La scuola siciliana di Federico II di Svevia - Italia Medievale

La scuola siciliana di Federico II di Svevia

La scuola siciliana di Federico II di Svevia di Soumaya Bourougaaoui

La scuola siciliana si sviluppò tra il 1230 ed il 1250 presso la corte federiciana. Lo Stupor Mundi stabilì la sua corte in Sicilia, luogo d’incontro e fusione di diverse culture per la sua centralità nel Mediterraneo, dove creò una scuola di poeti ed intellettuali che erano parte integrante della sua corte.
La denominazione di Scuola siciliana, che possiamo far risalire a Dante (De vulg. eloq. I, XII, 4), indica un movimento letterario che durante i primi tre quarti del XIII sec diede luogo a una vasta produzione lirica in volgare, e che si svolse con centro nella corte di Federico II re di Sicilia e dei suoi discendenti, particolarmente di Manfredi.[1]
I poeti della scuola siciliana erano considerati i veri fondatori della letteratura italiana, entrati improvvisamente a far parte dell’ecumene della lirica cortese europea inaugurata nel XII dai trovatori e poi continuata dai trovieri francesi e dai Minnesänger della Germania renano-danubiana.[2]
Anche, questi poeti erano in primis dei funzionari dello Stato, notai o magistati, per loro l’attività poetica rappresenta un’evasione dalla realtà. A differenza dei trovatori, non eano poeti professionisti, e la diversa situazione politico-sociale in cui si trovano ad operare ha importanti ricadute stilistiche e tematiche sulla loro produzione.[3]
Lo storico britannico David Abulafia nel suo libro Federico II un imperatore medievale scrive:
Nella storiografia tradizionale, l’immagine di Federico quale “meraviglia del mondo” si fonda unicamente sui suoi interessi scientifici e sugli aspetti drammatici del conflitto che lo oppose al papato. A lui vanno incondizionati applausi in qualità di fondatore della poesia lirica italiana. Risalendo le loro origini alla corte sveva, i poeti italiani del XIII secolo furono denominati “scuola siciliana”; Dante, consapevole dei progressi e dei nuovi orientamenti tenuti a battesimo dai suoi immediati predecessori in Toscana (soprattutto Cavalcanti), tenne disgiunti i Siciliani dal dolce stil novo contemporaneo, ma ai suoi occhi la poesia amorosa italiana era una novità relativa, approdata alla corte siciliana soltanto nella prima metà del XIII secolo- vale a dire, oltre cent’anni dopo Guilhelm de Peiteu, duca d’Aquitania e iniziatore della lirica trovadoresca. Tale era la forza della tradizione provenzale che lo stesso Dante Alighieri prese in considerazione l’idea di scrivere in quella lingua la Commedia; impossibile dire se ne sarebbe immortalato il provenzale o se il suo capolavoro avrebbe trovato oscura inumazione. Né si può dire che Dante giudicasse particolarmente raffinato il dialetto “siciliano” in cui furono espressi i primi versi italiani. Egli era più colpito dai mecenati dei cantori che dal linguaggio della poesia:
“È in verità quegli uomini grandi e illuminati, Federico Cesare e il suo degno figlio Manfredi, seppero esprimere tutta la nobiltà e dirittura del loro spirito, e finché la fortuna lo permise si comportarono da veri uomini, sdegnando di vivere da bestie. Ed è per questo che quanti avevano in sé nobiltà di cuore e ricchezza di doni divini si sforzarono di rimanere a contatto con la maestà di quei grandi principi, cosicché tutto ciò che a quel tempo producevano gli Italici più nobili d’animo vedeva dapprima la luce nella reggia di quei sovrani così insigni.”[4]
Tra i maggiori rappresentanti della scuola siciliana:
Giacomo da Lentini o Jacopo da Lentini (Lentini, 1210 circa- Lentini 1260 circa), è stato il maggior esponente della Scuola Siciliana, fiorita nel XIII secolo presso la corte di Federico II di Svevia. Alla corte ha lavorato come funzionario in qualità di Notaio imperiale. Nell’ambito della letteratura delle Origini, la sua produzione poetica di stile elevato e di argomento amoroso, è stata la più vasta e l’unica perché aveva influenzato immensamente gli scrittori dell’epoca seguente. Egli aveva una formazione culturale di carattere giuridico, ci sono manoscritti poetici che tramandano il suo nome nella forma Notaro Giacomo.
Il filologo italiano Roberto Antonelli, ha curato il primo volume del libro « I poeti della Scuola Siciliana, Giacomo da Lentini »  il protopoeta, che Antonelli nella sua prefazione definisce tout court il « fondatore » della lirica italiana, acutamente analizzandone le influenze trobadoriche e le sedimentazioni della cultura latina. Tra l’altro a Giacomo da Lentini si deve la strepitosa invenzione di quella forma metrica perfetta che è il sonetto. Ma Antonelli riconosce che il merito dello «stimolo decisivo alla nascita e allo sviluppo» della poesia siciliana va a Federico II, e alla sua politica culturale.[5]
Al « Notaro », come lo chiamava Dante nella « Divina Commedia » (Divina Commedia, Pg. XXIV, 56)  e nel « De vulgari eloquentia », si deve la nascita della lingua volgare e della lirica italiana. Scrisse la raccolta poetica, « Rime e sonetti », e gli sono attribuiti 16 canzoni e 22 sonetti, scritti tra il 1233 e il 1241. Sono riprodotti tutti i componimenti (canzoni e sonetti) attribuitigli con verosimiglianza dalla tradizione manoscritta: Con la canzone Madonna dir vo voglio di Giacomo da Lentini si apre il codice Vaticano Latino 3793, la piú ampia raccolta dugentesca di rime in volgare italiano.

Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale. Ms. Banco Rari 217 [già Cod. Pal. 418], Canzoniere Palatino (fine XIII sec.), f. 18r. Inizio del canzoniere di Jacopo da Lentini. (©mediumaevumweb.wordpress.com).

La lingua utilizzata da Jacopo da Lentini, e dagli altri poeti siciliani, è il volgare italiano, che è essenzialmente un siciliano colto depurato da ogni componente dialettale.  Nella sua poesia il tema trattato è l’amore, con grande originalità, utilizzando il sonetto. Nella sue liriche, il Notaro, analizza l’amore come un evento umano e divino.
Di lui restano una quarantina di poesie, tutte amorose. Della sua vita si sa assai poco; il suo nome figura in alcuni atti (che risalgono al 1233) da lui stesi per conto dell’imperatore Federico II.
Diversi poeti che ruotavano attorno a Federico II, erano siciliani, molti messinesi di nascita o della costa orientale: Stefano Protonotaro veniva da Messina, così come Guido delle Colonne, Odo delle Colonne, Rosso Rosso (signore di Villa Sperlinga e Martini e creditore di Federico II), Mazzeo di Ricco e altri.[6]
Un altro poeta, scrittore, letterato e politico italiano del Regno di Sicilia ritenuto tra i più grandi maestri dell’ars dictandi fu, Pier della Vigna o Pier delle Vigne (1190-1249).
Pier della Vigna, considerato uno dei massimi esponenti della prosa latina medievale, ha dato anche un prezioso contributo allo sviluppo del volgare di scuola siciliana con alcune canzoni e un sonetto sulla natura dell’amore. È inoltre noto per essere citato nella Divina Commedia nel XIII canto dell’Inferno. Dante Alighieri, ponendolo nella selva dei suicidi, lo assolve dall’accusa di aver tradito l’imperatore.[7]
Interviene nella tenzone proposta da Jacopo Mostacci, con il sonetto:
Però c’Amore non si pò vedere
e non si tratta corporalemente,
manti ne son di sì folle sapere
4 che credono c’Amor[e] sia nïente.
Ma po’ c’Amore si face sentire
dentro dal cor signoreggiar la gente,
molto maggiore pregio de[ve] avere
8 che se ’l vedessen visibilemente.
Per la vertute de la calamita
como lo ferro at[i]ra no si vede,
11 ma sì lo tira signorevolmente;
e questa cosa a credere mi ’nvita
c’Amore sia, e dàmi grande fede
14 che tutor sia creduto fra la gente.

Targa commemorativa a Pontremoli (MS), Pier della Vigna fu arrestato a Cremona all’inizio del 1249 come traditore (proditor). I motivi dell’arresto non erano mai chiariti, fu fatto accecare da Federico II a Pontremoli nella Piazzetta di San Geminiano. Fonte: Wikimedia.

