FEDERICO I, detto in Italia il Barbarossa, imperatore in "Enciclopedia Italiana" - Treccani - Treccani

FEDERICO I, detto in Italia il Barbarossa, imperatore

Enciclopedia Italiana (1932)

FEDERICO I, detto in Italia il Barbarossa, imperatore

Raffaello Morghen

Nato da Federico di Svevia e da Giuditta, sorella di Enrico il Superbo di Baviera, salì al trono di Germania, alla morte dello zio Corrado III, il 4 marzo 1152. Figlio di padre ghibellino ed erede delle tradizioni imperiali della casa di Franconia, imparentato, nello stesso tempo, da parte della madre, con la casa guelfa, egli riunì intorno a sé tutta la Germania feudale, prima divisa nella lotta fra le due potenti casate, e gettò le fondamenta dello stato nazionale germanico, subordinandone però le sorti, e questo forse fu il suo errore, all'ideale dell'impero universale. Salito al trono a circa trent'anni, già noto come valoroso condottiero, d'ingegno acuto e pronto, di carattere fermo e deciso talvolta fino all'ostinazione, animato da vivi sentimenti di giustizia, ma intollerante di ogni opposizione e impassibile fino alla crudeltà nelle repressioni, veniva a dominare la vita politica della Germania e dell'Europa in un momento particolarmente delicato, in cui, nell'evoluzione del concetto dello Stato medievale e dei suoi rapporti verso la Chiesa, e, in genere, nello spirito dei popoli si manifestavano i segni d'una crisi profonda.

Se, infatti, il concordato di Worms del 1122, dal punto di vista giuridico, era apparso come un compromesso fra papato e impero, in pratica aveva segnato l'affermarsi della piena indipendenza del papato e di conseguenza un aumento considerevole d'influenza dello spirito ecclesiastico nelle principali forme della vita politica del tempo. Così fra il sec. XI e il XII il papato aveva spiegato in Europa una vasta azione d'ingerenza negli affari dei singoli Stati e specialmente in Germania aveva tentato di assodare i frutti della vittoria morale riportata sull'impero. Il partito ecclesiastico, quivi dominante fin dalla morte di Enrico V, era stato infatti l'arbitro delle elezioni di Lotario di Supplimburgo e di Corrado III, e, pur tra gli alti e bassi di resistenze e concessioni alla volontà dei pontefici, i due imperatori si erano rivelati strettamente legati al partito che li aveva eletti, e impotenti a fare una politica indipendente. Se non che, privo di forze militari proprie, dotato per costituzione di una potenza politica dissolvitrice più che di una vera e propria attitudine costruttiva, il papato aveva finito per impegnare l'autorità della Chieza in particolari questioni politiche, portandola fatalmente a una serie d'insuccessi, e aveva scatenato contro la sua avidità di dominio temporale l'opposizione, sempre più fiera e intransigente, di tutte le nuove forze politiche e spirituali. In Germania, attraverso le umiliazioni e gli scacchi subiti da Lotario e Corrado, il sentimento nazionale della nobiltà laica, dopo aver fatto tacere le antiche cause di dissenso, veniva ad aver ragione delle mene del partito ecclesiastico per imporre, in Federico di Svevia, un re che non fosse più il servo di Roma; e in tutta l'Europa cristiana un nuovo spirito politico, religioso e filosofico univa idealmente Abelardo e Arnaldo da Brescia a Gerhoh di Reichersberg, ai Catari e agli Albigesi, l'impero agli Stati feudali in una rivolta contro il nuovo mondanizzarsi della Chiesa e contro la sua ingerenza negli affari temporali.

