Will è un ragazzo ventenne che vive in un sobborgo di Boston e lavora come inserviente all’università. Orfano, povero e disadattato, possiede il dono di essere un genio della matematica. Un professore universitario lo nota e, per valorizzare il suo talento, lo affida ad uno psicologo suo amico che ne aggiri l’ostilità caratteriale.

“La mente non è un vaso da riempire – scriveva lo storico Plutarco nel primo secolo dopo Cristo – ma un legno da far ardere”. La bellissima mente di Will Hunting, ragazzo ribelle e introverso che vive nella periferia di Boston, brilla di luce propria. Will è un genio dotato di un talento puro, donatogli da madre natura, che gli permette di avere una dimestichezza incredibile con complicatissime formule matematiche ed una memoria prodigiosa. Per Will, tuttavia, studiare è un gioco, un modo per divertirsi, utile per non essere arrestato (ogni qual volta finisce davanti al giudice, dopo una rissa o un atto di teppismo, riesce ad attaccarsi alla Costituzione degli Stati Uniti e ad evitare l’incarcerazione) e per rompere le uova nel paniere a qualche pomposo studente di Harvard. Will lavora in una delle più prestigiose università scientifiche del mondo, il Massachussets Institute of Technology, ma come inserviente: il suo contributo all’umanità è quello di lavare i pavimenti dopo l’orario delle lezioni. Un compito “onorevole”, come si dice in un dialogo del film, ma forse non quello per cui Will è nato, non quello per cui ha ricevuto questo dono. E forse non è solo per gioco che Will viene a capo di un problema matematico difficilissimo che un importante professore dell’università, Gerald Lambeau, ha lasciato da risolvere ai suoi studenti nel corridoio dell’istituto. Forse non è nemmeno una coincidenza che Lambeau si accorga di Will mentre quest’ultimo scrive alla lavagna. Può il destino dell’uomo essere spiegato in un’equazione? Travestito da dramma sociale, soprattutto nelle parentesi in cui si sviluppa la storia sentimentale del proletario Will con una ricca e raffinata studentessa del M.I.T., il film cuce addosso ai personaggi di Will e di Sean – lo psicologo a cui Lameau affida il ragazzo – una storia sul bisogno di paternità e di figliolanza: il ragazzo riottoso che rifiuta ogni tipo di aiuto è stato deluso dalle persone che avrebbero dovuto volergli più bene (i genitori, che prima di lasciarlo orfano ne hanno tormentato l’infanzia); lo psicologo schivo e nascosto dal mondo, invece, ha visto interrompersi la storia della sua famiglia (portando negli occhi e sulle spalle tutta la tristezza per la perdita di sua moglie, stroncata da un tumore). Dopo essersi studiati, provocati e affrontati, Will e Sean si riconoscono, imparano a fidarsi l’uno dell’altro (il personaggio di Sean viene introdotto proprio mentre spiega ai suoi studenti di psicologia il concetto di fiducia) e solo così escono entrambi dalla gabbia in cui si erano rinchiusi. Sean riesce a condurre Will alla scoperta di sé, senza costringerlo ad ogni costo (come Lambeau, in buona fede, avrebbe voluto) ad abbandonare i suoi amici e la sua città per accettare il lavoro di qualche grossa corporation alla ricerca di cervelloni, ma – più giustamente e nettamente – mettendolo in condizione di fare le scelte giuste. Sean porta un ragazzo che si ciba di pagine di libri e di formule astratte a fare i conti con il suo futuro, con il suo destino e con quelli che sono i suoi desideri più reconditi ma anche più autentici. Così la “beautiful mind” di Will, vaso già pieno, inizia anche ad ardere, e questo fa di Sean un vero maestro, una vera figura paterna e – quello che dovrebbe essere un bravo psicologo – un perfetto conoscitore della mente umana.

La libertà delle nostre scelte – suggerisce l’arco drammatico di entrambi i personaggi – dipende anche da quanto siamo disposti a conoscere la realtà, a farci illuminare da essa, a scrutare (e a farci scrutare) nel profondo del nostro animo. Efficace, in questo senso, il discorso sulla conoscenza del mondo con cui Sean costringe Will a dismettere il suo atteggiamento difensivo, sfidandolo a vincere le sue paure per andare alla scoperta del reale (“Sai tutto su Michelangelo ma scommetto che non sai che odore c’è nella Cappella Sistina”), come anche quello sull’amore coniugale, in cui lo incoraggia a superare la sua ritrosia con la ragazza che ama – e il suo timore di rovinare qualcosa di perfetto – indicandogli nella condivisione delle rispettive imperfezioni tra marito e moglie il segreto dell’intimità e dell’unicità di un rapporto di coppia.

Nell’anno di Titanic, questo piccolo grande film (a metà strada tra il cinema indipendente e il mainstream hollywoodiano), portò a casa gli Oscar per la miglior sceneggiatura originale (scritta da Matt Damon e Ben Affleck, che proprio con Will Hunting si affermarono come attori) e per il miglior attore non protagonista (a cogliere l’attimo fuggente fu Robin Williams). Ottimo tutto il cast, in cui – oltre ai due protagonisti – spiccano Stellan Skarsgård (l’intellettuale malinconico e tormentato, quasi un “Salieri dei numeri”) e l’atipica signorile bellezza di Minnie Driver, stranamente poco utilizzata da Hollywood nel decennio successivo.

Raffaele Chiarulli