Ruanda, 30 anni dopo il genocidio dai molti lati oscuri - RSI Radiotelevisione svizzera
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Ruanda, 30 anni dopo il genocidio dai molti lati oscuri

Bimbi e donne tagliati a pezzi, con il machete; più di 800’000 morti. Nel 1994, per oltre 100 giorni, l’inferno è in Africa - Oggi, sul banco degli imputati, anche le responsabilità dell’Occidente

  • 7 aprile, 06:49
  • 7 aprile, 18:35

30 anni fa il genocidio in Ruanda

Telegiornale 04.04.2024, 20:00

Di: Massimiliano Angeli - ATS/AP/ANSA

I corpi, abbandonati ai bordi delle strade, e l’odore della morte. Ovunque. Bambini, donne, anziani, persone di ogni età, vengono letteralmente tagliati a pezzi, a colpi di machete. Le immagini, registrate dai pochi operatori rimasti sul posto, iniziano a fare il giro del mondo. A partire dal 7 aprile 1994 il Ruanda, per più di 100 giorni, si trasforma in un inferno sulla terra. Uno dei peggiori.

I numeri del genocidio dicono che su 8 milioni di abitanti, vengono uccise almeno 800’000 persone (c’è chi parla di un milione, ma è impossibile avere cifre certe, vista la difficoltà di recuperare i resti di chi è stato gettato anche nei fiumi, nei laghi o divorato da animali e cani randagi). Le vittime sono soprattutto di tutsi (ma vengono sterminati anche un numero imprecisato di hutu moderati). I profughi sono 2 milioni.

“Guardo le immagini girate dal mio operatore in Ruanda: il massacro di 20 donne… guardo come le ultime 2, con le mani unite in preghiera, si inginocchiano su un cumulo di corpi, supplicando per la loro vita. Le loro urla sono già morte, ma gli assassini continuano a colpire”. Tra i documenti che consegnano l’orrore alla storia ci sono, tra gli altri, i reportage della giornalista Els de Temmerman, raccolti in un documentario diretto da Anna van der Wee: “Ruanda, storia di un genocidio”.

È ancora Els de Temmerman che racconta: “Stanno massacrando tutti!”, grida il militare della jeep che ci precede. Il soldato francese seduto alla guida alza il volume dell’autoradio e guarda lo spettacolo immobile, come se guardasse un film al drive-in… Un ragazzo appena adolescente trascina una donna nella mia direzione. Le agita un machete davanti alla faccia, e le strappa i vestiti. Il corpo di lei è scosso dal terrore, mentre mi fissa con una strana espressione negli occhi. È una giovane donna tutsi, la figlia di qualcuno, la sorella di qualcuno, la donna di qualcuno. Nei pochi istanti in cui i nostri occhi si incontrano, sappiamo entrambe che sta andando incontro a una morte orrenda”.

La sera del 6 aprile i presidenti del Ruanda (Juvénal Habyarimana) e del Burundi (Cyprien Ntaryamira), entrambi hutu, sono in volo; rientrano dai colloqui in Tanzania, dove si cercava di sanare il conflitto tra hutu (maggioranza in Ruanda) e tutsi (circa il 15% della popolazione). L’aereo su cui viaggiano i due leader viene abbattuto, probabilmente da un missile terra-aria, lanciato, evidentemente, da chi ha interesse a sabotare un possibile processo di pace nel Paese dei grandi laghi africani, ma una verità storica completa sui mandanti è ancora da scrivere. Gli estremisti hutu al potere dicono alla popolazione che sono stati i tutsi a compiere l’attentato. Così l’assassinio di Habyarimana, un hutu moderato, fornisce il pretesto per scatenare la popolazione hutu contro i tutsi. Ma c’è ancora un ostacolo, la premier Agatha Uwilingiyimana (anch’essa hutu moderata). Viene uccisa il mattino del 7 aprile, insieme a 10 militari belgi dell’ONU che erano stati incaricati di proteggerla; il genocidio può iniziare. Le autorità locali della fazione hutu estremista danno il via alla propaganda. Incitano alla violenza, anche attraverso le trasmissioni della Radio Télévision Libre des Mille Collines, che indicano dove “scovare” i tutsi, definiti “scarafaggi” (“Inyenzi”, nella lingua kinyarwanda). Le uccisioni vengono compiute dall’esercito, dalle milizie Interahamwe, ma anche da migliaia di semplici cittadini, in un delirio di odio.

