Beatrice, 18 anni, scampata al bus in fiamme dopo il sequestro a San Donato: «Io so cosa si prova prima di morire, gli ultimi 5 secondi» | Corriere.it

Beatrice, 18 anni, scampata al bus in fiamme dopo il sequestro a San Donato: «Io so cosa si prova prima di morire, gli ultimi 5 secondi»

diGiampiero Rossi

Il 20 marzo 2019 era sul pullman dirottato dall'autista Ousseynou Sy. «Ero pronta alla morte, ora do un altro peso alla vita». Da allora soffre di claustrofobia e attacchi di panico 

San Donato

Il bus in fiamme a San Donato e la corsa dei ragazzini in fuga

«Adesso tutto ha un altro peso, provo un amore per la vita diverso da quello di prima, non l’euforia della settimana successiva ma la certezza che sto lavorando tanto su me stessa e che adesso sono seduta qui e posso gustarmi il rosso delle fragole in quella ciotola e il suono della voce di mia mamma, che mi piace tanto, e tutto quanto il resto che mi circonda. Insomma, non è la stessa vita di prima». Le parole di saggezza del vivere arrivano da una vocetta che sa di gioventù assoluta, da un viso che distribuisce sorrisi delicati, difficili da descrivere con i vocaboli di un dizionario già scritto, accompagnate da un lieve ma costante rossore delle gote e da una mimica lieve e garbata. Beatrice è davvero una ragazzina, compie 18 anni oggi, il 18 aprile 2024, e ogni suo pensiero, ogni sua frase ruota già attorno a un «prima», perché la sua primavera definitiva è iniziata soltanto «dopo» il 20 marzo 2019. Perché quel giorno Beatrice, insieme ai compagni della sua classe e altri della scuola media «Vailati» di Crema, era sul pullman che abitualmente serviva per i trasferimenti scuola-palestra e che lungo la via del ritorno il conducente, Ousseynou Sy, dirottò, tenendo sotto sequestro 51 ragazzini, due insegnanti e una bidella. Un gesto motivato poi come protesta per i bambini dei migranti morti durante le traversate del Mediterraneo. La vicenda si concluse in meno di un’ora con un blitz praticamente improvvisato dai carabinieri sulla tangenziale Ovest di Milano, a San Donato, con bambini e adulti usciti dai finestrini e fuggiti di corsa mentre l’autobus andava in fiamme.

Lui è stato condannato in primo grado a 24 anni di carcere, ridotti a 19 in appello e confermati definitivamente dalla Cassazione, ma è ancora aperto il procedimento civile. Intanto quei bambini sono cresciuti, uno dopo l’altro stanno diventando maggiorenni. Ma cosa rimane di quel giorno terribile e assurdo? Ci sono ancora cicatrici o paure? Beatrice e sua mamma Anna Chiara hanno accettato di raccontare tutto questo, dopo oltre cinque anni in cui hanno condiviso ed elaborato, i postumi di un trauma che riassumono con parole diverse: «Rapita», è la parola-incubo della madre; «Morte-vita» la sintesi catartica e propulsiva della ragazza. Sedute di fronte a un tavolino con una brocca d’acqua e una ciotola di fragole, si scambiano sguardi, sorrisi, si suggeriscono ricordi e parole, integrano i rispettivi racconti. Sì, qualche lacrima è inevitabile, ma la stanza profuma di energia vitale, non di paura e rabbia.

Beatrice, spiace doverti ricondurre a quel giorno, ma dobbiamo partire da lì. Cosa ricordi di quei cinquanta minuti?
«Ero seduta piuttosto indietro, con due compagne della mia classe, la seconda A, eravamo in tre su due sedili. Tutto normale fino a quando il conducente ha mostrato il coltello e ha iniziato a gridarci di restare seduti. Poi è passato a legare alcuni di noi con i lacci da elettricista e abbiamo avuto subito tanta paura, e ancora di più quando ha costretto la bidella a cospargere tutto e tutti di benzina e lui minacciava di dare fuoco a tutto con l’accendino. Non capivo, non riuscivo a credere, per un attimo ho pensato che fosse una specie di esperimento sociale, una cosa per vedere come avremmo reagito noi bambini».

