Trust: recensione del film di David Schwimmer con Clive Owen
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    Trust: recensione del film di David Schwimmer con Clive Owen

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    Fra i crimini più oscuri e inquietanti nati nell’era del web, figura certamente l’adescamento dei minorenni tramite Internet. Un sinistro fenomeno che ha provato a raccontare Trust, film del 2010 diretto con grande tatto e in maniera inaspettatamente sobria da David Schwimmer, che i più ricorderanno per il ruolo di Ross in Friends. Il cast è completato dalla presenza di Clive Owen e Catherine Keener nei ruoli dei genitori e della promettente Liana Liberato nella parte della giovanissima protagonista Annie. Il direttore della fotografia è invece Andrzej Sekuła, noto per aver ricoperto lo stesso ruolo in opere celeberrime come Le iene, Pulp Fiction e American Psycho.

    Trust: l’orrore della pedofilia su Internet

    Annie è una ragazza di 14 anni che vive una vita tranquilla e serena insieme alla famiglia. Comincia un rapporto virtuale tramite chat con un certo Charlie, che dice prima di avere 16 anni, poi 20 e infine 25. Dopo diverse settimane e molta insistenza, il ragazzo riesce a conquistare la sua fiducia e a convincerla a incontrarsi. Si danno appuntamento in un centro commerciale, in cui la ragazza scopre che Charlie in realtà di anni ne ha 35. Annie in un primo momento è delusa e arrabbiata, ma si lascia convincere dal maniaco a rimanere, ormai succube dell’infatuazione virtuale scaturita per lui. Quello che accadrà successivamente segnerà per sempre la sua vita e quella della famiglia.

    A differenza di quello che ci si potrebbe aspettare e di quanto avviene in una pellicola con un incipit molto simile, Hard Candy, il cuore del film non è costituito dall’approssimarsi del tragico incontro fra Annie e il pedofilo e da quanto avviene in esso, ma dalle reazioni e dalle conseguenze che tale avvenimento genera in lei e in coloro che le stanno accanto.

    L’elaborazione del dramma

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    Regista e attori sono abili a rendere i differenti modi di reagire al dramma da parte di padre, madre e figlia. La madre Lynn è quella che affronta la cosa nella maniera più razionale, cercando di gettarsi tutto alle spalle e di ricostruire sulle macerie di quanto accaduto, fornendo alla figlia tutto l’aiuto e l’affetto per cercare di superare il trauma. La piccola Annie, anche se sotto shock per quanto è successo, reagisce invece arrabbiandosi con la compagna di classe che ha rivelato il suo dramma e con la famiglia intenta nella ricerca del colpevole. La ragazza si sente ferita dal maniaco più per la sua sparizione dopo l’incontro che per quello che le ha fatto, e si dimostra ancora invaghita di lui.

    Il padre Will sfoga tutta la rabbia per quanto avvenuto e per non essere riuscito a evitarlo in una ossessiva e improbabile ricerca del colpevole con ogni mezzo a sua disposizione, anteponendo la cieca voglia di vendetta al suo lavoro e soprattutto al sostegno che dovrebbe dare alla figlia in un momento così difficile.

    Trust segue col giusto tatto e la perfetta misura un argomento difficile come quello della pedofilia, senza mitigare gli eventi ma non eccedendo neanche nella retorica o in forzature che avrebbero danneggiato la riuscita della pellicola. Una pecca del racconto, decisamente efficace sotto diversi aspetti, è rappresentata invece dai personaggi secondari poco approfonditi e da alcuni avvenimenti di contorno a essi legati, che appaiono inseriti nella vicenda in modo forzato. Nonostante queste incertezza, Trust si rivela un’opera di grande impatto emotivo e con un ottimo approfondimento psicologico dei protagonisti, capace di fare riflettere e di angosciare, anche senza mostrare esplicitamente la violenza. Da non perdere i riuscitissimi titoli di coda, che contribuiscono a rendere ancora più inquietante quanto visto in precedenza.

    Overall
    7/10

    Verdetto

    Nonostante qualche forzatura a livello di trama e una non sufficiente caratterizzazione di alcuni personaggi secondari, Trust convince per il tatto e per la misura con cui racconta le conseguenze di un trauma come quello vissuto dalla giovane protagonista.

