Camillo Benso, conte di Cavour: letterario e pragmatico - Treccani - Treccani

di Claudio Marazzini*

Come molti altri piemontesi, Cavour aveva grande pratica del francese: le lettere e gli scritti appartenenti al primo periodo della sua vita sono tutti nella lingua d’oltralpe. Più avanti imparò anche l’inglese, che non era allora così comune come oggi. La sua apertura europea era dunque innegabile. L’italiano, però non gli fu mai troppo naturale e spontaneo. Nei suoi primi discorsi parlamentari si osservano forme letterarie di sapore arcaicizzante, come “puossi” ‘si può’, “di leggieri” per ‘facilmente’, “le commozioni politiche” per gli ‘sconvolgimenti politici’, “assevero” per ‘affermo’, “oppugnazione” per “azione militare di forza, attacco”, “precipitare gli indugi” per ‘prendere una decisione’, “pugnare” per ‘combattere’, “esercizi” per ‘manovre militari’, “dissesi” per ‘si disse’, “siavi” ‘vi sia’, ecc. Queste forme di sapore antico (che vanno diminuendo nel corso del tempo) tanto più colpiscono in un’oratoria che fa quasi sempre a meno della retorica (ridotta davvero a dosi minime), che poggia su dati e fatti, documentatissima e lucidissima nello svolgere il ragionamento, poggiandolo su elementi di natura politica ed economica, con un’attenzione speciale ai fatti internazionali e al quadro europeo, in un contesto in cui, per contro, gli avversari parlamentari paiono non di rado vaneggiare, volando molto in alto nell’esaltazione patriottica e umanitaria.

Studioso ma impacciato

Non si può certo dire che Cavour non conoscesse l’italiano, anzi lo dominava benissimo: però il rapporto con la lingua toscana fu, come per altri suoi conterranei, caratterizzato da una faticosa conquista di “volontà”. Tullio De Mauro, nella Storia linguistica dell’Italia unita, riporta la testimonianza della marchesa Costanza Arconati, secondo la quale Cavour, benché naturalmente buon oratore, in italiano era “impacciato”, come chi traducesse il proprio pensiero in una lingua artificiale. La marchesa, descrivendo nel 1850 il parlamento di Torino in un colloquio con Nassau William Senior, accenna alla situazione generale della conversazione italiana a Torino, ma si sofferma su Cavour, indicandolo come esempio emblematico:

Eccetto i Savoiardi, che qualche volta usano il francese, tutti i deputati parlano italiano; ma questo è per loro una lingua morta, nella quale non sono nemmeno mai stati abituati a conversare. Quasi mai perciò essi possono adoperarlo con spirito, e neppure correntemente. Cavour è per natura un buon oratore, ma in italiano è impacciato. Vi accorgete che traduce; così Azeglio; così tutti; fuorché alcuni avvocati che sono abituati a rivolgersi ai tribunali in italiano.

L’“italiana emancipazione”

Anche prima, comunque, il problema dell’italiano si era posto. Ne resta traccia indiretta in una lettera scritta a Cavour dal suo amico Severino Cassio. Cassio aveva frequentato l’accademia militare, da cui era uscito con il grado di sottotenente. Lasciò l’esercito nel 1833. Anche Camillo Benso aveva intrapreso inizialmente la carriera delle armi, da cui si era allontanato bruscamente nel 1831. La lettera in questione risale al principio dell’anno 1833, secondo il parere di D. Berti che la pubblicò. Si colloca dunque in un periodo in cui tra i giovani piemontesi aristocratici non erano rare le “conversioni” all’italiano, secondo il modello di Alfieri e secondo le indicazioni del trattato Dell’uso e dei pregi della lingua italiana di Galeani Napione, un libro pubblicato alla fine del Settecento, prima dell’occupazione francese del Piemonte, nel quale si esortava la corte a una completa e totale italianizzazione, esaltando i vantaggi e i meriti della lingua toscana rispetto a quella d’oltralpe. La lettera di Cassio, da inquadrare  in questo contesto, è una risposta a una missiva in cui Cavour (lo si ricava indirettamente proprio dalla risposta) aveva palesato i progetti per il futuro, rivelando di voler fare qualche cosa di importante per la propria nazione e dichiarando di avere intenzione di studiarne la lingua, la storia, i costumi, le leggi. L’obiettivo era (la lettera lo dice chiaramente) l’«italiana emancipazione», che si sperava non troppo remota.

Le protuberanze frontali

Del resto un altro documento epistolare, una missiva inviata a Camillo Benso dal fratello Gustavo, testimonia anch’essa il fervore delle discussioni tra i giovani piemontesi: vi si dice che Cesare Balbo «è furioso che tu ed io [cioè i due fratelli Cavour] non scriviamo in italiano. È un peccato, grida, che due giovani d’ingegno non vogliano servire la causa della loro nazionalità».

