Il ritorno della Royal Navy. Tra limiti e ambizioni globali - Difesa Online

Il ritorno della Royal Navy. Tra limiti e ambizioni globali

(di Stefano Marras)
03/04/19

Dopo anni di continui e draconiani tagli che l'hanno privata persino delle sue portaerei, la celeberrima marina militare britannica sta lentamente ritornando sulla scena globale, intenta ad affermare il ruolo di potenza globale di una Gran Bretagna ormai in crisi di identità. Divisa internamente da molteplici nazionalismi (scozzese, irlandese, gallese e ora persino inglese) e avvitata in una crisi politica con l'Unione Europea, Londra pare riscoprire nell'uso della forza e in particolare nella sua marina militare un valido strumento per poter riaffermare la propria presenza sulla scena globale.

La Royal Navy infatti, data la natura insulare della Gran Bretagna, è non solo la garante ultima della difesa nazionale e dei traffici commerciali dai quali Londra dipende per la propria sopravvivenza e prosperità, ma è anche eccellente proiezione di hard e soft power. Compiti che i vascelli di sua maestà hanno sempre svolto con grande efficacia nel corso dei secoli, e che ora con il lento ma inesorabile ritorno di Russia e Cina nello scacchiere delle grandi potenze si fanno ancora più impellenti.

In termini più propriamente militari, il “revival” della Royal Navy, accompagnato in parte anche da quello di aeronautica ed esercito sebbene in misura più modesta e meno visibile, è costituito principalmente dal ritorno delle portaerei tra le unità in servizio; dalla creazione di nuove basi oltreoceano in grado di supportare logisticamente operazioni militari in territori distanti dalla madrepatria, e da una maggiore presenza in Estremo Oriente. Il tutto finalizzato ad un recupero delle capacità di proiezione di forza oltre che alla riaffermazione della Gran Bretagna quale grande potenza mondiale.

Per quel che concerne il ritorno delle due portaerei, non si tratta di una novità né di una conseguenza del mutato scenario geopolitico. Il loro commissariamento risale infatti al 20071 e rappresenta il naturale processo di sostituzione delle portaerei della classe HMS Invincible (quelle che combatterono nella Guerra delle Falkland) con unità più moderne e rispondenti alle nuove esigenze militari britanniche. Tuttavia, la crisi economica del 2008, oltre ad aver allungato i tempi di costruzione e aver messo in dubbio l'acquisto della seconda nave per un certo periodo, ha costretto l'allora governo di David Cameron ha dismettere in anticipo nel 2011 le due uniche portaerei allora in servizio.

Carenza in parte supplita dalle portaelicotteri HMS Illustrious sino al 2014 e dalla HMS Ocean sino al 2018, ma che nondimeno ne ha fortemente intaccato la capacità di lanciare complesse missioni militari all'estero per circa 10 anni. Almeno sino al 2020-21 e al 2023 quando le due portaerei HMS Queen Elizabeth e HMS Prince of Wales, finiti i periodi di prova, entreranno in servizio con una componente limitata di elicotteri e aerei da combattimento F-35. Bisognerà tuttavia aspettare almeno al 2025-26 per vederne imbarcata la componete totale2.

Con una stazza netta di 65.000 tonnellate e la capacità di ospitare sino a 40 aerei F-35 e oltre mille uomini, le due portaerei sono le più grandi unità mai costruite per la Royal Navy, nonché seconde a livello globale dopo quelle statunitensi e con più o meno lo stesso tonnellaggio della prima portaerei recentemente costruita in Cina, la Type 001A. In termini operativi, tramite la componente aerea imbarcata, le due portaerei consentiranno al Regno Unito di lanciare complesse azioni militari ad alta intensità combattiva in teatri operativi anche molto lontani dal territorio nazionale agendo in pratica come delle gigantesche basi aeree galleggianti. Potranno inoltre svolgere una miriade di altre missioni, quali supporto per operazioni anfibie imbarcando squadroni di elicotteri e di Royal Marines, e operazioni di soccorso in crisi umanitarie e climatiche.