Ai massacri (pianificati evidentemente da tempo), una vera e propria pulizia etnica, segue una guerra civile. Dalla vicina Uganda, l’esercito dei ribelli tutsi del Fronte patriottico ruandese (RPF), comandato da Paul Kagame (oggi presidente) entra in Ruanda e affronta i militari del regime. È lui che fermerà il genocidio. Perché, il 23 aprile, con una mossa sconcertante, a genocidio già iniziato, l’ONU ritira la maggior parte dei caschi blu dal Paese africano. Gli stranieri abbandonano il Ruanda, tranne una manciata di missionari e operatori della cooperazione internazionale. “La stampa internazionale ha mentito, facendo credere che a commettere i massacri siano stati pochi estremisti hutu. Nella nostra area l’intera popolazione ha preso parte al massacro”, racconta un missionario a Els de Temmerman, che scrive: “Una cosa è chiara, il mondo sente e vede solo la punta dell’iceberg. La realtà è peggiore di quella che stiamo raccontando”.

Pescatori di corpi

RSI Archivi 06.06.1994, 14:47

Coltelli, bastoni, machete. Sono anche queste le armi usate per lo sterminio di massa compiuto tra aprile e luglio. Ovviamente vengono usate anche armi da fuoco e granate, in molti casi anche all’interno delle Chiese, delle missioni o degli ospedali, dove molti si sono rifugiati.

Sui sopravvissuti rimangono i segni dell’orrore. I mutilati sono migliaia. “Le loro teste, le loro gambe, le mani sono sfigurate dalle ferite di machete. Dicono che gli hutu li stanno tagliando a pezzi. Gli amputano le dita delle mani, tagliano le dita dei piedi, le loro teste. Per ridurli letteralmente all’altezza hutu”, scrive Els de Temmerman. “Il 28 aprile 250’000 ruandesi attraversano il confine con la Tanzania, secondo l’ONU è il più vasto e veloce esodo mai registrato. Un portavoce delle Nazioni Unite dice che sono soprattutto hutu, in fuga per il terrore della vendetta per i massacri e dalla paura dell’avvicinarsi delle forze ribelli nell’Est del Ruanda. Chiedo al ragazzo che mi sta accanto, dove sono tutti i tutsi? “Tutti uccisi, perché loro hanno ucciso il nostro presidente”. Tragedia nella tragedia, la sorte di una moltitudine di fuggitivi sarà la morte per colera nei campi profughi.

Il 4 luglio l’RPF conquista Kigali. Dopo la sconfitta, anche i militari, i miliziani e i leader hutu fuggiranno nella Repubblica Democratica del Congo (l’allora Zaire), mischiandosi alle centinaia di migliaia di sfollati in fuga.

La Francia, con “l’operazione Turquoise(22 giugno - 21 agosto), interviene ufficialmente per proteggere i profughi. L’intervento scatena polemiche, che si trascinano fino ai giorni nostri. Di fatto i militari francesi non riescono a contenere le violenze (dichiarano che il contingente è troppo esiguo) e Parigi viene accusata dai tutsi di aver mandato i soldati, ma solo per appoggiare gli hutu (e solo per tutelare i propri interessi economici). 

In seguito l’ONU accusa anche i ribelli dell’RPF di aver commesso atrocità contro gli hutu che, dopo la sconfitta del regime, si sono rifugiati nella Repubblica democratica del Congo (Rdc).