L'ascesa al trono di F. rappresenta la rivolta dello Stato feudale germanico contro Roma, e l'affermarsi del nuovo diritto dello Stato laico, sia pure ancora involuto nelle tradizioni gloriose, ma ormai sterili, dell'impero di Carlomagno e di Ottone I. Appena fu eletto re di Germania F. dette segni non dubbî del suo carattere e dei suoi intenti. Ristabilita la pace in Germania con la concessione della Baviera al potente Enrico il Leone, capo del partito guelfo e già duca di Sassonia, riaffermata decisamente l'influenza regia nella nomina dei vescovi con l'illegale elezione dell'arcivescovo di Magdeburgo, Vicmanno, egli volse l'animo a preparare una spedizione in Italia, dove lo chiamavano come arbitro delle sorti politiche del momento papato e comuni, e dove l'attirava l'antico miraggio che già aveva fatto naufragare, nella conquista del Mezzogiorno, la politica imperiale degli Ottoni. Il papato, rappresentato da Eugenio III, versava allora nelle condizioni più precarie, incapace di frenare ormai l'irresistibile slancio della potenza normanna nel Mezzogiorno, e angustiato in Roma dalla rivolta democratica dei borghesi e della piccola nobiltà, cui dava sempre nuovi entusiasmi la parola di Arnaldo da Brescia (v.).

Stretto dalla necessità, il pontefice pur protestando contro l'illecita ingerenza del re nell'elezione dell'arcivescovo di Magdeburgo, non aveva esitato a stringere con F., a Costanza (1153), un trattato d'alleanza nel quale gli offriva la corona imperiale, purché egli domasse Roma ribelle e abbattesse la potenza normanna. Nell'alta Italia i comuni (specialmente Lodi e Como), impegnati fieramente, nel primo fiorire della loro potenza, in una tremenda lotta di predominio, venivano inconsapevolmente a invocare, per la tutela dei proprî particolari interessi, l'aiuto di un potere per tradizione universale, che doveva poi fatalmente trovarsi in contrasto col nuovo diritto sorto dalle autonomie cittadine. Specialmente Lodi e Como, che più duramente sentivano il giogo della potente Milano, facevano giungere le loro implorazioni di aiuto al nuovo re contro l'implacabile rivale. Nell'ottobre del 1154 F. fece la sua prima comparsa in Italia, prendendo, secondo l'usanza, in Pavia la corona di re. Ma subito dovette accorgersi che non era facile impresa restaurare in Lombardia l'autorità imperiale. Se, in Roncaglia, Lodi, Como, Pavia, il conte di Monferrato ricorrevano a lui come a signore, Milano, dominante tutta la Lombardia, non dissimulava la sua ostilità verso il nuovo candidato all'impero. Limitatosi perciò a dare, per il momento, un primo tremendo saggio della sua forza con la distruzione di Rosate, di Galliate, di Asti, di Chieri, e specialmente della potente Tortona, che si arrese solo nell'aprile del 1155, dopo una resistenza rimasta famosa, F. s'affrettò verso Roma per cingere la corona imperiale. Sulla cattedra di Pietro era successo ad Eugenio III l'inglese Adriano IV (v.), di carattere fermo e deciso, prudente e astuto. Con l'interdetto egli era venuto a capo dell'ostinazione dei Romani, che avevano dovuto abbandonare Arnaldo da Brescia. La situazione del papato era così, specialmente in Roma, notevolmente migliorata. Incontratisi F. e Adriano IV a Nepi, in un atteggiamento di reciproca diffidenza, essi si sentirono subito nemici più che alleati, ma troppo avevano bisogno l'uno dell'altro per venire ad una rottura. Adriano sperava di aver ragione definitivamente, con l'aiuto imperiale, dei Romani e dei Normanni; Federico più di ogni altra cosa aveva allora necessità della corona imperiale. Così, benché riluttante, F. dovette piegarsi a prestare, secondo l'uso, l'ufficio di stratore al pontefice, e fece consegnare ai legati del papa Arnaldo da Brescia, che fu arso. Giunti a Roma, F. ebbe in S. Pietro la corona imperiale (17 giugno 1155), ma, scoppiato un tumulto contro i Tedeschi, fu costretto a combattere accanitamente con i Romani che non riuscì a domare. Con l'esercito stremato di forze, senz'altro aver acquistato che la corona imperiale e la dura esperienza di quanto fosse difficile dominare l'Italia, dovette pensare ben presto a tornare in Germania, dove già la sua lunga assenza aveva scatenato la rivolta di alcuni vassalli. Si affrettò così al ritorno lasciando del tutto deluso il pontefice che non potendo più contare sull'aiuto imperiale doveva necessariameme volgersi ad accordi con gli odiati Normanni.

