Will Hunting - Genio ribelle: recensione del film con Robin Williams
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    Will Hunting – Genio ribelle: recensione del film con Robin Williams

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    Will Hunting – Genio ribelle è un film generazionale diventato un cult, partorito dalle menti di Matt Damon e Ben Affleck, che ne hanno curato la sceneggiatura. Un pilastro del cinema mondiale, che si è imposto nell’immaginario collettivo diventando l’emblema e icona della diversità, il cuore pulsante di un dibattito che poneva l’intelletto e l’anima al centro, il cui scatto metafisico ha una rilevanza che è rara in una pellicola di così ampio respiro e che, dopo tutto, ha trovato un suo posto nella memoria di tutti i cinefili e appassionati della settima arte.

    Will Hunting – Genio ribelle: fra intelligenza e infelicitàWill Hunting - Genio ribelle

    Will Hunting – Genio ribelle è diretto da Gus Van Sant, ed è stato insignito di due premi Oscar per la miglior sceneggiatura e per il miglior attore non protagonista Robin Williams. La trama orbita attorno a Will, un orfano che abita a Boston, un genio della matematica che lavora come bidello al Massachusetts Institute of Technology, che viene notato per la sua spiccata intelligenza e che ben presto svela anche la sua profonda negligenza.

    Ciò che attrae in questo lavoro non è solo l’audacia nel mostrare una mente geniale, a volte indomita e sregolata, ma come essa si lasci attraversare dallo spettatore, che diventa lo specchio umano di ogni sua impasse. Ciò che è rivoluzionario è come questo genio ribelle si compia nel raccontarsi al suo psicologo, immortale e indimenticabile ruolo interpretato da Robin Williams, che raggiunge l’apice di una carriera siderale.

    Il rapporto dei due personaggi è inizialmente antitetico, nonostante si somiglino nell’approccio: entrambi cercano di analizzare l’essere che hanno di fronte, cosa che li rende simili, due matematici dell’anima. Ma ciò che li differenzia sono le regole che determinano un’esistenza, ovvero l’esperienza. Ciò che Will ha studiato, ha letto e introiettato, Sean l’ha percepito, vissuto sulla sua pelle, e il confronto generazionale che si instaura tra i due è decisivo e commovente, ed è ciò che spingerà Will a scegliere tra la vita e lo studio, tra la felicità e il genio.

    Will Hunting – Genio ribelle: un film generazionale diventato un cultWill Hunting - Genio ribelle

    Will ha dentro di sé la possibilità di risolvere tutto tranne che i suoi dilemmi, la possibilità di scorgere intenzioni e supporre, dialogare di filosofia, algebra, chimica. Tutto ciò lo rende però irrimediabilmente insicuro, debole, un ragazzo avverso alle regole, in cui qualsiasi persona nella propria vita si può identificare. Vive con la paura della sua stessa esistenza, respinge esperienze durature, teme l’abbandono e si circonda di amici di una vita verso i quali ha sviluppato un legame elitario. Il racconto si cela sotto una mendace ironia ma che lentamente rivela un enorme, struggente dolore che governa ogni scena.

    Tutto cambia quando avviene l’incontro con il suo psicologo, Sean, un momento decisivo, formativo, per entrambi perché ognuno occuperà uno spazio nell’anima dell’altro, ognuno si plasmerà e comprenderà quanto sia fallace e ingannevole condurre un’esistenza in sottrazione, immutabile, che suggerisce a pieno l’idea di aprire uno spazio personale nella trama, in cui procedere senza edificazione, senza temporalità; la psicanalisi mostrata è un momento atemporale dal punto di vista visivo, ma progressivo e crescente dal punto di vista dialettico.

    Il memorabile rapporto tra Sean e Will

    Ed è questo il punto di svolta di Will Hunting – Genio ribelle: un continuum temporale in cui Sean ricrea un proprio spazio, libero, in cui Will possa ritenersi al sicuro, inserendo anche se stesso, mostrando in toto i suoi difetti, le sue debolezze, la sua meravigliosa malinconia del non rammaricarsi di una vita passata accanto ad una donna trovata e poi persa. Un insegnamento che si nutre dell’amore, delle passioni, al di là del risultato finale, una lezione che diventa decisiva per la vita di Will.

