parla dell'India durante l'impero Mogul nell'India settentrionale. Ricordo che mentre svolgevo le ricerche mi imbattei in storie che riguardavano l'India del Sud e trovai delle vicende interessantissime, almeno tanto quanto quelle del Nord, che la gente conosce molto meglio. L'impero Mogul nel Sud, il Taj Mahal, infatti è poco conosciuto. Pensai: "ecco una storia vera che prima o poi dovrò raccontare". Presi un appunto mentale pensando che prima o poi avrei dovuto trasformarlo in un racconto. Ci ho messo quindici anni!".

Donne e bambini davanti al mausoleo di Agra, nello stato dell'Uttar Pradesh
Donne e bambini davanti al mausoleo di Agra, nello stato dell'Uttar Pradesh 

Perché trova così importante scrivere sul passato?
"Credo che scrivere sul passato sia anche un modo per scrivere sul presente. Si tratta di trovare un altro modo per raccontare ciò che sta succedendo ora e quindi penso che alcuni temi del libro sono contemporanei. In luoghi come l'India, ma non solo, penso ad esempio anche altri luoghi dell'Asia, l'Afghanistan, l'Iran. Penso soprattutto a ciò che sta succedendo alle donne in questi Paesi. È infatti piuttosto straordinario, ma è vero, che a quel tempo, nel XIV e XV secolo, in India molto spesso avevano più diritti di quanti ne abbiano adesso. Le donne ad esempio potevano essere generali nell'esercito, avvocati, mercanti, dottoresse, e quindi il mondo era molto aperto verso le donne a quel tempo. Trovo che sia molto interessante che 700 anni fa...".


Sta dicendo che nell'India meridionale di allora i diritti e l'educazione erano più avanzati di quanto non siano oggi in molti Paesi...
"Esatto. Questo è il punto da cui ho iniziato a pensare a questo libro. Volevo scrivere una storia con una donna al centro. Anche perché le grandi mitologie indiane, come il Ramayana, il Mahabharata e così via, sono storie molto maschili. C'è ad esempio un poeta che detta a uno scrivano le avventure e l'eroismo dei maschi e le donne si trovano in un ruolo secondario, di supporto. Ho pensato invece di mettere una donna a raccontare la storia, per offrire una prospettiva diversa".


Come ha creato il personaggio principale, Pampa Kampana?
"Mi è venuto in mente spontaneamente. Ci sono dei momenti nella vita di uno scrittore in cui ci si sente molto fortunati, in cui qualcosa arriva come un dono. Non so da dove sia venuta, è semplicemente apparsa nella mia mente".


Quindi possiamo dire che Pampa Kampana è un simbolo dell'emancipazione delle donne?
"Sì, certamente. In tutto il romanzo ciò che la spinge è vivere in un mondo in cui le donne hanno gli stessi diritti degli uomini e a un certo punto della narrazione le sue idee stanno per avere successo, in altri momenti falliscono e questa è la battaglia della sua vita, dare alle donne un posto che sia uguale a quello degli uomini".

Le rovine di Vijayanagara, nello stato indiano del Karnataka
Le rovine di Vijayanagara, nello stato indiano del Karnataka 

Qual è il ruolo della memoria nel romanzo?
"Innanzitutto ci sono i miei ricordi e l'India è profondamente radicata nei miei ricordi, è come un pozzo al quale posso attingere e c'è sempre acqua nel pozzo per me. Sono diversi anni che non scrivo sull'India. I miei ultimi due romanzi sono stati più o meno romanzi americani, perché sono venuto negli Stati Uniti e volevo scrivere di questo. Ma dopo aver scritto Quichotte non voglio più scrivere sull'America. Forse voglio tornare a casa e il romanzo per me è stato come tornare a casa, ritornare nel luogo, non solo il luogo dove sono nato e cresciuto, ma anche al tipo di storie, di letteratura, che sono state la mia prima esperienza di storie e letteratura e costruire qualcosa partendo da questo".


Un libro che nasce dai suoi ricordi.
"Sì, sono i miei ricordi".


Perché ha scelto il titolo "La città della vittoria"?
"Il vero regno che ha ispirato il regno immaginario del mio libro si chiamava Vijayanagara, che significa "città della vittoria". Vijaya significa "vittoria" e nagara "città". Questa è una delle ragioni. L'altra è quella di cui Pampa parla alla fine del libro, e cioè il libro è una città di parole, il libro stesso, il libro immaginario che lei sta scrivendo, e anche il libro che io sto scrivendo sul libro immaginario che sta scrivendo lei. La città sopravvive sotto forma di linguaggio, la vera città è scomparsa da tempo e ciò che rimane della città, ciò che continua a vivere della città, è il linguaggio e come viene rappresentato, le storie che ne parlano, questo è ciò che sopravvive, e anche questo è una città e una sorta di vittoria, il fatto che la città sopravviva nei millenni".


