Tra le nuvole Recensione

Tra le nuvole, recensione del film di Jason Reitman con George Clooney

20 gennaio 2010
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Dopo il successo di Juno, Jason Reitman torna al cinema con il suo ultimo film: celebratissimo oltreoceano, Up in the Air è una commedia agrodolce che attraverso il protagonista George Clooney mescola sociale e personale della realtà contemporanea. Ma l’operazione riesce solo a metà.

Tra le nuvole, recensione del film di Jason Reitman con George Clooney

Tra le nuvole - la recensione

Ryan è un tagliatore di teste: lavora per un’agenzia specializzata nel comunicare ai dipendenti delle aziende il loro avvenuto licenziamento. Efficacissimo nel suo mestire, Ryan vive una vita volutamente solitaria e “up in the air”: viaggia per oltre 300 giorni l’anno e la sua casa sono gli aeroplani e gli alberghi dove si ferma a dormire. Teorico di un’esistenza che debba rifuggire da ogni legame materiale e personale, vedrà la sua pratica perfetta venire incrinata dal progressivo innamorarsi di uno spirito libero e viaggiatore come lui e dalla convivenza forzata con una giovane collega da addestrare, fautrice di una proposta mirata ad effettuare i licenziamenti via internet che obbligherebbe quindi Ryan a smettere di viaggiare e mettere le radici che non vuole. E le crepe si faranno sempre più profonde, fino a divenire cicatrici sul suo animo.

Tra le nuvole è un film dal doppio volto. O meglio, un film che indossa una maschera: una maschera che tenta di nascondere facendo finta di gettarla via in un prefinale che anticipa quello vero, dove viene reindossata per far credere che sia il suo vero volto. Perché Jason Reitman, per metà abbondante del suo film, gioca tutte le sue carte come si deve: apre con ottimi titoli di testa, caratterizza bene il suo protagonista (un George Clooney forse mai così carygrantesco), regala spessore a lui, al suo solitario e compiaciuto viaggiare, trasmette la freddezza asettica di quello stile di vita e di quel lavoro attraverso una regia essenziale che si appoggia intelligentemente a superfici, riflessi, architetture aeroportuali e suburbane di quell’America rigorosamente di provincia che viene sorvolata e visitata tangenzialmente da Ryan. Persino l’elemento della “critica sociale”, del dramma della crisi economica e dei licenziamenti, pur tutt’altro che pregnante e appena abbozzato, non risulta perlomeno posticcio o pedante. Il tutto per arrivare alla costruzione di un tono sottilmente pessimista, dolente e ai limiti del cinico che dona interesse e spessore alla storia.

Ma è nel momento in cui il film compie la sua prima svolta narrativa – quella appunto al Clooney “balia” della giovane collega affetta da collegiale sicumera (Anna Kendrick) e del suo legarsi progressivamente alla bella frequent flyer interpretata da Vera Farmiga – che imbocca una strada dissestata e che conduce poco lontano. Da un lato colpa di alcuni problemi di sceneggiatura, legati soprattutto al personaggio mal disegnato della Kendrick, banalizzano un po’ il tono generale del film assimilandolo a momenti a quello di commedie di tutt’altro registro; da un altro – e sono i problemi più seri – si perde progressivamente lo spirito lieve ma riflessivo che aveva caratterizzato la costruzione della storia e ci si adagia lentamente verso un buonismo consolatorio prima del tutto esplicito - in una parentesi quasi zuccherosa e male integrata al resto - poi solo apparentemente negato “a sorpresa” da un finale vero e proprio che finge di indossare di nuovo quella maschera disillusa che ci era stata proposta all’inizio ma che invece ammicca ad una normalizzazione che spazzi sotto il tappeto le grane fatte emergere in precedenza.

E di conseguenza si vanificano molti i quei pregi di qualità di scrittura, di regia e tematiche che pure il film, nel complesso, riesce (o e riuscito fino a un certo punto) ad offrire.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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