    Sean insegna a Will ad essere un ragazzo, ad apprezzare il genio ma a farne strumento di felicità e non di successo; Sean dona il suo insegnamento, quello più profondo, che tocca le sfere dell’esperienza, laddove il sapere non può sopravvivere, il genio non può sopravvivere, per ricreare all’interno della mente di Will un potere decisionale che lo spinga verso ciò che desidera. Il rapporto tra Sean e Will è memorabile, non esiste un altro che gli somigli. Un’amicizia reale, viscerale, d’impatto che sopravvive a qualsiasi egoismo e affonda le proprie ragioni nella comprensione, nella fiducia, nelle somiglianze, nei piccoli difetti, tutti piccoli particolari che rendono il loro legame e la pellicola unica, degna del successo che ha ottenuto, veicolando un messaggio, che al di là dell’amicizia, sconfina nella libertà personale e nel crearsi un futuro di cui essere gli unici e soli artefici. Senza libertà l’uomo è una sincope.

     

    Overall
    8.5/10

    Verdetto

    Will Hunting – Genio ribelle è un film epocale, emozionante, impreziosito da una scrittura armonica, poetica e struggente e dalle intense e indimenticabili interpretazioni di Robin Williams e Matt Damon.

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    IF – Gli amici immaginari: recensione del film di John Krasinski

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    IF - Gli amici immaginari

    Per John Krasinski, il cinema è sempre una questione di famiglia. Lo è fin dai tempi della sua opera seconda The Hollars, in cui interpreta un figlio che corre al capezzale della madre, a cui hanno fatto seguito A Quiet Place – Un posto tranquillo e A Quiet Place II, dove una famiglia si stringe per sopravvivere in un mondo distrutto ed estremamente pericoloso. Non stupisce dunque ritrovare l’indimenticabile Jim Halpert di The Office coinvolto come sceneggiatore, regista e interprete di IF – Gli amici immaginari, film in tecnica mista con al centro un’altra famiglia spezzata dal dolore e dal destino.

    Dopo aver perso in tenera età la madre, la dodicenne Bea (Cailey Fleming) si trasferisce nel suo vecchio appartamento insieme alla nonna, in attesa di un delicato intervento al cuore a cui si deve sottoporre il padre (John Krasinski). Durante queste giornate di forte preoccupazione, in un appartamento vicino al suo Bea fa la conoscenza del bizzarro Cal (Ryan Reynolds) e di due creature che vivono con lui, Blue e Blossom (rispettivamente Steve Carell e Phoebe Waller-Bridge in lingua originale, Ciro Priello e Pilar Fogliati nel doppiaggio italiano). Bea scopre che questi esseri sono i cosiddetti IF, amici immaginari che Cal deve abbinare a nuovi bambini, dal momento che i loro bambini originali crescendo li hanno dimenticati. Inizia così un viaggio in bilico fra realtà e fantasia, che ci ricorda il potere salvifico dell’immaginazione.

    IF – Gli amici immaginari: il potere salvifico dell’immaginazione

    IF - Gli amici immaginari

    In IF – Gli amici immaginari si respirano atmosfere in linea con quelle della Pixar, capace di riunire tutta la famiglia davanti a una storia semplice ma emozionante, con diversi livelli di lettura. John Krasinski cerca infatti un difficile equilibrio fra il punto di vista fanciullesco e quello adulto, creando un mondo di simpatiche e variopinte creature che osservano silenziosamente gli umani da loro amati, in maniera analoga a quanto avviene in Inside Out. Il regista e attore rimescola però le carte, ritagliandosi il ruolo di padre amorevole e dall’ottimismo incrollabile e tratteggiando allo stesso tempo un racconto fatto di dolore e di fuga dalla realtà, con diversi punti di contatto con Sette minuti dopo la mezzanotte di Juan Antonio Bayona.

    Nonostante le batoste a cui Bea è sottoposta, prevalgono la leggerezza e la speranza, sostenute da un eccentrico Ryan Reynolds (di nuovo sospeso fra diversi piani di realtà, come in Free Guy – Eroe per gioco) e dalla pregevole caratterizzazione dei vari amici immaginari, che in lingua originale si avvalgono anche delle voci di interpreti del calibro di Brad Pitt, Bradley Cooper, George Clooney, Emily Blunt, Matt Damon, Blake Lively e Sam Rockwell. Un risultato che conferma la notevole abilità di John Krasinski nel world building, già evidente in A Quiet Place, capace anche di centrare momenti di struggente malinconia e di sincera commozione, sottolineati dalle sempre evocative musiche di Michael Giacchino e dalla suggestiva fotografia di Janusz Kamiński.