Ruanda, per non dimenticare storie indicibili

Ruanda, per non dimenticare storie indicibili

  • KEYSTONE

“Una catastrofe umanitaria a riflettori volutamente spenti, perché - questa una delle linee di analisi - l’Europa e l’Occidente preferirono non guardare”, viene spiegato a distanza di anni, il 19 novembre 2020, durante la presentazione dei risultati di una ricognizione storica all’Università dell’Insubria a Varese, nell’ambito del corso tenuto dalla docente Katia Visconti. “Sullo sfondo, una situazione geopolitica che non è mai stata chiarita fino in fondo, come non sono mai state chiarite le ragioni del genocidio. Solo odio tribale? O la contrapposizione di due potenze occidentali, Francia e USA, per stabilire aree di influenza in una delle regioni strategiche del pianeta? Nella regione del Kiwu, infatti, al confine con il Congo, si estrae il 90% del cobalto e del coltan, indispensabili per la produzione delle batterie degli smartphone”.

Negli anni che hanno seguito le stragi sono state incarcerati più di 300’000 responsabili del genocidio e il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, istituito dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha emesso sentenze contro politici, funzionari e ufficiali dell’esercito del vecchio regime hutu. Ai giorni nostri il Paese continua a essere impegnato in un processo di pacificazione tra le parti.

Al Memoriale di Kigali, capitale della Repubblica del Ruanda, oggi sono seppelliti i resti di oltre 250’000 delle vittime, mentre nel Museo della memoria, sono conservati video e testimonianze, ma anche vetrine con crani, ossa e abiti stracciati.

Macron ammette le responsabilità francesi

E proprio durante il discorso al Memoriale del Genocidio, il 27 maggio 2021, il presidente francese Emmanuel Macron ammette le responsabilità francesi durante il genocidio. Macron dice che la Francia “non si è resa complice” ma ha fatto “per troppo tempo prevalere il silenzio sull’esame della verità”. Parigi, in passato, ha sempre accusato il Fronte Patriottico Ruandese (al potere ancora oggi con il presidente Paul Kagame) di aver cercato e trovato a suo tempo il pretesto per invadere il Ruanda, mentre Kigali, dal canto suo, ha sempre imputato ai francesi il sostegno agli estremisti hutu, che scatenarono il genocidio.

Le responsabilità storiche dei colonialisti Occidentali

La conflittualità interetnica tra hutu e tutsi si era già manifestata a partire dal 1992, nell’indifferenza della comunità internazionale, ma le radici della tragedia, che sfocerà nel genocidio pianificato del 1994, affondano nel passato coloniale e in particolare nella dominazione belga, una delle più feroci della storia. Prima i colonialisti tedeschi, in base alle concezioni Occidentali dell’epoca, e poi i belgi, infatti, iniziarono a contrapporre in modo razzista, in base alle fattezze fisiche, gli allevatori tutsi (che i colonialisti Occidentali vedono come più alti e con la pelle più chiara) ai contadini hutu (più bassi e scuri), ad attribuire “doti di comando” ai primi e comportamenti “di subordinazione” ai secondi, a metterli uno contro l’altro, per asservirli e dominarli meglio, fomentando l’odio reciproco. Appoggiarono l’aristocrazia locale tutsi, arrivarono a fornire addirittura carte di identità etniche (su cui compariva la dicitura tutsi o hutu) e contribuirono, di fatto, a scavare un solco, a fomentare un clima di sospetto e poi di odio tra le due etnie. Negli anni seguiranno diaspore dei tutsi, guerre civili, l’affermarsi delle fazioni più estremiste, gli interventi (anche della Francia), fino alle tragiche conseguenze del 1994.  

Pochi giorni fa, il 2 aprile 2024, l’ONG Human Rights Watch (HRW), ha giudicato urgente l’opera di assicurare alla giustizia “gli ultimi architetti” del genocidio in Ruanda. HRW si compiace del fatto che “un numero importante di responsabili del genocidio, comprese figure di spicco dell’allora Governo ruandese, siano stati assicurati alla giustizia”, tuttavia rimane l’urgenza, afferma HRW facendo riferimento al caso di Félicien Kabuga, di portare avanti la ricerca di giustizia.