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    Confidenza: recensione del film con Elio Germano

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    Confidenza

    Si apre con un uomo intenzionato a gettarsi dalla finestra Confidenza, film con cui Daniele Luchetti torna al grande schermo a 4 anni di distanza da Lacci. Un elemento che riporta immediatamente alla mente L’inquilino del terzo piano, in una delle tante sfumature polanskiane di un vero e proprio thriller psicologico mascherato da dramma familiare borghese, basato sull’omonimo romanzo di Domenico Starnone. Un’opera con cui Luchetti, dopo il già citato Lacci, torna a ragionare sullo scorrere del tempo in relazione al maschio contemporaneo, afflitto in questo caso da un segreto in grado di segnare irrimediabilmente l’immacolata immagine del protagonista.

    Al centro della vicenda c’è Pietro (Elio Germano), professore di liceo che inizia una relazione con la sua ex allieva Teresa (la sorprendente Federica Rosellini). Una relazione improvvisamente stravolta da una sorta di gioco sentimentale in cui i due decidono di confessarsi reciprocamente la più grave azione da loro commessa. Il segreto rivelato da Pietro è così indicibile da minare alla radice la sua relazione con Teresa e da segnare la sua intera esistenza, nonostante gli ottimi risultati conseguiti in ambito lavorativo. Molti anni dopo, la figlia del protagonista Emma (Pilar Fogliati) lavora per fare ottenere al padre una prestigiosa onorificenza da parte del Presidente della Repubblica, introdotta proprio da Teresa, diventata nel frattempo un’acclamata matematica. Fra paura, paranoia e ipocrisia, si riannodano i lacci dell’esistenza di Pietro.

    Confidenza: un inquietante thriller psicologico mascherato da dramma familiare

    Confidenza

    Confidenza è la precisa e ficcante decostruzione di un uomo apparentemente perfetto, attento a costruire un’immagine di professore attento alle necessità dei suoi studenti (parla ripetutamente di pedagogia dell’affetto) e di studioso illuminato (nonostante sostenga più volte di non avere un vero e proprio metodo), ma animato sottopelle da pulsioni contrastanti e dal timore di poter perdere in un attimo tutto ciò che ha raggiunto, proprio a causa di quella confessione concessa a Teresa. La natura di questo segreto rimane sfumata (anche se tutto lascia pensare che si tratti di una violenza sessuale) e si trasforma nel più classico dei MacGuffin, muovendo il racconto in terreni accidentati e a tratti addirittura sinistri.

    La parabola di Pietro attraversa il matrimonio con Nadia (Vittoria Puccini), emblematicamente somigliante a Teresa e matematica come lei, tocca l’ambiguo rapporto con la potente Tilde (Isabella Ferrari) ma torna sempre alla sua ex allieva, che aleggia costantemente sulla sua vita, in bilico fra dolce ricordo sentimentale e inquietante presenza, dai tratti quasi demoniaci in alcune visioni. Elio Germano tratteggia un nuovo personaggio respingente dopo quelli da lui interpretati in Favolacce, America Latina e Palazzina Laf, ma la vera sorpresa è Federica Rosellini, alfa e omega del racconto, al tempo stesso amante, confidente, minaccia e unico pericoloso porto in cui attraccare.

    Un film tutt’altro che consolatorio

    Daniele Luchetti e Francesco Piccolo adattano nuovamente Domenico Starnone dopo La scuola e Lacci, riuscendo nel non facile intento di fare parlare i silenzi, il rimosso e il non detto, ancora più importanti di ciò che in Confidenza viene effettivamente mostrato. Una scrittura accompagnata dalla straniante colonna sonora di Thom Yorke, costantemente in aperto contrasto con la narrazione e perciò perfetta per delineare un uomo che si trova sempre in un posto diverso rispetto alle sue emozioni, come gli dice Teresa, l’unica persona che conosce la sua vera natura. Il risultato è un lavoro prismatico, debordante e a tratti contraddittorio, che rimesta nel thriller, flirta con l’horror ma ripara troppo spesso in stantie dinamiche familiari e in una critica alla borghesia più narcisista ed egoriferita, complessivamente meno interessante di ciò che le sta intorno.

