Hunger Games, il prequel: intervista al regista Francis Lawrence

Francis Lawrence: “Il mio nuovo Hunger Games è per la Generazione Z, l’ambiguità è cruciale”

Il regista parla de La ballata dell’usignolo e del serpente, prequel della trilogia originale: quando la Katniss Everdeen di Jennifer Lawrence ancora non c'era, dove protagonista, a sorpresa, è la musica. "È stato entusiasmante ricreare il mondo dei precedenti film ma ambientarlo 64 anni prima". L’intervista con THR Roma

Un cappello da baseball indossato anche in casa e una voce gentile, pacata, dall’altro lato dello schermo di Zoom, Francis Lawrence accoglie così le sue primissime interviste per Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente.

Dopo otto anni dall’uscita al cinema dell’ultimo capitolo della trilogia originale, il regista è stato scelto per realizzare anche l’adattamento del prequel, pubblicato dall’autrice Suzanne Collins nel 2020. Una sfida che Lawrence ha colto subito, per tornare nell’universo distopico di Panem con uno sguardo diverso e un diverso protagonista.

Con un salto indietro di 64 anni dal primo capitolo, quando ancora la Katniss Everdeen di Jennifer Lawrence è lontana, evocata solo da qualche easter egg che i fan si divertiranno a individuare nel film, La ballata dell’usignolo e del serpente, sullo sfondo di una storia d’amore adolescenziale, racconta soprattutto le origini del crudele antagonista della saga, Coriolanus Snow, interpretato da Tom Blyth, e la sua crescente ossessione per gli Hunger Games.

Da villain a eroe della sua stessa storia, qual è stata la chiave per trasformare il personaggio di Snow?

Gran parte del lavoro era già stato fatto da Suzanne Collins nel libro, un fantastico lavoro. Quel che è stato davvero divertente per me, in questo film, è stata la possibilità di raccontare l’origin story del cattivo degli altri libri e film. Amo le origin stories, in generale e la sfida in questo caso è stata renderle credibili, considerando che i fan sanno già come va a finire. È importante per me che il pubblico all’inizio empatizzi con Snow, che tifi per lui, che si allinei con i suoi desideri. Perché solo così, quando Snow inizia a scoprire i lati più oscuri e cupi di sé, è possibile credergli fino in fondo. In un certo senso è una sensazione che il pubblico alla fine ha guadagnato. È onesta e soddisfacente, una delle cose di cui vado più fiero, perché è entusiasmante vedere sullo schermo il protagonista diventare progressivamente lo Snow che si conosce già.

Cosa ha chiesto di fare a Tom Blyth per entrare in questo personaggio?

Tom è un grande attore. L’abbiamo cercato con cura, volevamo qualcuno che somigliasse vagamente a Donald Sutherland. Non volevamo usare troppo trucco o altro, ma trovare qualcuno che con grandi occhi azzurri, per esempio, potesse ricordarlo. Qualcuno di carismatico, intelligente, in grado di dare l’impressione di poter gestire sia la vulnerabilità sia l’esercizio del controllo di cui il personaggio è capace, l’oscurità che si impossessa di lui alla fine. Tom ha frequentato la scuola Juilliard, è molto bravo nel dare forma ai suoi personaggi ed è anche un attore sofisticato e intelligente, il che è cruciale. È parte di quel che rende credibile la sua trasformazione, senza mai allontanarsi da Sutherland, che è a sua volta sofisticato e intelligente.

Fondamentale in questo capitolo è la musica. Qual è stato il lavoro con Rachel Zegler dalle canzoni del libro alle versioni finali?

Sì, la musica è una grande parte del film. Quando Suzanne (Collins, ndr) mi ha detto per la prima volta che stava per terminare il libro non volle anticipare molto altro, ma l’unica cosa che disse è che ci sarebbe stato un ampio elemento musicale, cosa che mi intrigò subito. Così quando lessi il libro in anteprima, vidi tutte le canzoni che lei aveva inserito nella storia. Ne parlammo a lungo. Mi disse che era stata lei stessa a scriverne i testi ispirandosi alla musica country dei monti Appalachi, il bluegrass del West Virginia, a cui aveva associato il distretto 12 di Lucy Gray. Musica degli anni Venti e Trenta, ballate e canzoni passate di generazione in generazione nelle famiglie di immigrati dalla Scozia, dall’Irlanda e dall’Inghilterra, era questo che aveva in mente quando scriveva.