In Germania F., con le armi e con una politica abilissima, riuscì ad affermare la sua autorità, pur facendo concessioni ai più grandi vassalli. Rafforzò anche la sua posizione personale nel regno, nominando suo fratello Corrado conte palatino del Reno, e acquistando (giugno 1156) per mezzo del matrimonio con Beatrice, erede del regno di Borgogna, il dominio di quella regione. Ma il regno di Germania non bastava a F., il quale aveva pagato con gravissime concessioni, a danno della stessa autorità regia, l'aiuto che i suoi grandi vassalli dovevano prestargli per colorire i suoi disegni di dominio universale. E la lotta, a cui s'apprestava, appariva tutt'altro che lontana. Contro l'universalismo dell'impero si levava da una parte il particolarismo delle autonomie comunali, potenti espressioni di tutta una nuova vita rigogliosa e incoercibile, dall'altra l'universalismo teocratico di Roma armato della sua immensa autorità morale e delle arti politiche della sua esperienza più che secolare. Alla dieta di Besançon, nel 1157, l'artificiosa interpretazione di una lettera papale portata all'imperatore dal cancelliere della Chiesa Rolando Bandinelli, che fu poi Alessandro III, aveva già dato luogo a un malinteso, che, spiegato in seguito, aveva però costituito la prima avvisaglia della lotta che doveva scoppiare fra le due podestà di lì a poco. Nella Lombardia Milano aveva riedificato la fedele Tortona e si preparava a difendere la sua libertà e la sua potenza. Sceso di nuovo in Italia nel 1158, F. si rivolse subito a fiaccare la resistenza di Milano, che dovette arrendersi il 7 settembre 1158 e pagare la sua sconfitta con una ingente multa, con ostaggi, col giuramento di fedeltà e col sottoporre all'approvazione imperiale l'elezione dei suoi consoli. Dopo aver così riaffermata la sua autorità in tutta l'Alta Italia, F. tenne nel novembre, sui piani di Roncaglia, quella famosa dieta, nella quale solennemente rivendicò all'impero, con la Constitutio de regalibus, tutti quei diritti sovrani che illecitamente nuove forze politiche avevano usurpato, specialmente durante la lotta per le investiture. Tutti, anche i rappresentanti dei comuni, riconobbero la legittimità delle rivendicazioni imperiali, ma sul campo concreto delle reciproche relazioni, se non nella sfera delle discussioni dottrinali, si rivelarono ben presto, d'ambo le parti, illusioni e contraddizioni, che mettevano in evidenza l'intimo e insanabile contrasto esistente fra impero e comuni. I comuni, pur riconoscendo teoricamente l'impero come unica fonte di diritto pubblico, s'illudevano di poter conservare le autonomie di cui godevano fin dal tempo di Enrico V; e credevano che F., rivendicando i diritti, si sarebbe accontentato dei proventi finanziarî di essi. D'altra parte l'imperatore dava involontariamente la sanzione del suo riconoscimento alle costituzioni cittadine perché non le aveva abolite, ma solo aveva sottoposto all'impero la nomina delle loro magistrature. L'accordo che sembrò regnare a Roncaglia poggiava perciò su un malinteso. E bastò che i primi podestà imperiali esercitassero nelle diverse città la loro arbitraria prepotenza, perché la rivolta scoppiasse. Insorse così Genova, e perfino Rainaldo di Dassel, il potente concelliere di Federico, e Ottone di Wittelsbach dovettero fuggire da Milano in rivolta.