    Un film per famiglie dalla messa in scena inappuntabile

    IF - Gli amici immaginari

    Fra mestizia e umorismo, emergono sia la forza della fantasia, da sempre rifugio dal dolore e fondamentale strumento per rielaborare cadute e perdite, sia le sfumature proustiane, cavalcate dalla ricerca da parte dei personaggi di un’ideale madeleine, con la quale rievocare l’infanzia di adulti che ormai hanno smesso di sognare. Un cinema per famiglie intelligente e dalla messa in scena inappuntabile, il cui più evidente limite è paradossalmente la mancanza di un target ben preciso. Al contrario di quanto accade nelle opere Pixar più riuscite, le venature malinconiche e nostalgiche di IF – Gli amici immaginari rischiano infatti di non essere recepite dal pubblico dei giovanissimi, mentre l’ingenua giocosità con cui si smussano le note più dolenti del racconto può rappresentare un ostacolo per gli adulti più smaliziati.

    Nonostante ciò, il bicchiere è comunque mezzo pieno, grazie soprattutto all’evidente e sincera passione di John Krasinski, che dopo le escursioni nella dramedy familiare e nell’horror fantascientifico si destreggia con buoni risultati anche nel campo del fantastico, in un riuscito ibrido fra animazione e live action.

    IF – Gli amici immaginari è disponibile nelle sale italiane dal 16 maggio, distribuito da Eagle Pictures.

    Dove vedere in streaming IF – Gli amici immaginari

    Al momento non disponibile su nessuna piattaforma.
    Overall
    7/10

    Valutazione

    Dopo le escursioni nella dramedy familiare e nell’horror fantascientifico, John Krasinski firma un riuscito film per famiglie in tecnica mista, penalizzato solo dalla mancanza di uno specifico target.

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    Una storia nera: recensione del film con Laetitia Casta

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    Una storia nera

    Nel cinema, come nella vita, spesso il tempismo è fondamentale. Tempismo che non è certo perfetto per Una storia nera, nuovo film di Leonardo D’Agostini con Laetitia Casta e Andrea Carpenzano (già diretto dal regista nella sua opera prima Il campione), che arriva nelle sale italiane a pochi mesi di distanza dal successo planetario di Anatomia di una caduta, con il quale condivide diversi risvolti della trama. Una concomitanza del tutto casuale (il film è basato sull’omonimo romanzo di Antonella Lattanzi, pubblicato nel 2017), che tuttavia mette inevitabilmente in luce tutti i limiti dell’operazione.

    Al centro della vicenda c’è Carla (Laetitia Casta), che dopo anni di soprusi e maltrattamenti ha finalmente divorziato dal marito Vito (Giordano De Plano). Nonostante il burrascoso passato, i due si ritrovano per la festa di compleanno della loro figlia minore; al termine della serata, l’uomo scompare però nel nulla, fino al ritrovamento del suo martoriato cadavere nel Tevere. Il cerchio si stringe immediatamente intorno a Carla, che messa alle strette confessa l’omicidio, motivandolo però con la legittima difesa. Inizia così un lungo e teso processo ai danni di Carla, volto a comprendere la natura delle sue azioni e a valutare l’ipotesi di premeditazione del delitto. Fra le poche persone su cui Carla può contare c’è Nicola (Andrea Carpenzano), il suo figlio maggiore ben consapevole del rapporto tossico e violento fra i suoi genitori.

    Una storia nera: Laetitia Casta in un thriller sulla violenza domestica

    Una storia nera

    Dopo il già citato lavoro di Justine Triet, ci troviamo dunque nuovamente di fronte a una morte avvolta nel mistero di un uomo, a un processo in cui chiarire gli eventi e a un figlio chiamato a riflettere sulle azioni della madre. Materiale potenzialmente esplosivo, anche perché a differenza di Anatomia di una caduta in Una storia nera si parla apertamente di violenza domestica a senso unico. Una scelta che da una parte conferisce al lavoro di Leonardo D’Agostini profondità e modernità, ma dall’altra si rivela un boomerang a livello narrativo, portando immediatamente gli spettatori a parteggiare e comprendere Carla, caratterizzata invece fino all’epilogo con una notevole dose di ambiguità.

    Il semplice ma fondamentale dubbio messo in scena con certosino equilibrio da Justine Triet (colpevole o innocente?) lascia in questo caso spazio a una domanda molto meno suggestiva e abbastanza ininfluente ai fini del giudizio morale sulla protagonista, dal momento che decenni di maltrattamenti e l’alta probabilità di nuove violenze rendono la verità sull’accaduto rilevante solo dal punto di vista giuridico. Con un mistero principale così debole, tutto ciò che gli sta intorno fatica a destare interesse e curiosità. Una storia nera si trascina così stancamente attraverso un lungo e ripetitivo dibattito in aula, costellato da personaggi secondari poco approfonditi (il nuovo compagno di Carla), da analisi di dettagli ininfluenti (il funzionamento dell’auto della protagonista) e da forzature (la simulazione dello spostamento del cadavere).