C’è un fotogramma, un istante che ricordi in modo particolare?
«Sì, c’è stato un momento in cui ho accettato nitidamente il fatto che sarei morta di lì a poco, perché stavo vivendo quel fatto come una calamità naturale. E ho continuato a pensarlo anche quando ho visto i lampeggianti dei carabinieri: il tentativo di liberarci avrebbe soltanto allungato di qualche minuto la giornata in cui sarei morta. Ero come paralizzata, ricordo che per qualche secondo mi sono concentrata sul blu metallizzato della mia vecchia borsa da palestra, forse perché sapeva di casa, ma poi ho avuto anche l’immagine chiara di mia madre: la vedevo nel corridoio del tribunale, io mi avvicinavo a lei per spiegarle serenamente che ero morta, che avrebbe sofferto un po’, ma che in fondo questa è la vita e non ci possiamo fare niente».

E quando sei tornata alla realtà che, per fortuna, stavi continuando a vivere?
«Sull’altro pullman, quando ci hanno accompagnati all’ospedale di Melegnano. Lì sono scoppiata a piangere, insieme alla mia compagna Marta. Prima non mi ero resa conto di niente, neanche mentre scappavo fuori da un finestrino».

Interviene la mamma: «Ero in auto quando ho ricevuto la prima telefonata da numero sconosciuto, subito interrotta. Poi ancora, rumore, urla, “salvateci”. Non capivo. Poi mi chiama un’altra mamma, mi dà notizie confuse e frammentarie e dice quella parola: “rapiti”. Ma io penso: non siamo in Siria, qui non succedono cose simili… Chiamo mio marito e mentre gli riferisco lui apre il sito del Corriere della Sera e mi dice che in effetti c’è la foto di un pullman in fiamme, ma che è a San Donato Milanese. Appunto, penso ancora, Beatrice non è lì, è qui a Crema. Poi mi chiamano dalla scuola e mi dicono di andare subito lì, dove trovo l’allora sindaco, Stefania Bonaldi, che fornisce informazioni sui bambini. Beatrice è all’ospedale di Melegnano: come un automa riesco a guidare e intanto mi chiama lei in lacrime. Richiamo mio marito che cerca di rassicurarmi: “L’hai sentita, è viva, magari ha qualcosa di rotto, magari e ferita, ma è viva”. Abbandono la macchina non so dove davanti all’ospedale e quando entro nella sala in cui li hanno radunati, mi trovo davanti una serie di “musetti” che sembravano dipinti da Raffaello e finalmente vedo lei che mi corre incontro e mi abbraccia, ancora intrisa dell’odore della benzina subito mi dice quella frase: "Mamma, io ero pronta a morire, mi spiaceva per voi, ma ormai ero preparata"».

Beatrice, come sono stati i giorni seguenti, con addosso tutte le attenzioni, familiari, mediatiche, politiche, la retorica sui piccoli eroi?
«Nella prima settimana sono stata persino un po’ euforica. Ho voluto andare a scuola già il giorno dopo, perché volevo stare con i miei compagni, il circo mediatico era inevitabile, ma non l’ho vissuto in modo ossessivo. Anche la questione degli eroi, sì, è stata un po’ esasperata, però in fondo i fatti erano più o meno quelli, non mi sentivo turbata dalle cronache, anche se non le cercavo».

Di nuovo la mamma: «In realtà, nei giorni e nei mesi successivi, dai racconti che ci si scambiava tra genitori, sono emersi tantissimi gesti di solidarietà e mutuo soccorso tra ragazzini: chi aveva l’acqua l’ha data a chi non ne aveva, per rovesciarla sulle magliette e coprire naso e bocca per resistere all’odore della benzina, a un bambino che non stava bene hanno riservato una bottiglia intera; quando il sequestratore ha chiesto di portare vicino a lui i più piccolini, alcuni si sono consultati e poi uno ha deciso di offrirsi volontario al posto di un altro perché, diceva, “lui ha già sofferto per la morte della madre”. Bambini di 12 anni che agiscono così? A me sembra la massima manifestazione di un’anima che si rivolge a un’altra. Forse anche per questo l’indomani Beatrice ha insistito per andare a scuola, diceva che voleva stare con i suoi amici. E poi sento ancora oggi un legame per le tante persone che, lì sulla tangenziale, bloccate con le loro auto per l’operazione dei carabinieri, hanno atteso e accolto questi bambini in fuga, li hanno abbracciati, rassicurati, dissetati, coperti, coccolati, non so da quanti telefoni siano arrivate chiamate, è stato come un moltiplicarsi di mamme e di papà e io sento ancora oggi tantissima gratitudine anche verso tutte quelle persone».