In che modo il clima politico e sociale della città riflette realtà sociali più ampie del nostro tempo?
"È molto interessante che il governo indiano attuale usi la storia di Vijayanagara per sostenere la propria ideologia nazionalista hindu. La sfruttano per affermare che il grande impero hindu è stato distrutto dall'invasione musulmana e quindi i musulmani sono cattivi. Usano la storia di Vijayanagara al servizio di questa ideologia. In realtà quando leggiamo la storia di questo periodo non è affatto così, perché c'è molta più compenetrazione tra le religioni. Durante l'impero di Vijayanagara c'erano generali musulmani nell'esercito, e così via, quindi l'idea che si tratti di una semplice guerra tra l'induismo e l'Islam non è quello che è successo veramente. Quello che è successo era assai più interessante e più complicato, più mescolato. Infatti, verso la fine della storia che racconto, i sultanati musulmani che combattevano con Vijayanagara avevano più paura dell'impero Mogul a Nord, anche se era musulmano, avevano più paura dei Mogul che non degli hindu a Sud. Quindi l'idea che è stata diffusa, secondo la quale fu solo un conflitto religioso, non riflette la realtà. Quello che avvenne e che succede spesso nella storia, è la lotta per il potere, per chi riesce a governare, la questione centrale non è la fede ma "noi vogliamo il tuo impero e quindi ti facciamo la guerra". Si tratta di potere, non di religione. Raccontare questa storia in questo momento serve dunque per suggerire che spesso quando ci troviamo davanti a conflitti religiosi in realtà non sono altro che scontri per il potere".


Quanto realismo magico c'è nel libro?
"Ho sempre pensato che questa espressione dovrebbe essere lasciata ai sudamericani. Credo che appartenga a García Márquez e ai suoi contemporanei. Ma è anche vero che provengo da una tradizione letteraria in cui il fantastico è sempre stato presente, non è mai stato assente. Dalla più antica letteratura indiana fino ai giorni nostri, il fantastico è presente, e qualcuno nel romanzo dice che "il miracoloso e il quotidiano sono due facce della stessa moneta". Questa è la letteratura da cui provengo. E, naturalmente, è collegata al surrealismo e al realismo magico e via dicendo, ma ha le sue radici particolari. Avrà notato che, nel romanzo, almeno in un punto c'è un chiarissimo riferimento a Italo Calvino, quando due personaggi immaginano che esistano delle città con i loro nomi e inventano queste città immaginarie l'uno per l'altro. Mi sono chiaramente ispirato a Le città invisibili di Calvino. Sono molto fortunato perché lo conobbi quando fu pubblicato I figli della mezzanotte, nei primi anni Ottanta. Venne a Londra per un evento letterario e io avevo scritto una recensione del suo libro Se una notte d'inverno un viaggiatore, così lui chiese che fossi io a presentarlo nel teatro dove doveva intervenire e io ero molto emozionato. Io ero il giovane e lui il vecchio maestro. Scrissi il discorso che volevo fare e quando arrivai al teatro ed eravamo dietro le quinte, nella stanza verde, mi chiese: "Hai scritto qualcosa?". "Certo?", gli dissi. "Fammelo vedere". Pensai: "Dio mio, cosa faccio se non gli piace?". Fortunatamente, all'inizio di ciò che avevo scritto, lo avevo paragonato ad Apuleio, l'autore de L'asino d'oro. Lo vide e disse "Ah, Apuleio! Molto bene!". E poi, dopo di ciò, non è che siamo diventati amici, ma ci conoscevamo. Infatti, quando il mio libro venne pubblicato in italiano, lui scrisse un lungo pezzo sul libro su Repubblica, che sotto molti versi fu il modo in cui tanti lettori italiani vennero a conoscenza del mio lavoro. Quindi, fu molto generoso con me sotto questo aspetto. Naturalmente, amo il suo lavoro, l'ho sempre apprezzato e la sua influenza è presente, come tante altre cose".