    Non basta la buona prova di Laetitia Casta

    Laetitia Casta dà vita a una buona performance in sottrazione, che non basta però a conferire al suo personaggio la necessaria ambiguità (il paragone con la Sandra Hüller di Anatomia di una caduta è impietoso). Non giovano alla causa i tentativi di approfondimento attraverso salti temporali, che finiscono solo per mettere in luce alcune ingenuità a livello di trucco e acconciatura, con le quali si cerca di tratteggiare un cambiamento interiore attraverso uno esteriore. A tal proposito, per dipingere i primi anni di matrimonio di Carla, in fragile equilibrio fra felicità e tristezza, si ricorre infatti a uno sbarazzino taglio a caschetto, mentre per delineare la sua progressiva solitudine durante il processo si nasconde la bellezza di Laetitia Casta attraverso capelli spenti e ingrigiti.

    Conscio dei limiti del racconto e della sua protagonista, Leonardo D’Agostini cerca di rimescolare le carte, dando ampio spazio alla cinica PM dell’ottima Cristiana Dell’Anna e avventurandosi in riflessioni sull’ereditarietà della violenza e del patriarcato, attraverso una maldestra e contraddittoria caratterizzazione del personaggio di Andrea Carpenzano. Uno sforzo che non produce risultati apprezzabili e al contrario finisce per dare vita a inutili digressioni (l’intera sequenza al parco giochi) e per allontanare Una storia nera dal proprio baricentro emotivo e narrativo, che nel bene e nel male è sempre Carla.

    Una storia nera: il nuovo esperimento di Groenlandia

    Una storia nera

    Dopo The Hanging Sun – Sole di mezzanotte, la Groenlandia di Matteo Rovere e Sydney Sibilia produce un nuovo esperimento di thriller psicologico all’italiana, che guarda tanto al seminale La fiamma del peccato di Billy Wilder quanto al David Fincher di L’amore bugiardo – Gone Girl, con esiti purtroppo molto più modesti, nonostante l’importanza e l’attualità dei temi trattati.

    Una storia nera è disponibile dal 16 maggio nelle sale italiane, distribuito da 01 Distribution.

    Dove vedere Una storia nera in streaming

    Al momento non disponibile su nessuna piattaforma.
    Overall
    5/10

    Valutazione

    Leonardo D’Agostini dà vita a un thriller psicologico basato su temi importanti e urgenti, che però nonostante la buona prova di Laetitia Casta non riesce mai a generare suspense e mistero.

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    Abigail: recensione del film con Melissa Barrera

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    Abigail

    Si apre con il tema principale de Il lago dei cigni di Čajkovskij come il seminale Dracula di Tod Browning (scelta con un ben preciso significato, come vedremo in seguito), procede seguendo le dinamiche di Dieci piccoli indiani di Agatha Christie (base per molti horror moderni, peraltro citata esplicitamente nel film) e infarcisce tutto con un dark humour citazionista e postmoderno. Abigail di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett si configura quindi come un saggio divertito e divertente sulla storia e sullo stato dell’arte del cinema horror, sulla scia dell’immortale saga di Wes Craven Scream, non a caso rielaborata dagli stessi registi nei due recenti “requel“. Una valida commedia horror, che conferma l’affinità di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett con questo filone, da loro esplorato anche nel notevole Finché morte non ci separi.

    Liberamente ispirato a La figlia di Dracula, Abigail racconta la storia di un bizzarro e misterioso gruppo di rapitori, assoldati per sequestrare una bambina dotata di grande talento per la danza. Una volta eseguito il sequestro, i malviventi hanno l’indicazione di portare la piccola in una lussuosa e isolata villa, in cui custodirla per 24 ore in attesa del pagamento del riscatto. Ignari delle vere identità dei loro soci e di quella del padre della bambina, i rapitori iniziano a innervosirsi e a porsi domande sulla loro missione. In un susseguirsi di eventi sinistri, scoprono poi di essere rinchiusi all’interno della villa e soprattutto di essere a loro volta in pericolo per la vera natura della piccola Abigail, assetata del loro sangue.