    Non mancano metafore urlate come quella del limone, simbolo per eccellenza della fedeltà in amore che agli occhi di Pietro è sempre marcio, false piste e improbabili what if, che esplodono in un finale di raro coraggio, destinato a fare scervellare gli spettatori sulla vera natura di un racconto circolare, incessantemente in bilico fra realtà e immaginazione. Un’opera tutt’altro che perfetta (il trucco dei protagonisti in alcune fasi delle loro vite lascia a desiderare), che ha però il merito di non essere mai confortante o consolatorio, stimolando al contrario la fantasia dello spettatore e ponendo al contempo scomodi interrogativi su chi siamo, come ci rappresentiamo e cosa desideriamo celare. Il tutto con al centro una figura maschile sempre più fragile, dominata in amore e ancorata solo a maschere in procinto di cadere.

    Confidenza è nelle sale italiane dal 24 aprile, distribuito da Vision Distribution.

    Confidenza

    Overall
    6.5/10

    Valutazione

    Daniele Luchetti firma un angosciante thriller psicologico, tutt’altro che perfetto ma capace di scavare nell’animo dello spettatore.

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    Baby Reindeer: recensione della miniserie Netflix

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    Baby Reindeer

    Siamo ormai abituati a vedere serie accompagnate da una massiccia campagna promozionale e dal finto entusiasmo di content creator opportunamente foraggiati, che nella stragrande maggioranza dei casi si rivelano i classici topolini partoriti dalla montagna, destinati a cadere ben presto nel dimenticatoio. A volte capita però di imbattersi in veri e propri gioielli, capaci di parlare al cuore degli spettatori e di diffondersi quasi esclusivamente grazie alla dirompente forza del passaparola. È questo il caso di Baby Reindeer, serie ideata, scritta e interpretata da Richard Gadd sulla base del suo omonimo one man show, ispirato a sua volta a un’amara e inquietante vicenda di stalking di cui è stato vittima. Un tema sempre attuale e purtroppo familiare a molte persone, afflitte dai comportamenti tossici e possessivi di soggetti mentalmente instabili e incapaci di rispettare i limiti imposti dalla civiltà e dal rispetto nei confronti del prossimo.

    Nel corso di 7 episodi, ci addentriamo nell’abisso esistenziale di Donny (Richard Gadd), giovane barista che nel tempo libero si improvvisa comico, con risultati scarsi e a tratti imbarazzanti. La sua vita, già segnata da traumi passati e da una turbolenta sfera sentimentale, cambia nel momento in cui conosce l’apparentemente inoffensiva Martha (Jessica Gunning), che entra nel bar di Londra dove Donny lavora per bere qualcosa, dichiarando però di non avere i soldi per pagare. Mosso da comprensione e solidarietà umana, il protagonista le offre una tazza di tè. Quella che inizialmente sembra semplice gratitudine e ingenuo interesse sentimentale da parte di una persona chiaramente sola, si trasforma in una vera e propria ossessione, fatta di valanghe di email sgrammaticate e inopportune, insistenti richieste di incontro e continue irruzioni nella vita privata di Donny, con conseguenze emotive devastanti.

    Baby Reindeer: un doloroso viaggio nell’abuso, nel trauma e nello stalking

    Baby Reindeer

    Thriller come Attrazione fatale e Misery non deve morire hanno tratteggiato in maniera raggelante la violenza fisica e psicologica imposta da una donna nei confronti di un uomo, alimentata pulsioni malsane. Baby Reindeer sembra battere gli stessi territori, per poi tramutarsi in un racconto molto più profondo e complesso, che scandaglia le personalità dei protagonisti da diversi punti di vista, generando emozioni contrastanti e contraddittorie nello spettatore. L’ampio minutaggio garantito dalla dimensione seriale è per una volta provvidenziale, e permette a Richard Gadd di riversare in arte il suo torbido vissuto, con una sincerità e una limpidezza invidiabili.

    Quella della “Piccola renna” (nomignolo affibbiato da Martha a Donny, da cui deriva il titolo) non è solo una parabola di paura e dolore, ma anche e soprattutto una lucida riflessione sulla dinamica fra vittima e carnefice, che non è fatta solo di bene e male, ma anche di imperscrutabili zone grigie, in cui il vissuto di ognuno di noi entra prepotentemente in gioco, spalancando la porta a pericoli e sofferenze. Il quarto lacerante episodio di Baby Reindeer offre infatti uno straziante spaccato della vita di Donny prima del suo incontro con Martha, fondamentale per comprendere la sua eccessiva tolleranza nei confronti della sua sinistra spasimante nei momenti iniziali della vicenda. Una digressione narrativa tanto pregevole quanto devastante, che evidenzia la facilità con cui le persone che hanno subito gravi shock possono cedere alle più insidiose lusinghe, faticando enormemente a lasciarsi alle spalle rapporti debilitanti.

