Il gusto delle cose, del vietnamita naturalizzato francese Ahn Hung Tran verrà probabilmente ricordato più perché ha scippato la candidatura francese all’Oscar al più qualificato Anatomia di una caduta (che si è poi accaparrato in autonomia l’oscar per la miglior sceneggiatura originale) che per il suo contenuto, i suoi meriti o demeriti.

Il regista, che trenta anni fa aveva incantato il mondo con un’altra pellicola su sfondo culinario, Il profumo della papaya verde, qui si misura con un personaggio rappresentativo della gastronomia francese del XIX secolo e spende la maggior parte del film dentro la cucina e tra i fornelli tra cui si muovono con la grazia e la perfetta armonia di una coppia ben affiatata Dodin e la sua cuoca e amante Eugenie. La loro passione reciproca, che si nutre più di gesti che di parole e ha i tempi dilatati della cucina (e del cinema di una volta) si traduce in una drammaturgia molto classica a priva di grandi scossoni e conflitti, che finisce per sfiorare l’estetica pura.

“La felicità è desiderare quello che già si ha”. Questa frase di lancio del film, che descrive più la beatitudine del paradiso che l’esperienza dei comuni essere umani, sembra applicarsi bene ai due protagonisti, la cui preoccupazione principale è trovare gli ingredienti giusti per la prossima smisurata e sofisticatissima cena, ma un giorno è la morte a irrompere in questo giardino dell’Eden dei sapori e a presentare il conto.

Eugenie non ha mai voluto sposarsi, lo farà, quasi costretta, consumandosi poi nel giro di poco senza una protesta, ma questo manderà in crisi Dodin, che, scandalo quanto un sacerdote che perda la fede, perde addirittura il gusto del cibo. Sarà forse ancora l’amore per la cucina, trasmesso da Eugenie a una nuova generazione, a riportarlo di nuovo alla vita.

Il film farà felici gli appassionati della gastronomia e di un certo modo di fare i film in costume, però siamo sicuramente molto lontani dalla complessità anche spirituale di un capolavoro come Il pranzo di Babette e alla lunga anche il fascino per un modo di trattare il cibo con tempi, ritmi e sacralità lontani dall’oggi, finisce per trasformarsi in noia e le oltre due ore della pellicola si fanno sentire, a dispetto delle ottime interpretazioni dei protagonisti.

Laura Cotta Ramosino

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