Tuttavia, anche alla luce dei moderni sistemi ani-nave che ne limitano le potenzialità belliche, come i tanto temuti missili russi Kalibir, il loro vero potere risiede nello status simbolico. Le portaerei infatti sono una prerogativa delle grandi potenze, in quanto poche nazioni possono permettersi i fondi necessari per la costruzione e il mantenimento di questi giganti del mare; nonché le capacità ingegneristiche e marittime per poterle efficacemente sviluppare e utilizzare in complessi scenari operativi, in concerto con alleati e altre unità da guerra. Sono le “ambasciatrici” più efficaci per qualunque nazione in quanto ne simboleggiano le ambizioni e la potenza. Come affermato dall'ammiraglio della Royal Navy Mark Stanhope, “le nazioni che aspirano ad una strategica influenza internazionale possiedono portaerei”3. In questo modo la Gran Bretagna si pone prepotentemente tra le grandi potenze mondiali, già rafforzata da una storia marittima e militare che ne conferiscono sostanza e leggenda.

Ancor più rilevante è l'espansione delle installazioni militari britanniche per il globo a sostegno della marina, dismesse nel corso degli ultimi decenni in concomitanza con il declino della potenza internazionale britannica, e quindi anche di quella navale. Tuttavia, con la Brexit, il lento ritorno a un mondo multipolare e geopoliticamente più instabile, e alla maggiore importanza del continente asiatico in termini economici e strategici, Londra pare riscoprire le proprie ambizioni mondiali, oltre che la necessità di dotarsi di un'ampia rete globale di basi in modo da meglio difendere i propri interessi e l'ordine internazionale da lei parzialmente costruito (socio di minoranza degli Stati Uniti) e da cui ha enormemente beneficiato.

L'apertura più significativa è stata probabilmente quella riguardante la base HMS Juffair in Bahrain nel 2018, rappresentando così per la prima volta dal 1971 il ritorno di un'installazione permanente ad est del canale di Suez. Svolta decisiva e ulteriormente rafforzata da un accordo siglato tra il governo britannico e quello dell'Oman, che garantisce alla Royal Navy l'accesso al porto di Duqm nel Mar Arabico4. Altrettanto importante e non senza una certa dose di sorpresa da parte degli analisti in materia, l'annuncio da parte del ministro della difesa Gavin Williamson nel Dicembre del 2018 di aprire nuove basi militari nel mar dei Caraibi e nell'Oceano Pacifico, probabilmente nel Brunei o Singapore, dove sono già presenti rispettivamente un campo d'addestramento nella giungla per l'esercito britannico e una piccola stazione di rifornimento per le marina militare (Sembawang).

In aggiunta alle altre basi oltreoceano, la Royal Navy raggiungerebbe così una profondità strategica e capacità operative che poche altre nazioni possiedono, permettendole in questo modo di esercitare influenza nei maggiori teatri operativi del mondo. Necessità tattica ancora più impellente nel caso britannico, vista l'assenza di portaerei nucleari e dunque l'esigenza di basi d'appoggio in caso di missioni in territori lontani dai confini nazionali.

A conferire sostanza a tale irrobustimento militare vi è anche un incremento delle attività nei mari asiatici, esemplificato sia da un presenza record di navi da guerra che dal consolidamento di vecchie alleanze militari ormai in decadimento. Oltre la tradizionale importanza del Golfo Perisco per ragioni energetiche, la crescita di Cina e India e la difficile situazione con la Corea del Nord stanno infatti rendendo l'Indo-Pacifico il centro di gravità dell'economia e della geopolitica mondiale. Motivo per il quale gli Stati Uniti hanno lanciato durante l'amministrazione Obama il tanto famoso “pivot to Asia”, che sebbene in misura minore, anche il Regno Unito sta cercando di adottare. Soprattutto con l'imminente quanto caotico divorzio dall'UE e conseguente perdita di influenza politica (quantomeno quella che nel gergo delle relazioni internazionali viene definita “low politics”, riguardante principalmente affari di natura economica e diplomatica, contrapposta alla “high politics” associata più direttamente alla dimensione militare-conflittuale).