Che cosa spera che i lettori trovino nel libro?
"Ho sempre ritenuto che il fine della letteratura sia creare piacere. Prima di qualunque altra cosa, vuoi che il lettore provi piacere. Vuoi creare un mondo in cui gli piaccia stare. Penso che una cosa stupenda sia che viviamo in un mondo di grandi traduttori e possiamo leggere il lavoro gli uni degli altri oltre la barriera della lingua. Non avrei mai letto Calvino in inglese. Le traduzioni sono di alta qualità e io sono anche fortunato con i miei traduttori italiani. Questo permette di sperimentare mondi che non sono il nostro, ma ai quali sentiamo di poter partecipare. Spero quindi che la gente si immerga in questo mondo che viene da molto lontano, sia nello spazio che nel tempo e che gli piaccia essere lì. Speriamo che li porti a farsi delle domande a cui sono interessati a pensare, sulla natura umana, sul primo re del mio Vijayanagar immaginario. Il primo re, Hukka, dice a suo fratello: "Riguardo alla questione delle origini, dobbiamo lasciarla agli dei. Ma la questione non è che abbiamo degli dei, ma che adesso che siamo qui, come dobbiamo vivere?". Nel libro questo viene chiesto ripetutamente, credo che sia una domanda che ci facciamo tutti, quale sia un buon modo per vivere, quali sono le azioni buone e quali quelle cattive, cosa è giusto e cosa sbagliato, come possiamo creare una vita etica. Adesso che siamo qui, perché non abbiamo un altro posto in cui vivere, è qui che siamo. Credo che questa domanda possa essere posta da persone diverse, in Paesi e momenti diversi, ma è una domanda che ci poniamo tutti".


Questa è la sua prima opera dopo aver subito l'aggressione a colpi di coltello da parte dell'americano-libanese Hadi Matar nell'agosto del 2022 durante un evento pubblico a Chautauqua. Matar è sospettato di aver agito a seguito della fatwa emessa contro di lei nel 1989 dall'ayatollah iraniano Khomeini per la pubblicazione del libro "I versi satanici". Scrivere può essere la risposta migliore al fanatismo?
"Avevo finito il libro prima di essere attaccato, appena prima. Circa dieci giorni prima dell'attacco avevo finito le ultime revisioni e il libro era pronto per la stampa. È stato davvero così vicino che non ho dovuto cambiare niente. Comunque sì, sono molto contento di essermi trovato nella condizione di poter pubblicare. E non avevo bisogno di cominciare a scrivere in quel momento, perché sarebbe stato impossibile. Nemmeno adesso, sei mesi dopo, sto scrivendo molto. Guarire richiede molto tempo. Le ferite erano gravi e la cura è un processo lungo. Se non avessi avuto un nuovo libro, sarebbero potuti passare anni prima di scriverne uno. Fortunatamente, come un dono, questo libro era pronto e sono molto emozionato di poterlo offrire, perché è anche un modo per cambiare discorso, un modo per dire: "Non sono solo una persona che qualcuno ha accoltellato, ma sono anche l'autore di questo libro". Voglio essere giudicato per la mia arte, non per gli incidenti che succedono nella mia vita. Qualche giorno fa ho detto ad alcuni amici che ho sempre pensato che il mio lavoro sia più interessante della mia vita. Purtroppo, non sempre il mondo è d'accordo con me".


Chi ama la vita prevale sempre su chi crede nella morte...
"Sì, e penso che un giorno scriverò qualcosa su quello che mi è successo, ma non so ancora che cosa sarà".


Che cosa l'ha portata a diventare scrittore?
"Quando ero bambino i miei genitori mi dissero - se ne sono andati entrambi ormai, e quindi non posso chiedergli conferma - che era quello che dicevo da piccolo. Quando si chiede ai bambini che cosa vuoi fare da grande, io non dicevo che volevo essere un astronauta o un eroe sportivo, o altro, dicevo che volevo fare lo scrittore. Credo che la ragione sia che da bambino adoravo leggere.

Ero un grande lettore da piccolo. Quando un bambino dice di voler fare lo scrittore vuole dire è che ama i libri. Quando hai 8, 9, 10 anni, come puoi sapere che cosa significhi fare lo scrittore? Quando lo dici non significa niente, perché non sai che cosa stai dicendo. Ma è anche vero che quando andai all'università dicevo ancora che volevo provare a fare lo scrittore. L'unica altra cosa che abbia mai pensato di fare è l'attore. All'università facevo molto teatro e partecipavo ai gruppi di studio teatrale e cose di questo genere e avevo questa strana fantasia che forse avrei potuto fare l'attore. Fortunatamente, ebbi l'intelligenza di capire che non ero abbastanza bravo. Pensai: "okay, magari non farlo e concentrati sull'altra cosa che hai sempre voluto fare", cioè scrivere".