Dal telegiornale

Il genocidio e il ruolo della Svizzera sul caso Kabuga

Lo scorso 27 febbraio 2024 il Consiglio nazionale, approvando un postulato di Christine Badertscher (Verdi/BE), ha deciso che il Consiglio federale dovrà illustrare in un rapporto il ruolo svolto dalla Svizzera nel cosiddetto caso Félicien Kabuga, accusato di essere uno dei principali responsabili, nonché presunto finanziatore del genocidio. Kabuga è stato latitante per oltre 25 anni. Uno dei motivi che gli hanno permesso di sottrarsi alla giustizia? Nel suo atto parlamentare Badertscher scrive: la Confederazione, che nel 1994 avrebbe avuto la possibilità di arrestarlo, non lo fece. Mesi fa, Kabuga è comparso dinanzi al Tribunale per il Ruanda all’Aia. Il novantenne, però, soffre di demenza ed è stato considerato non idoneo a prendere parte a un processo: il procedimento è dunque stato sospeso. Questa situazione avrebbe potuto essere evitata se nel 1994 Berna avesse agito diversamente, è la conclusione della consigliera nazionale bernese.

Il piano Ruanda, le violenze nella Rdc e il saccheggio delle risorse naturali

Il Ruanda oggi rimane un Paese dalle forti disuguaglianze (dove gran parte della popolazione è costretta alla povertà dagli oligarchi) e resta sotto i riflettori per diverse questioni, tra le altre, non solo per la proposta della Gran Bretagna di deportare (a pagamento) nel Paese africano quote di richiedenti asilo giunti illegalmente sul territorio britannico (il cosiddetto piano Ruanda), ma anche per le violenze in atto nella regione orientale della Repubblica Democratica del Congo (Rdc) - dove il Ruanda è accusato di sostenere i ribelli del gruppo armato M23 - e per il saccheggio delle risorse naturali.

Il 4 marzo 2024 l’Alto rappresentante Ue ha manifestato, a nome dell’Unione europea, estrema preoccupazione “per l’escalation di violenza nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo e per il peggioramento della situazione umanitaria che espone milioni di persone ad abusi sui diritti umani, tra cui sfollamenti, privazioni e violenza di genere”. “Non esiste una soluzione militare a questa crisi, ma solo politica: questa deve essere raggiunta attraverso un dialogo inclusivo tra Rdc e Ruanda per affrontare le cause profonde del conflitto, volto ad attuare le decisioni prese nell’ambito delle iniziative di pace regionali e a garantire il rispetto delle sovranità, l’unità e l’integrità territoriale di tutti i Paesi della regione - prosegue la nota -. L’Ue condanna inoltre l’ultima offensiva dell’M23 e ribadisce la sua ferma condanna delle azioni dei gruppi armati nella parte orientale della Rdc. Questi gruppi devono cessare tutte le ostilità, ritirarsi dalle aree che occupano e disarmarsi in conformità con le decisioni prese nell’ambito dei processi di Luanda e Nairobi”.

In precedenza, il 2 marzo 2024, cento organizzazioni della società civile congolese, avevano inviato una dichiarazione ai 27 Paesi membri dell’Ue, in cui avevano denunciato “con la massima responsabilità ed energia” l’accordo firmato lo scorso 19 febbraio tra la Commissione dell’Ue e il Ruanda sulla fornitura di minerali critici.

In un comunicato ripreso dal sito 7sur7, le Ong accusano l’Ue di avallare “il saccheggio delle risorse naturali e l’olocausto del popolo congolese da parte del Ruanda, perpetuando l’estrazione di minerali di lacrime e sangue”. Le organizzazioni chiedono quindi all’Ue di porre fine a questo accordo, “che è contrario ai suoi valori di promozione della pace, di rispetto dei diritti umani e di promozione del principio del rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale degli Stati”.

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