Cavour non rimase insensibile all’appello di Balbo, se espressamente indicò all’amico Cassio il proponimento di “italianizzarzi”. Cassio, da parte sua, concordando con questa buona intenzione, gli rispondeva così: «Io non saprei abbastanza preconizzare il nobile divisamento da te preso di volerti italianizzare». Si noti l’uso non comune, anzi piuttosto artificioso (innaturale, appunto), del verbo “preconizzare” nel senso di ‘celebrare con lodi’. Seguiva, dopo l’esortazione «Coraggio, Camillo», il programma dettagliato dei passi da compiere per accostarsi all’italiano: la via in salita passava attraverso lo studio del latino; il miglior dizionario raccomandato non era quello della Crusca, verso il quale anzi si palesava una certa antipatia, ma quello del nizzardo Alberti di Villanova, un’opera che godeva la meritata fama di essere ricca e innovativa, anche se le si rimproverava come grave difetto l’acquiescenza di fronte ai francesismi (quello dell’Alberti era insomma un vocabolario sgradito ai puristi, che avrebbero di sicuro preferito la Crusca veronese del Cesari o quella rivista dal Manuzzi). Il Cassio consigliava a Cavour la lettura di Guicciardini e anche del purista Botta, il piemontese che aveva descritto la rivoluzione americana e proseguito la Storia di Guicciardini. Invitava l’amico a imparare, sì, il lessico toscano di cui il Botta era ricco, ma a costruire i periodi con una sintassi modellata sull’«energia inglese» e sulla «lucidità francese», oltre che sul proprio personale ingegno, sulle «tue protuberanze frontali che sono, per mia fe’, assai sviluppare»: l’intelligenza di Camillo Benso era ben nota anche ai suoi amici più cari.

Italianizzato in “Cavorre”

Le raccomandazioni elencate, però, riguardavano la lingua scritta, perché, quanto alla conversazione, il consiglio era di «rimanere qualche tempo in Toscana, o alla peggio prendere un domestico toscano», alla maniera di Alfieri. Anzi, l’amico lanciava una speranzosa proposta: «Oh! Se potessimo andar insieme a passar alcuni mesi in Toscana; anzi se potessimo viaggiare tutta Italia […]».

Non sappiamo se e come Cavour abbia seguito questi consigli, ma la lettera mostra comunque l’artefice dell’Unità intento a meditare sul modo migliore di farsi italiano. Lo sforzo ebbe un buon risultato, se, come scrive il biografo Berti, Cavour «con tanta costanza perseverò, che giunse a parlarla [la lingua italiana], se non con facilità, certo con rara precisione e chiarezza».

Ci può far sorridere ricordare che Giovenale Vegezzi-Ruscalla, il quale propose l’italianizzazione della toponomastica valdostana, e che nutriva antipatia profonda per Cavour a causa della cessione di Nizza alla Francia, a suo giudizio un’«eresia etnografica» messa in atto in barba al principio di nazionalità, insinuò nel 1861 come fosse un peccato che il feudo del «gran propugnatore» dell’unità e indipendenza italiana si chiamasse Cavour alla francese, e suggerì di trasformarlo in “Cavorre”, sicuramente più nazionale.

Riferimenti bibliografici

D. Berti, Il conte di Cavour avanti il 1848, Roma, Voghera, 1886.

T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, III ed., 1972.

C. Marazzini, Piemonte e Italia. Storia di un confronto linguistico, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1984.

Id., Il Piemonte e la Valle d’Aosta, in L’Italiano nelle Regioni. Lingua nazionale e identità regionali, a cura di F. Bruni, Torino, Utet, 1992, pp. 1-44.

Id., Il Piemonte e la Valle d’Aosta, in L’italiano nelle Regioni. Testi e documenti, a cura di F. Bruni, Torino, Utet, pp. 1-54.

G. Vegezzi Ruscalla, Diritto e necessità di abrogare il francese come lingua ufficiale in alcune valli della Provincia di Torino, Torino, Fratelli Bocca, 1861.

*Claudio Marazzini è professore ordinario di Storia della lingua italiana nell’Università del Piemonte Orientale “A. Avogadro”, dopo aver insegnato nelle università di Macerata e di Udine. È professeur invité nell’Università di Losanna, membro della Società Italiana di Glottologia, socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino. Ha pubblicato molte opere relative alla storia della lingua italiana, alla questione della lingua, alla lessicografia, all’italiano in Piemonte, all’italiano letterario, alla storia della linguistica. Tra i suoi manuali, la fortunata Breve storia della lingua italiana (Bologna, Il Mulino, 2004) è ora tradotta anche in tedesco (Kurze Geschichte der italienischen Sprache, Stauffenburg Verlag_, Tübingen)._

© Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani - Riproduzione riservata