Ci può raccontare un momento speciale che ha segnato la sua vita di scrittore?
"Ci sono degli scrittori che hanno successo rapidamente. Per me non è stato così. Ho lottato per molto tempo. Ricordo che quando cominciai a scrivere il libro che divenne I figli della mezzanotte, a metà degli anni Settanta, avevo 27-28 anni, e quando cominciai a scrivere cercai di scriverlo con la narrativa in terza persona, ma non mi piaceva. Pensai che non risultava vivo e a un certo punto mi chiesi che cosa sarebbe successo se avessi lasciato che fosse il personaggio principale a raccontare la storia, se avessi lasciato che fosse la sua storia, raccontata con la sua voce. Poi un giorno, ero seduto nella mia stanza a Londra, e glielo lasciai fare. Ho sempre pensato che quello fosse il momento in cui diventai uno scrittore perché quello che ne risultò fu un paragrafo molto simile a quello che è il paragrafo iniziale de I figli della mezzanotte. Non so da dove sia venuto, non è venuto da me. Per prima cosa pensai che fosse il miglior paragrafo che avessi mai scritto in vita mia, questo era chiaro. Pensai che dovevo solo lasciarlo andare, libero di correre, di raccontare la storia e non perderlo, tenerlo stretto e lasciarlo correre. Lo feci e fu così che diventai uno scrittore. Perché la sua voce mi diede la mia voce".


I suoi libri sono stati tradotti in oltre 40 lingue, e sono ampiamente letti in tutto il mondo. Cosa prova ad avere un pubblico così vasto e differente?
"È molto emozionante. Ci sono Paesi di cui non conosco nulla. Ad esempio, mi dicono che i miei libri sono piuttosto famosi in Corea del Sud. Non sono mai stato a Seul, conosco davvero poco della Corea del Sud, a parte quello che leggo sui giornali. Le mie storie non trattano per niente quella zona del mondo, ma per qualche ragione alcune persone di lì sono interessate. Come ho detto prima, penso che il miracolo della nostra epoca moderna è che il lavoro dei traduttori lo rende possibile. Credo che i traduttori siano le persone meno apprezzate al mondo in letteratura eppure senza di loro questo pubblico di lettori internazionali non sarebbe possibile. Io sono un grande amante della letteratura russa, adoro Bulgakov, Turgenev, Tolstoj, Bulgakov, Dostoevskij, Gogol, e così via, ma li ho solo letti nella traduzione inglese. Non conosco lo spagnolo ma leggo gli scrittori sudamericani in inglese. C'è una bella storia raccontata dal traduttore di García Márquez in inglese. Si chiama Gregory Romasa. Una volta partecipò ad una conferenza stampa e si trovò accanto a Márquez e Márquez gli disse che riteneva che la traduzione inglese fosse migliore dell'originale in spagnolo, il che probabilmente non era vero. Probabilmente Márquez era solo gentile, ma si capisce che il traduttore fu molto emozionato al sentirselo dire. Ed è in effetti un'ottima traduzione. Quando leggi la traduzione in inglese di quel grande libro hai la sensazione di leggere quel grande libro. Noi viviamo in quest'epoca in cui i traduttori ci danno la possibilità di leggere oltre la barriera della lingua ed è emozionante".


C'è qualcosa in particolare che vuole dire ai lettori italiani?
"Prima della pandemia era meraviglioso andare in altri Paesi e trovare in quei luoghi dei lettori a cui importa così tanto del tuo lavoro. Adoravo andare in Italia, mi è sempre piaciuto andare in Italia. Ricordo che quando fu pubblicato L'incantatrice di Firenze l'editore organizzò una presentazione del libro a Firenze e lo spazio in cui fu organizzato l'evento era un edificio antico dove immaginavo andasse Dante e pensai: "È un po' stressante essere a casa di Dante...". Mi chiesi: "qui c'è uno straniero che viene nella vostra città pensando di conoscere la vostra storia, vi piacerà o non vi piacerà?". Fui molto sollevato quando vidi che gli piaceva. Uno dei lettori mi disse, e lo trovai interessante, che quando studiano la storia della città quell'epoca viene rappresentata come un'epoca d'oro, di geni filosofici, artistici, e così via, e così tante famiglie fiorentine diedero speranza al Paese. Fu un momento bellissimo. Mi dissero che quando leggevano il mio libro sentivano la vita quotidiana, sentivano quello che la gente compra per strada, cosa mangia e come litiga, dove fa sesso e tutte quelle cose che non ti dicono quando ti spiegano la gloriosa storia di Firenze. Gli piaceva perché parlavo della vita quotidiana. E così me la sono cavata".


Si parla tanto di intelligenza artificiale. Lei pensa che sarà un'opportunità o un rischio per gli scrittori?
"Credo che se l'intelligenza artificiale scoprirà mai l'immaginazione e il senso dell'umorismo allora saremo tutti rovinati. Penso che fino ad ora non ha dato nessun segno di avere immaginazione, né senso dell'umorismo. Dunque, per ora siamo salvi".


(Traduzione di Barbara Bacci)

Il libro

La città della vittoria, edito in Italia da Mondadori (traduzione di Stefano Mogni e Sara Puggioni, pagg. 360, euro 22), è l’ultimo romanzo di Salman Rushdie, scritto prima dell’attentato: accolto da ottime recensioni, ci immerge in un’atmosfera di realismo magico