Abbiamo poi deciso di lavorare con Dave Cobb, produttore e autore discografico, con cui abbiamo avuto lunghe conversazioni. È stato lui a scrivere le melodie e le progressioni degli accordi e sempre lui a mettere insieme una piccola band per registrare delle basi di riferimento. Così quando Rachel Zegler è entrata nel progetto le abbiamo fatto ascoltare quelle canzoni di prova e le abbiamo chiesto di cantarle in studio di registrazione con la supervisione di Dave, per essere certi che avesse colto il giusto sound che volevamo raggiungere. Lei l’ha compreso subito e sul set ha cantato tutto dal vivo sia con la band sia a cappella, come nella scena della mietitura (la selezione dei partecipanti agli Hunger Games, ndr) all’inizio, perciò le registrazioni originali che le avevamo fatto fare sono state solo la sua prova generale. Ha cantato tutto live ed è stata fantastica.

Per la sua voce, Lucy Gray è l’usignolo, ma per il suo carattere è un po’ il serpente: quanto è importante l’ambiguità per raccontare questa storia?

È molto, molto importante e penso anche che sia ciò che rende la relazione fra Snow e Lucy Gray interessante. Se uno fosse il serpente e l’altra l’usignolo sarebbe tutto noioso. Penso che entrambi, quando iniziano a innamorarsi, siano entrambe le cose. Condividono gli stessi bisogni ma nessuno dei due è mai totalmente affidabile. Ed è ciò che rende tutta la storia interessante, il fatto che non dobbiamo guardarla in bianco e nero ma comprenderla in una zona di grigio dove convivono – in noi e nei personaggi – elementi diversi e in contraddizione.

In questo nuovo Hunger Games il mondo di Panem sembra familiare e al tempo stesso diverso. Come l’ha ripensato insieme al nuovo scenografo?

Ho pensato che fosse entusiasmante ricreare il mondo dei precedenti film ma ambientarlo 64 anni prima. Una grande opportunità di reinventare il mondo in cui ci troviamo. Volevamo mantenere una certa unità estetica con i precedenti Hunger Games ma la versione di Panem che conoscevamo era già lontana dalla guerra. Abbiamo deciso di focalizzarci quindi proprio sulla ricostruzione post bellica, ci siamo ispirato alla Berlino di metà anni Quaranta, una città rinata dalle macerie del conflitto, ancora sparse per le strade. Quello che cercavamo di ricostruire era una vecchia Panem, una Panem distrutta. Al tempo stesso nuova e già conosciuta, che fosse in continuità ma anche diversa. Uli Hanisch, il nostro scenografo, ha avuto anche una visione molto personale su come tenere tutto insieme mantenendo l’estetica originale. Penso che il risultato finale sia piuttosto singolare.

Oltre lo scenografo, due novità importanti nel film sono state Viola Davis e Peter Dinklage. Che lavoro ha fatto insieme a loro?

Gran parte del lavoro con loro, in realtà, l’ho fatto molto prima delle riprese. Conoscevo Viola Davis per un altro progetto su cui stiamo lavorando e quindi eravamo già in confidenza. Abbiamo parlato a lungo su Zoom, dei temi della storia, del suo personaggio e di come lei vi si inserisce, quali sono i suoi valori, quello che vuole. Le classiche conversazioni che si fanno tra regista e interpreti prima di girare, un modo per conoscere meglio il proprio personaggio in ogni suo aspetto. Ci siamo scambiati per settimane le rispettive idee e poi quelle idee hanno dato forma alle acconciature, ai costumi, al make-up, tutto. È nata così la dottoressa Gaul. E direi che è stato lo stesso con Peter. Io e lui ci conoscevamo già, ci siamo visti su Zoom e provato a costruire il personaggio, Casca Highbottom, insieme partendo dai problemi di dipendenza che lo caratterizzano. In generale penso che quando scegli persone di talento con cui lavorare e ti trovi subito sulla stessa lunghezza d’onda, fidandoti di loro e del loro istinto, non puoi che ottenere grandi risultati. E penso sia ciò che è successo con Viola e Peter. Ma anche con Jason Schwartzman. Tutto il lavoro l’abbiamo fatto prima di arrivare sul set. Il giorno delle riprese non c’era altro da ridefinire.

Molti fan della saga, però, non hanno amato il libro della Ballata. Cosa ha fatto nel film per riguadagnare la loro attenzione e come si rivolge a loro?

Onestamente, cercando di raccontare la storia migliore possibile, che riesca a evocare i film di Hunger Games che ho già fatto. La chiave è anche riuscire a suscitare quel tanto che basta di nostalgia dei capitoli precedenti. Che sia la colonna sonora, o l’origine dell’Hanging Tree (il celebre brano cantato in precedenza da Jennifer Lawrence, ndr). O ancora lasciando qualche indizio sulle origini della famiglia di Katniss, e ovviamente quella di Snow. Ci sono tanti easter eggs, tanti elementi in apparenza nascosti che richiamano i film originali e i libri. Scoprirli tutti credo dia soddisfazione ai fan. E poi credo che, pur appartenendo all’universo di Hunger Games, questa sia una storia pensata anche per un nuovo pubblico e una nuova generazione.

La Generazione Z?

Sì, esattamente.