Intanto F. procedeva verso il sud e s'impadroniva dei beni matildini, che dava in feudo a Guelfo VI di Baviera, rompendo così l'ultima possibilità di un accordo con Roma. Adriano IV faceva del resto manifestamente causa comune con gl'insorti e specialmente con Milano, messa al bando dall'impero. Già si volgeva poi ad accordi con il normanno Guglielmo I contro F., quando improvvisamente lo colse la morte (i ottobre 1159). F. stimò giunta l'occasione di risolvere con un colpo di mano la contesa con la Chiesa, e contro Rolando Bandinelli, eletto pontefice col nome di Alessandro III, fece eleggere antipapa il cardinale Ottaviano che prese il nome di Vittore IV. Scoppiò così lo scisma. Per dare una sanzione di legittimità all'elezione dell'antipapa, nel febbraio 1160 F. convocò a Pavia un concilio e citò ambedue i pontefici perché venissero a esporre in sua presenza le prove della loro legittimità. Ma Alessandro III non si piegò al giudizio imperiale, e la conferma avuta da Vittore IV dal concilio, in cui erano presenti quasi solo i vescovi della Germania, non aggiunse molto alla sua debole autorità. Dopo il concilio F., distrutta la città di Crema (gennaio 1160), si volse contro Milano, che dopo lungo assedio eroicamente sostenuto, dovette arrendersi per fame nella primavera del 1163. Spietate furono le condizioni della resa: i cittadini dispersi in quattro borghi aperti distanti alcune miglia da Milano nella direzione dei quattro punti cardinali, le mura e le torri abbattute, i quartieri della superba città abbandonati al saccheggio, alla distruzione, all'odio delle città rivali Lodi, Como, Pavia, Cremona, Novara.

F. era giunto così all'apogeo della sua potenza e credette allora vicino il momento della completa restaurazione della potenza imperiale. Morto il 20 aprile 1164 Vittore IV, gli sostituiva Guido di Crema, che prese il nome di Pasquale III, e da lui fece canonizzare Carlomagno, di cui aveva esumato le ossa in Aquisgrana. Alessandro III intanto, fuggiasco prima in Francia, dopo esser riuscito a sventare un tentativo d'accordo fra Luigi VII e l'imperatore, accordo che l'avrebbe messo alla mercé del suo nemico, era ritornato a Roma chiamato dai Romani. Contro Roma si mosse allora F. insieme con l'antipapa: sconfitti i Romani a Monteporzio (1167), F. riuscì a impadronirsi di S. Pietro, dopo un'aspra lotta in cui andarono devastate e incendiate anche alcune chiese. Alessandro III si rifugiò presso i Normanni e l'imperatore poté insediare l'antipapa sulla cattedra di Pietro e riceverne la corona imperiale, ma anche gli effetti di questo nuovo trionfo si mostrarono labilissimi quando una violenta epidemia, scoppiata nell'esercito imperiale costrinse F a riprendere in fretta la via del ritorno tra le rivolte delle città dovunque mal dome, trascinandosi dietro i resti d'un esercito decimato e i cadaveri dei suoi maggiori vassalli periti nell'epidemia.

