La morte e la fanciulla. I resti di una dittatura - Teatro e Critica
banner convegno su Ronconi
banner per acquisto pubblicità
banner convegno su Ronconi
banner convegno su Ronconi
banner per acquisto pubblicità
HomeArticoliLa morte e la fanciulla. I resti di una dittatura

La morte e la fanciulla. I resti di una dittatura

L’apertura del Campania Teatro Festival 2021 è affidata alla regia di Elio De Capitani del Teatro dell’Elfo che riporta in scena La morte e la fanciulla di Ariel Dorfman. Recensione.

Foto Salvatore Pastore

Quando si arrivava a Napoli di giugno, aggiungere la definizione Teatro Festival è stato per anni un atto naturale, azione fluida che identificava la città – per la sua storia e il suo presente – con la magniloquenza del teatro. Ma quest’anno, sceso alla stazione che fronteggia la statua di Giuseppe Garibaldi, il manifesto che mi dava indicazioni recitava un altro nome: Campania Teatro Festival 2021, al nome di città sostituito è il nome di regione. Perché questo cambio? È facile intuire la ragione nel finanziamento regionale sostanzioso e – diciamolo – sostanziale, anche se la parziale diffusione di alcuni eventi sull’intero territorio campano, quest’anno più consistente, vi ha sotteso una giustificazione. Peraltro, la sempre corposa parte napoletana del festival sta andando in scena nelle sole sale della Reggia di Capodimonte, luogo magnifico posto in alto rispetto alla città che affaccia sul golfo omonimo; pertanto ogni evento che si svolge a Napoli si svolge in realtà “sopra Napoli”, lontano da quella vitalità cittadina radicale, contraltare ad una scelta che appare invece un po’ leziosa ed esclusiva.

In apertura è stato Elio De Capitani a firmare per il Teatro dell’Elfo – in coproduzione con il festival stesso e con lo Stabile di Napoli – la regia del capolavoro drammaturgico di Ariel Dorfman, scritto nel 1991 e portato al cinema da Roman Polanski pochi anni dopo: La morte e la fanciulla, già affrontato nel 1998 dallo stesso regista milanese in una versione precedente.

Foto Salvatore Pastore

Siamo in Cile, si presume, dalla scritta proiettata a inizio scena. Eppure diventerà così inevitabile si tratti del Cile che sembra un’informazione quasi fuorviante, ma che indica invece già da principio un nodo fondamentale: si tratta del Cile, ma è normale per i cileni che anche la verità più incontrovertibile sia messa in discussione, ne sia dichiarata l’incertezza e, forse, l’inattendibilità. Ecco come già il tema si sviluppa a partire da elementi che non paiono importanti, eppure definiscono i primi caratteri di una vicenda che sul rapporto tra vero e falso, tra misfatto e tempo storico, articola l’intera messa in scena.

Un interno casalingo attende lo sguardo dello spettatore, quello stesso ambiente che sarà teatro di avvenimenti sorprendenti è inizialmente innocuo, fatto di alcune sedie e due tavolini, tendaggi tagliati nel tessuto che disegnano lo spazio creando un perimetro elegante e delicato; in questa ambientazione minimale Paulina Salas attende il ritorno del marito avvocato che ha avuto un imprevisto, sotto la pioggia ha forato con l’automobile e un uomo, il dottor Miranda, si è prodigato per aiutarlo; l’avvocato Gerardo Escobar è agitato dalla disavventura e non trova nell’inquieta moglie l’ascolto che vorrebbe. Ma l’avvocato è in procinto di fare un passo importante nella sua carriera: diventerà tra molti dubbi il capo di un progetto per identificare vittime e colpevoli della persecuzione politica operata dalla dittatura di Pinochet, ma la moglie è contraria, più che altro ha paura non basti e si dispera di non essere ascoltata. È forse un capriccio? Niente affatto, anche la donna è stata vittima, di violenza fisica e psicologica, negli anni della dittatura. E fin da allora non ha mai smesso di pensare che vorrà trovare l’ignoto colpevole, di cui ricorda solo pochi elementi. Ci sono molti dubbi nella rabbia mai sopita, ma ecco che alcune certezze nella donna riaffiorano dopo aver ascoltato parlare, nel suo salotto, l’uomo che ha salvato il marito dall’incidente.

Foto Salvatore Pastore

L’ambiente (di Carlo Sala) è poco più che minimale, ma la regia di De Capitani – che dirige attori precisi e solidi come Marina Sorrenti, Claudio Di Palma, Enzo Curcurù – sa trarre da pochi elementi la giustezza di una visione sicura; un’attesa inquieta fascia invisibile anche i dialoghi in apparenza più leggeri e brillanti, mentre gli abiti bianchi o sabbia permettono alle luci (di Nando Frigerio) di cadenzare l’atmosfera dal calore delle parole veementi al ghiaccio delle parole più crude. La messa in scena di De Capitani fotografa con chiarezza quell’insieme di paura e desiderio, la forza schiacciante di un passato con i suoi strascichi unita alla forza propulsiva verso un futuro che, forse, vi si allontana; la cura dello spazio non è che la ricerca dell’ambiente migliore perché la relazione tra gli attori possa esprimere questo duplice sentimento, attraverso da un lato l’asciuttezza della parola e dall’altro la viscosità di emozioni in contrasto, esplicitate da una sequenza di eventi astringente, che pone interrogativi via via sempre più urgenti.

Quando Dorfman scrive il testo, ci troviamo negli anni centrali di un dibattito che potesse dirsi finalmente pulito dalla rimozione, gli stessi in cui Marcela Serrano scrive Noi che ci vogliamo così bene e pochi anni più tardi dal necessario D’amore e ombra di Isabel Allende. È già il tempo non solo di affrontare la dittatura, i dettagli di un abuso di potere feroce, ma anche tutto quel che resta, il rapporto cioè tra giustizia e vendetta, o meglio ancora, riferendo a un concetto politico un sentimento umano, tra rancore e democrazia. L’autore esplicita l’interrogativo perenne di un intrigo senza soluzione nell’animo umano: il legame tra vittima e carnefice, che ha come colonna sonora l’omonimo quartetto di Schubert ascoltato dalla donna durante la prigionia, corrompe la verità che diviene impossibile, intrisa di una memoria fallace, confusa ma che la sofferenza rende così profonda e incancellabile.

Simone Nebbia

Reggia di Capodimonte, Napoli – Campania Teatro Festival 2021

LA MORTE E LA FANCIULLA

di Ariel Dorfman
traduzione Alessandra Serra
con Marina Sorrenti, Claudio Di Palma, Enzo Curcurù
regia Di Elio De Capitani
scene Di Carlo Sala
luci Di Nando Frigerio
produzione Fondazione Campania Dei Festival – Campania Teatro Festival, Teatro Di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro dell’Elfo

Telegram

Iscriviti gratuitamente al nostro canale Telegram per ricevere articoli come questo

Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Pubblica i tuoi comunicati

Il tuo comunicato su Teatro e Critica e sui nostri social

ULTIMI ARTICOLI

Rothko dentro Rohtko. La finzione è verità

Recensione. Rohtko di Hanka Herbut, diretto da Łukasz Twarkowski. Visto al Piccolo Teatro nel programma del Festival internazionale di teatro Presente indicativo | Milano...