Stiamo pur sempre parlando di un uomo-mito, fra i più famosi italiani nel mondo, il leggendario Enzo Ferrari, scomparso nell’ormai lontano 1988, ma più vivo che mai: in questi giorni un film lo celebra al cinema, la gente ne parla, due biografie ne raccontano le imprese. Buone e meno buone, questo è il punto. Il fatto che sia stato un uomo tormentato è quasi un luogo comune. Che abbia sfoggiato mille contraddizioni, pure. Ma un libro scritto da un americano, appena uscito (con incredibile ritardo) in Italia, ne smonta un po’ l’agiografia corrente e arriva al limite del dileggio: “Ferrari? Un uomo rozzo che ruttava e scoreggiava davanti agli ospiti”, riferisce Brock Yates nel libro Ferrari - L’uomo, l’auto, il mito. Attacchi anche un po’ tipici di un certo mondo anglosassone che non accetta mai fino in fondo gli italiani di successo.

Ma c’è di più: dal cinismo riservato ai suoi piloti, trattati senza tanti complimenti, all’autentica ossessione per il gentil sesso, che lo portò a conquiste quasi compulsive, Yates racconta che dopo la morte in pista di un suo pilota – Wolfgang von Trips – il commendatore arrivò a dire: "Penso di aver fatto un buon lavoro nel fingere tristezza". E si affrettò a consolare la vedova di un altro pilota, la bellissima Fiamma Breschi, vivendo con lei un’intensa storia d’amore che fece epoca. Del resto, con la moglie Laura Garello non ebbe mai, se non nei primi anni, un rapporto felice. Si concesse una relazione parallela con Lina Lardi, che portò alla nascita del figlio Piero, attuale vicepresidente Ferrari e riconosciuto dal padre solo dopo la morte della moglie. A dimostrazione, comunque, che Ferrari rispettò fino alla fine le volontà e la sensibilità della consorte, da cui non si separò mai.

"Non possiamo giudicare quest’uomo senza tener conto del periodo in cui ha vissuto: all’epoca morivano quattro o cinque piloti all’anno, per molto meno oggi le corse sarebbero interrotte. E Ferrari ripeteva spesso che i piloti sono consapevoli di rischiare la vita, per cui presunte battute, mai provate, al limite potevano servire a scaricare nervi e tensione", spiega Leo Turrini, autore di una biografia imponente sul fondatore di Maranello, Ferrari. Un eroe italiano, da poco ristampata da Longanesi. "Di sicuro, per lui, prima veniva la macchina e poi il pilota, perché, ripeteva: gli uomini se ne vanno, la fabbrica resta", spiega Umberto Zapelloni, giornalista esperto di Formula 1. Un pilota non faceva in tempo a farsi male, che Enzo detto il Drake (il corsaro) pensava immediatamente a sostituirlo, senza nemmeno lasciargli il tempo di riprendersi. Accadde ad Andrea de Adamich, per esempio, e a Niki Lauda, che se la legò al dito e mandò Ferrari a quel paese.

Eppure, il film attualmente in sala, che riprende il libro in questione, sia pure nel trattare il solo 1957, ha ricevuto il gradimento di tutti, compreso quello del figlio di Enzo, Piero. Così come, è vero, Ferrari era un instancabile conquistatore di donne, ma alla moglie riconobbe sempre il merito di aver salvato l’azienda vendendo i suoi gioielli e restando al suo fianco; anche nella gestione della ditta e dopo il dolore per la morte del loro unico figlio, Dino, scomparso a soli 24 anni nel 1956.

Enzo Ferrari e la perdita del figlio Dino

Impossibile incasellare una vita incontenibile come quella del costruttore modenese, un personaggio che di sé diceva: "Sono uno che sognava di essere Enzo Ferrari". Ce l’ha fatta, ma verso la fine dei suoi giorni si corresse: "Ho raggiunto i miei obiettivi, però nella mia vita avrei voluto soffrire di meno". Disse che almeno una volta pensò al suicidio: quando i medici gli fecero capire che per il figlio, malato di distrofia muscolare, non c’era più nulla da fare.

Anche da imprenditore gli è stato più volte rinfacciato di essere esigente e autoritario, uno che non concedeva le ferie volentieri, eppure non si è mai trovato un meccanico o un dipendente che ne abbia parlato male, e non era nemmeno interessato al colore politico dei suoi operai: "Basta che sappiano fare il loro mestiere". E non poche volte aiutò i suoi operai a curare i figli malati. Difficile emettere verdetti o sentenze su Ferrari, "uomo proiettato nel futuro, ma dalle radici profondamente ancorate al passato", come spiega Turrini. Ci racconta Arturo Merzario: "A me, che ero un suo pilota, ha voluto bene, sentivo il suo affetto e che era in pena perché correvo e avevo la moglie a casa". Pianse per la morte in pista del prediletto Gilles Villeneuve. Si difese e fu assolto nel processo che seguì all’incidente in cui Alfonso de Portago perse il controllo della macchina durante la Mille Miglia del 1957 (ne parla il film in sala) e falciò nove spettatori, di cui cinque bambini. Dopodiché, il pilota americano Phil Hill osservava che "Ferrari si preoccupa più delle macchine che di chi le guida".

Alle donne, si è detto, andava quasi peggio, perché "per lui erano oggetti o poco di più, simboli da portare a letto, tacche sulla cintura di uno schiavo del desiderio", come scrive Yates. A un collega che vantava tremila conquiste, rispose convinto: "Solo tremila?". E in famiglia si chiedevano se per lui venisse prima il sesso, magari da procacciarsi con giovani signorine al Grand Hotel di Modena, o le automobili. Resta complicato, insomma, comprendere e spiegare un soggetto simile, che da giovane faceva il pilota spericolato e poi temeva di prendere un aereo o l’ascensore. Non a caso, nel 1969, quando andò a Torino per siglare un accordo di spartizione della sua ditta con la Fiat di Gianni Agnelli, chiese all’Avvocato di scendere al piano terra per firmare l’intesa, perché di salire all’ottavo piano non aveva la minima intenzione.


Questo articolo è comparso su Gente n. 1, in edicola dal 5 gennaio 2024

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