Il 2018 in particolare è stato eccezionalmente significativo dal punto di vista del “British pivot to Asia”, in quanto sono state inviate nella regione ben tre navi da guerra, costituendo il maggior dispiegamento dai tempi della guerra di Corea nel 19505.

Oltre ad una serie di esercitazioni e missioni congiunte tese a rinsaldare la sua vecchia rete di alleanze in Estremo Oriente, in particolare con il Giappone (principale potenza marittima asiatica insieme alla Cina) e con i membri del “Five Power Defence Arrangements”, Malasya, Singapore, Australia e Nuova Zelanda, gli obiettivi principali della Royal Navy hanno riguardato l'applicazione delle sanzioni internazionali alla Corea del Nord e il dispiegamento della nave da guerra HMS Albion in prossimità delle isole Paracelso (controllate dalla Cina ma reclamate anche da Vietnam e Taiwan) nel Mar Cinese Meridionale. Attirando in questo modo le ire della Cina che accusa Londra di essere entrata nel proprio territorio nazionale senza permesso, mentre i britannici affermano di aver agito in rispetto delle leggi internazionali.

Si tratta senza alcun dubbio di una forte e coraggiosa presa di posizione da parte di Londra nei confronti di Pechino e che la pone in questo modo quale uno dei “junior partner” degli Stati Uniti nella politica di contenimento della Cina. Posizione ulteriormente rafforzata da una serie di recenti esercitazioni congiunte con la marina statunitense nel Mar Cinese Meridionale, e dall'annuncio del ministro della difesa di un possibile dispiegamento della portaerei HMS Queen Elizabeth nello stesso mare, in un'operazione di “freedom of navigation” (FON). Annuncio che ha portato all'annullamento di un incontro già programmato del ministro dell'economia in Cina, con relativo dibattito nazionale sulla necessità e utilità di tale dispiegamento, chiamato dal Financial Times “gunboat diplomacy”, in ricordo dell'aggressiva politica estera dell'impero britannico.

Dubbi e criticità

Tuttavia, a questa maggiore assertività e intraprendenza militare, si riscontrano numerosi problemi che potrebbero inficiarne gli ambiziosi piani. La critica principale riguarda lo scarso numero di navi da guerra a disposizione rispetto agli obiettivi strategici dichiarati. In particolare il dispiegamento nei mari asiatici e l'introduzione delle due portaerei richiedono, secondo molti analisti incluso il sottoscritto, un maggior numero di unità navali per avere un impatto davvero significativo. Il rischio altrimenti è quello di operare marginalmente senza avere una decisiva influenza, oscurata dalle potenti marine militari di Stati Uniti, Cina, Giappone, Corea, India e Iran, capaci soprattutto per ragioni geografiche e demografiche di schierare un maggior numero di navi e aerei nella regione.

A complicare ulteriormente il quadro è paradossalmente la presenza delle due portaerei. Queste infatti, in casi di missioni ad alto rischio non possono operare da sole ma richiedono un'intera flotta di navi capaci di fornirle protezione aerea, subacquea e supporto logistico di vario tipo. Sarebbero necessarie almeno due fregate, due cacciatorpediniere, un sottomarino e una nave rifornimento per ciascuna portaerei. Su un totale di sei cacciatorpediniere, tredici fregate e sette sottomarini a propulsione nucleare attualmente in dotazione alla Royal Navy, e considerando che vi è sempre qualche unità in porto per lavori di manutenzione, si fa presto a notare che formati i gruppi di battaglia, vi rimarrebbero poche navi a disposizione per altre missioni o in sostituzione di eventuali perdite. Soprattutto in considerazione degli impegni presi da Londra di operare in tutti i maggiori mari e oceani del mondo, dall'Atlantico Meridionale al Nord Atlantico, e dal Mar Mediterraneo al Golfo Persico arrivando infine all'Indo-Pacifico. Una “strategia espansiva” che nella Seconda Guerra Mondiale, e non solo, si è rivelata fallimentare viste le difficoltà di operare in più scenari operativi contemporaneamente e le disastrose perdite subite ad opera della marina giapponese (in questo caso giocò un fattore determinante anche la sottovalutazione dell'efficacia delle forze aeree negli scontri navali oltre che della potenza nipponica), nonostante il maggior numero di unità a disposizione rispetto al presente.