Intanto la rivolta aveva riunito, sotto gli auspici di Venezia e di Bisanzio, molte città dell'Italia settentrionale in una lega a capo della quale era Verona. Ad esse si unirono, in un secondo momento, anche Padova, Bologna, Piacenza, Cremona e molti comuni lombardi. Nel monastero di Pontida (7 aprile 1167) fu giurato il patto della lega. Si sarebbe ricostruita Milano e i confederati avrebbero combattuto per il riconoscimento di quelle libertà che, salvi i diritti dell'impero, erano state loro riconosciute da Enrico V. Alessandro III era acclamato alto protettore della lega e in suo onore fu chiamata Alessandria (v.) la nuova città eretta fra la Trebbia e il Tanaro. Intanto anche nella Germania il partito ecclesiastico, preoccupato più che altro degl'interessi della chiesa germanica, gravemente compromessi dallo scisma, incominciava a dare non dubbî segni di malcontento. Molti vescovi non volevano ormai più riconoscere l'antipapa; per altre ragioni anche la nobiltà laica abbandonava l'imperatore. Gl'interessi particolari dei singoli Stati feudali, resi potenti dallo stesso F., non permettevano più ai grandi vassalli dell'impero di logorare le loro forze in Italia, mentre troppi nemici dovevano ancora combattere per assodare la potenza di recente conseguita. Fra questi, uno dei più potenti, Enrico il Leone che, acquistata nella Germania una posizione di quasi completa indipendenza di fronte all'imperatore, aveva iniziato una vasta opera di penetrazione e di conquista contro i Danesi e gli Slavi ed era sempre impegnato in una lotta diuturna contro i suoi vassalli sassoni, rifiutava ora a F. quell'aiuto che gli aveva concesso nelle altre spedizioni. Sprezzante di tutte le difficoltà, deciso a sottomettere ad ogni costo i comuni lombardi, F. scese di nuovo in Italia nel 1174. Pose l'assedio ad Alessandria, ma la città resistette. La guerra si trascinò quindi ancora per qualche tempo tra piccoli fatti d'arme e trattative di pace, iniziate a Montebello con la mediazione dei Cremonesi e poi fallite, finché, il 29 maggio 1176, s'impegnò una decisiva battaglia campale presso Legnano, dove l'esercito imperiale venne pienamente sconfitto. L'imperatore stesso, pianto come morto per tre giorni, a stento poté sfuggire al nemico per rifugiarsi tra le mura dell'amica Pavia.

Con la sconfitta, la rivolta, che covava nel clero germanico, scoppiò apertamente per imporre all'imperatore la riconciliazione col pontefice di Roma, ma F. per molti mesi tenne duro, volgendo tenacemente il pensiero alla rivincita. Finalmente, stretto dalla necessità, dovette cedere e iniziò trattative con il pontefice, tentando di staccarlo, con politica abilissima, dai suoi alleati. Tenutosi a Venezia un congresso per le trattative di pace, si conchiuse, il 21 luglio 1177, un trattato tra impero e papato col quale F., in sostanza, riconosceva come pontefice Alessandro III e segnava con i comuni lombardi una tregua di sei anni. Migliorata la sua posizione con la pace di Venezia, l'imperatore si affrettò a ritornare in Germania, dove Enrico il Leone era ormai entrato in aperta rivolta. Con una lotta aspra e lunga F. riuscì a battere il fiero duca, distruggendo per sempre la potenza della casa guelfa, e, riaffermata la sua autorità anche in Germania, il vecchio imperatore si diede a ritessere le fila della sua grande illusione politica: l'impero universale. Morto Alessandro, egli avviò col successore Lucio III trattative per risolvere l'annosa questione dell'eredità dei beni matildini, e tentò di piegare il papa alla sua volontà con un progetto di finanziamento della Chiesa da parte dell'Impero, ma il pontefice declinò l'offerta. Spirati poi i termini della tregua, nel 1183, dopo laboriose trattative, si firmò a Costanza la pace tra i comuni e l'imperatore. In essa F. riconosceva le libertà già godute dai comuni, esigendo solo un tributo e il giuramento di fedeltà delle magistrature liberamente elette. Pareva che con la pace di Costanza dovesse considerarsi come completamente fallita la politica d'influenza in Italia, perseguita dall'imperatore in 30 anni di lotte, quando, nel 1184, egli riusciva a riconquistare in Italia la potenza perduta, col matrimonio di suo figlio Enrico con Costanza d'Altavilla, zia di Guglielmo il Buono ed erede del regno di Sicilia e di Puglia.