Beatrice, quando sono cominciate invece le difficoltà, le nuove paure in conseguenza di quello che avevi vissuto?
«Dopo la prima settimana di una strana euforia ho iniziato a sentirmi ipersensibile: bastava un rumore qualsiasi, un odore a farmi agitare, vedere un uomo mi metteva in agitazione, soffrivo di claustrofobia, stavo male in ascensore, non volevo più salire su un mezzo di trasporto, persino in auto non andavo con i papà dei miei amici e anche con il mio viaggiavo sempre con il finestrino aperto e stringendo la maniglia. E in classe non sopportavo le finestre chiuse e scoppiavo a piangere, sono iniziati gli attacchi di panico, se sentivo qualcuno pronunciare parole come “legare” o “esplosione” scoppiavo a piangere. Dormivo soltanto per sfinimento e comunque dopo due ore mi svegliavo. Poi, un po' più grande, volevo andare ai concerti, ma avevo paura della folla e mi sentivo in trappola».

La mamma: «Ed è capitato di ricevere chiamate dopo mezz’ora: “Beatrice si è sentita male, è sull’ambulanza adesso”. E allora dovevo correre da lei. Poi ha imparato, si è organizzata: individuava le uscite di sicurezza e si piazzava lì vicino».

Comunque, subito dopo il sequestro, a scuola avete ricevuto tutti quanti un supporto psicologico.
«Sì, e infatti a un certo punto ho capito che tutto ciò era lecito, era chiaramente conseguenza di quel fatto. Altri miei compagni sembravano super-carichi, ma poi riversavano la loro ansia sugli altri, aggressivi o provocatori, facevano scherzi tipo “c’è giù in cortile uno tipo con una pistola” perché così vedevano noi più spaventati di loro. Però a casa non abbiamo mai smesso di parlarne, così sono stata proprio io a chiedere di fare psicoterapia».

Un percorso lungo, visto che sono passati cinque anni.
«Sì, molto doloroso e faticoso, mi sentivo addosso un carico da centomila tonnellate, ma adesso ho consapevolezze nuove, non è la stessa vita di prima. Non penso a lui, non provo odio, non credo valga la pena, continuo a lavorarci e ho potuto pensare lucidamente che la mia vita poteva finire lì, anzi per me quel giorno sono morta e poi è iniziata una nuova vita».

Morta?
«Sì, io credo di aver provato proprio quello che si prova poco prima di morire, gli ultimi cinque secondi, però adesso provo un amore per la vita diverso da prima, adesso sono qui e riesco a gustarmi il rosso di quelle fragole e la voce di mia mamma, ma non è la stessa vita di prima, ho un’altra consapevolezza e una diversa gamma di emozioni».

Che effetto ti fanno le notizie drammatiche, le guerre, certi fatti di cronaca nera?
«Non è che segua quelle notizie in modo particolare, però credo di avere un modo più empatico. Cioè, non posso dire di provare ciò che prova chi si trova in guerra, ma credo di sentirmi un passettino più vicina a quelle persone. E poi ora sento quegli eventi come reali, non più distanti e virtuali, sono cose che accadono, che possono accadere a tutti noi. Ma la vita c’è comunque».

La mamma (con gli occhi lucidi): «Perché è così, se ti trovi del male tra le mani devi farne qualcosa, trasformarlo in qualcosa, è un lavoro su un materiale che non avresti voluto, ma che devi fare».

Beatrice, cosa vuoi fare da grande?
«Intanto finire il liceo e proseguire il Conservatorio, e poi mi piacerebbe studiare biologia: la scienza della vita».

L’intervista è finita, ma prima del congedo, Beatrice suona un brano al pianoforte: il Notturno di Chopin. Mentre suona, chiude gli occhi e accenna un sorriso. E la mamma sussurra: «Quando la sento suonare a volte penso: cosa stava per sottrarre al mondo quel giorno».

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18 aprile 2024