La flotta della Royal Navy è semplicemente troppo piccola rispetto agli ambiziosi obiettivi globali prefissati e alle potenziali marine militari “nemiche” di Iran, Corea del Nord e soprattutto Cina e Russia, con le quali vi sono le maggiori possibilità di entrare in conflitto. Queste infatti non solo possiedono un maggior numero di navi da guerra, anche se in molti casi inferiori a quelle britanniche in termini di dimensioni e capacità operative, ma stanno anche investendo ingenti somme di denaro nello sviluppo di sistemi bellici tecnologicamente equivalenti a quelli occidentali se non superiori. Oltre i potenti missili antinave, come il già citato Kalibir o il cinese CM-401, ritenuti capaci di mettere fuori gioco unità come le portaerei, la Russia ha investito in modo particolare sull'applicazione del concetto di difesa AD/A2 (Anti Access/Area Denial), basato principalmente sulle batterie antiaeree S-300 e S-400, e ideato per impedire l'accesso allo spazio aereo anche ai più moderni velivoli militari occidentali di tecnologia stealth.

Tuttavia, al netto degli innumerevoli dibattiti sulle rispettive capacità tecniche e tattiche militari da impiegare – per esempio, per contrastare i sistemi missilistici russi, oltre la cibernetica e la guerra elettronica, si parla sempre più spesso di sciami di droni che se lanciati avrebbero l'obiettivo di mettere fuori uso essenziali apparecchiature quali radar o le stesse batterie di missili antiaereo –, in assenza di prove empiriche è difficile stabilire chi vincerebbe in un ipotetico scontro militare. Entrambi le parti infatti tendono, come naturale che sia, ad esagerare le potenzialità belliche dei propri sistemi d'arma. Andrebbe inoltre anche considerate l'esperienza e la qualità dei marinai, difficili da misurare ma di cui certamente i britannici non sono carenti.

Conclusioni

Dunque un quadro con tante luci e ombre, e reso ancora più complesso dalle incertezze legate alla Brexit e alla tenuta del Regno Unito in termini di unità nazionale. In ogni caso è evidente il maggior ruolo della Royal Navy nel rilancio della potenza britannica, anche se non è altrettanto chiaro quali siano i suoi limiti.

A parere di chi scrive, Londra possiede sicuramente le capacità per operare una marina militare a livello mondiale, ma per far ciò necessiterebbe di aumentare il bilancio della difesa almeno al 3% del PIL (come Stati Uniti e Russia d'altronde); operare in congiunta con le marine alleate e circoscrivere il proprio raggio d'azione in base ai propri mezzi e interessi nazionali ricordandosi che i tempi dell'impero britannico sono finiti e che comunque anche durante quel periodo il successo non era garantito, come dimostrano le tante sconfitte, soprattutto durante la Seconda Guerra Mondiale.

Di questi tre punti soltanto il secondo pare sia veramente preso in considerazione con l'inclusione di unità britanniche in gruppi navali francesi e viceversa, in linea con il trattato di Lancaster del 2010 tra le due nazioni6. Collaborazioni simili vi sono anche con la marina olandese e ovviamente quella statunitense, facendone in questo modo una forza militare sempre più internazionale e integrata con i sistemi di alcuni paesi alleati, ma allo stesso tempo dotata di una pregevole capacità di condurre autonome e complesse missioni in teatri operativi molto lontani dalla madrepatria.

Di certo un'ombra della Royal Navy del XVIII e XIX secolo, ma cionondimeno una delle più potenti marine militari al mondo, ingranaggio essenziale della NATO, insostituibile partner degli Stati Uniti, e massima espressione della volontà e potenza del Regno Unito.

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