Irritato il papato per il successo imperiale, riardeva già la lotta fra le due podestà, ma, caduta nel 1187 Gerusalemme in mano agli infedeli, l'interesse per la crociata sopì per un momento la lotta tra i due grandi rivali. Anche F. prese la croce, morì però prima di arrivare in Terra Santa, in Cilicia, annegando nel fiume Salef dove aveva voluto prendere un bagno (10 giugno 1190).

La figura di F. occupa nella storia di Europa e della Germania un posto veramente notevole. Se come assertore degli ideali dell'impero egli doveva soccombere nella lotta contro il papato e i comuni, come rappresentante dei diritti dello stato di fronte alla Chiesa, e dello spirito di autonomia del regno di Germania, egli precorse tempi nuovi. Anzi la Germania deve a lui quel particolare assetto in una confederazione di principi, che mantenne fin quasi all'età moderna, e se le autonomie concesse ai vassalli per le necessità della sua politica imperiale furono di danno al consolidarsi dell'autorità regia, le sue doti personali di guerriero e di politico gli assicurarono sempre nell'Europa e nella Germania un'autorità indiscussa, mentre la fervida ammirazione per le sue imprese valse a esaltare potentemente il sentimento nazionale del suo popolo che vide in lui una delle più belle affermazioni dell'eroe germanico. Della sua figura s'impadronì perciò ben presto la leggenda e la saga germanica la quale cantò che egli giace addormentato in un antro segreto nel monte di Untersberg presso Salisburgo o Kyffhäuser in Turingia, pronto a risorgere e a combattere per la grandezza della Germania, non appena lo svegli dal sonno fatato il rumore della spada cadutagli di mano.

Fonti: Valore fondamentale per la storia del Barbarossa hanno i Gesta Friderici I di Ottone di Frisinga, zio dell'imperatore, interrotti al 1158 e continuati fino al 1160 dal Rahenwin, cappellano di Ottone, per ordine dell'imperatore stesso. Notizie più o meno importanti si trovano inoltre nella Chronica Regia Coloniensis, nel Chronicon Burchardi Urspergensis, nei Monumenta Erphesfurtensia, nei Gesta Friderici I imperatoris di Goffredo da Viterbo, nella grande cronaca di Francesco Pipino e specialmente nella cronistica municipale italiana del sec. XII, nella quale vanno ricordati la Historia Friderici I di Ottone e Acerbo Morena, cittadini lodigiani, che narrano le imprese dell'imperatore in Italia con esattezza di testimoni oculari e con una imparzialità cui non fa velo la simpatia per la causa imperiale e l'odio per Milano, e i Gesta Friderici I imperatoris in Lombardia di anonimo milanese di tendenze decisamente antimperiali. Tutte queste fonti sono pubblicate in buone edizioni nei Mon. Germ. Hist., Script. Rer. Germanicarum. Pure ad anonimo, probabilmente di Bergamo, dobbiamo l'importante poema Gesta di Federico I in Italia, scoperto e pubblicato da E. Monaci in Fonti per la Storia d'Italia (I, Roma 1887), e il De ruina civitatis Terdonae pubblicato da A. Hofmeister in Neues Arch., 1922. Per gli atti ufficiali della curia imperiale, vedi anche Regesta Imperii (edizione I. F. Böhmer e Ficker), V, e i Regesta Pontificum Romanorum di Ph. Jaffé.

Bibl.: Tra le numerose opere che, per incidenza o di proposito, trattano del Barbarossa ricorderemo; W. Giesebrecht, Geschichte der deutschen Kaiserzeit, Lipsia 1880-1895; H. Prutz, Kaiser Friedrich, I., Danzica 1871-1874; H. Simonsfeld, Jahrbücher des deutschen Reichs unter Friedrich I., Lipsia 1908. Fra le opere italiane, vedi la monografia di Ugo Balzani, purtroppo incompiuta: Italia, Papato e Impero nel sec. XII, Messina 1930.

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