Pier della Vigna con la presente lirica, nella quale sostiene la tesi opposta a quella degli altri contendenti e cioè che l’amore ha una forza propria, paragonandolo a una calamita che è in grado di attirare a sé i cuori degli uomini, lo ritoveremo anche nel manifesto del dolce stil novo di Guinizzelli (Al cor gentile rempaira sempre amore).[8]
Nella scuola sciliana, vi era un aspetto innovativo sotto l’aspetto linguistico: l’attribuzione di una nuova lingua poetica. Venne usato il volgare siciliano, arricchendolo di latinisimi e di provenzalismi di origine colta anche, usati nell’ambiente cortigiano di Federico. Col tempo i testi subiranno un processo di toscanizzazione, perché i copisti toscani ricopiavano secondo la loro lingua.
Dante Alighieri fu un grande estimatore della lirica siciliana e del volgare in cui essa si esprimeva, tanto da fargli affermare nel suo De Vulgari Eloquentia:
Comincerò esercitando l’intelligenza nell’esame del siciliano: in effetti questo volgare sembra avocare a sé una fama superiore agli altri, perché tutto ciò che gli Italiani fanno in poesia si può dire in siciliano, e perché conosco molti maestri dell’isola che hanno cantato con gravità, come nelle canzoni Amor che l’aigua per lo foco lassi e Amor, che lungiamente m’hai menato.[9]
Possiamo dire che la scuola siciliana fu senza dubbio un importante centro culturale presso la corte di Federico II, Vir inquisitor et sapientiae amator, come egli stesso diceva di sé.
Ma Con il declino della dinastia sveva e la decadenza della vita politica siciliana, il centro letterario italiano passò in Toscana e il volgare di questa regione costituì la nuova lingua nazionale, non senza però che la Scuola siciliana trasmettesse ai Toscani, insieme con schemi contenutistici, anche elementi fonetici e lessicali che si mantennero durevolmente nella tradizione toscana e italiana.[10]

Note
[1] La corte di Federico II, treccani.it, consultato il 22/05/2019
[2] ved. I poeti della scuola siciliana: Poeti della corte di Federico II, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, A. Mondadori, 2008
[3] Ibidem
[4] David Abulafia, Federico II un imperatore medievale, trad di Mainardi G, Einaudi editore, Torino, 1990, pp. 227-228
[5] ved. L’amore raccontato dai poeti della mia Sicilia di Andrea Camilleri, Recensione pubblicata su La Repubblica, 7 luglio 2008
[6] David Abulafia, op.cit, pp. 228-229
[7] Ved, Pier della Vigna, Amando con fin core e co speranza pdf, tre canzoni a cura di Walter Raffaelli, Raffaelli editore, 2016
[8] Pier della Vigna «Però c’Amore non si pò vedere», in, letteritaliana.weebly.com e LA SCUOLA SICILIANA (LE ORIGINI DELLA POESIA CORTESE), in, http://www.inftub.com
[9] Pietro Cociancich, L’italiano deriva dal siciliano ?, in, patrimonilinguistici.it
[10] Cfr, Scuola siciliana, Enciclopedia on line, in, http://www.treccani.it.

1441502_252364174917628_1245218425_nSoumaya Bourougaaoui

Soumaya Bourougaaoui, tunisina, docente universitaria di lingua italiana presso l’Istituto di Studi Umanistici di Sbeitla-Università di Kairouan (Tunisia).
È interessata ai temi della multiculturalità e alla questione delle minoranze, affrontando i temi legati al dialogo interculturale e interreligioso.

Ha conseguito il suo dottorato nel 2018 in lingua e letteratura italiana con specializzazione in civiltà italiana presso la Facoltà di Lettere, delle Arti e delle Scienze umane-Università della Manouba, discutendo una tesi dal titolo: “La comunità ebraica nell’Italia Meridionale ai tempi di Federico II di Svevia”. L’obiettivo di questa tesi è quello di illustrare l’evoluzione della comunità ebraica nell’Italia meridionale,  all’epoca di Federico II di Svevia lo Stupor Mundi. A differenza della maggior parte degli altri sovrani coevi Federico II, come accennato, quest’ultimo aveva un sincero interesse per la cultura ebraica perché crebbe nel Mezzogiorno, a Palermo, in un ambiente cosmopolita e multiculturale con una forte tradizione di convivenza pacifica tra cristiani e ebrei.
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