    Abigail: una giocosa e riuscita commedia dell’orrore

    Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett non inventano nulla, ma sfruttano in maniera fresca e brillante gli stereotipi dei generi e dei temi che affrontano. Uno di questi è indubbiamente il vampirismo, che con il passare dei minuti diventa sempre più centrale all’interno della narrazione. L’eterogeneo gruppo di protagonisti infatti non può fare altro che interrogarsi sulla natura e sui poteri di Abigail, affidandosi all’intuito (per la verità abbastanza scarso) e soprattutto alla letteratura e alla filmografia sui vampiri. Spunti ideali per un umorismo macabro e grottesco e per situazioni paradossali, come i momenti in cui i protagonisti ricorrono a reminiscenze di True Blood o Twilight per decidere il da farsi o scambiano l’aglio con le cipolle nel tentativo di proteggersi.

    Il lavoro dei registi non si limita però al citazionismo spicciolo, ma anche grazie al contributo in sceneggiatura di Stephen Shields e Guy Busick danno vita a un prodotto di genere dalle atmosfere e dalle dinamiche cangianti, non lontano per toni dal cult Dal tramonto all’alba. Quello che inizialmente si configura come un innocuo thriller basato su un rapimento strizza poi l’occhio al giallo, lavorando sulle misteriose identità dei rapitori e sulla loro possibile doppiezza. Una parentesi effimera, che prepara il terreno a una decisa sterzata nei territori dell’horror e dello splatter, durante la quale si ricorre a un ricco campionario di schizzi di sangue, teste mozzate e giugulari recise. Una svolta accompagnata da particolari scelte di marketing, volte non a celare la vera natura della piccola protagonista ma a enfatizzarla in tutti i modi possibili, a partire dall’ampio materiale promozionale.

    La formidabile prova di Alisha Weir

    Abigail

    Punto di forza di Abigail è indubbiamente la formidabile attrice irlandese Alisha Weir (classe 2009), già vista recentemente in Matilda The Musical di Roald Dahl e Cattiverie a domicilio, ma in questo caso autrice di una prova di encomiabile maturità, in perfetto equilibrio fra falsa dolcezza e spaventosa malvagità, ma capace anche di sorprendenti squarci di umanità. Accanto a lei spicca la notevole performance di Melissa Barrera, già valida final girl nel franchise di Scream, da cui è stata allontanata ciecamente allontanata per il suo sostegno al popolo palestinese. Completano il cast l’ambiguo Dan Stevens, l’ingenua geek Kathryn Newton, il sempre inquietante Kevin Durand, un incerto Will Catlett e lo sfortunato Angus Cloud, prematuramente scomparso poco prima dell’uscita del film, dedicato alla sua memoria. Da segnalare infine le brevi apparizioni di Giancarlo Esposito e Matthew Goode, importanti soprattutto per l’atto conclusivo.

    Nel turbine di citazioni orchestrato dai registi (oltre a quelle già menzionate, spiccano i rimandi alla vasca di Phenomena e i parallelismi con Finché morte non ci separi, in un gioco di riferimenti interno alla filmografia di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett), sarebbe un peccato fare passare in secondo piano il pregevole lavoro sulle scenografie e sulle luci, che diventa centrale per la narrazione e per le possibili piste che si aprono con il passare dei minuti. Il risultato è un crescendo di suspense, mistero e paura, solo parzialmente indebolito da una comicità meno efficace rispetto ai precedenti lavori di questa coppia di autori, principalmente a causa della caratterizzazione grossolana ed eccessivamente grottesca di alcuni dei protagonisti.

    Abigail: è davvero la fine?

    Abigail

    Pur non rinnegando mai la sua natura puramente derivativa, Abigail sfocia in un finale soddisfacente e tutt’altro che scontato, che raccoglie i frutti del lavoro svolto in precedenza sugli stereotipi dei vampiri e sulla solidarietà femminile, già al centro dei due recenti capitoli del franchise di Scream. Un lavoro leggero ma mai sciatto, anche dal punto di vista editoriale: in epoca di remake sfornati a ripetizione e di universi condivisi, Abigail sembra più viva che mai, proprio come il famigerato Principe delle tenebre a cui è direttamente collegata.

    Abigail è disponibile dal 16 maggio nelle sale italiane, distribuito da Universal Pictures.

    Overall
    7/10

    Valutazione

    Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett continuano la loro esplorazione della commedia dell’orrore, dando vita a un racconto giocoso e citazionista al punto giusto, solo parzialmente indebolito da un umorismo non sempre a fuoco.

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