    Un racconto autobiografico

    Baby Reindeer

    Con il passare dei minuti e degli episodi, Baby Reindeer sviscera nel dettaglio diversi risvolti della vita di Donny, pressoché incomprensibili se presi singolarmente ma allo stesso tempo fondamentali tessere di un intricato puzzle fatto di violenza, abuso, dipendenza e senso di colpa. Fra le pagine più sconvolgenti c’è sicuramente il rapporto fra Donny e lo sceneggiatore di successo Darrien (Tom Goodman-Hill), una sorta di irraggiungibile modello per un comico fallito come lui, capace però di trasformarsi in temibile minaccia. Di segno opposto è invece il rapporto fra il protagonista e la dolcissima Teri (Nava Mau), donna trans che rappresenta uno dei pochi momenti di luce e speranza nella sua esistenza, vanificato però dal timore di Donny nei confronti di una società retrograda e ancorata a stupidi pregiudizi.

    A dominare sugli altri personaggi che gravitano intorno al protagonista è però la formidabile Jessica Gunning, che riesce nel non facile intento di rendere Martha una villain tanto spregevole e respingente quanto fragile. Il percorso tortuoso e tormentato di Donny lo porta a tollerare e addirittura a entrare in empatia con la sua personalità evidentemente malata, in cui la mitomania viaggia di pari passo con l’invadenza e con la più asfissiante possessività. Martha è al contempo donna goffa e impacciata, folle persecutrice, fredda calcolatrice, bugiarda seriale e amante ostinata. Tante facce di una medaglia che si chiama stalking, fenomeno che è necessario comprendere e contrastare, grazie anche alla mediazione culturale offerta da prodotti come Baby Reindeer.

    Il finale di Baby Reindeer

    Come in Joker, il punto di vista di un comico fallito sulla vicenda non fa che acuire il disagio dello spettatore, costantemente in bilico fra rigetto e profonda empatia per un’esistenza penosa e umiliante. La comicità cercata e quasi mai raggiunta da Donny diventa inoltre fondamentale per uno dei momenti più struggenti di Baby Reindeer, in cui l’esperienza del protagonista è contemporaneamente spunto da stand-up comedy, straziante elemento drammatico e fedele autobiografia dello stesso Richard Gadd. Un cortocircuito fra realtà, finzione e ricostruzione che lascia profondamente scossi, come raramente succede nella serialità contemporanea.

    La storia circolare di Baby Reindeer sfocia in un finale emblematico, che non impone allo spettatore un’unica spiegazione ma lascia invece la porta aperta a più possibilità, rimarcando però ancora una volta la stretta correlazione fra la vittima e il carnefice. Il percorso di Donny ci ricorda infatti che chi ha subito un abuso, un trauma o una violenza porta con sé cicatrici invisibili ma tangibili, che se non analizzate e interiorizzate a sufficienza possono portare a un atteggiamento eccessivamente indulgente o addirittura a comportamenti altrettanto pericolosi e violenti. I ripetuti disclaimer con cui Baby Reindeer invita le persone vittime di stalking o abusi a cercare supporto sono in questo senso più importanti che mai.

    I riferimenti di Baby Reindeer

    Baby Reindeer

    Fra espliciti omaggi a Lost (la mail da cui scrive Martha è ma4815162342@yahoo.com) e alla celeberrima scena del burro di Ultimo tango a Parigi (riproposta brevemente con un’inquadratura analoga), Baby Reindeer scava nell’animo dello spettatore, dando vita al dolente racconto di un aspirante Re per una notte che si ritrova all’inferno, vittima di un’esperienza in cui convivono la vergogna, l’ingenuità, la gentilezza e il bisogno di una goccia di amore in un mare di dolore. Un’esperienza da cui chiunque è separato solo da una semplice tazzina di tè.

    Baby Reindeer è disponibile su Netflix.

    Overall
    8.5/10

    Valutazione

    Baby Reindeer precipita lo spettatore in un inquietante, amaro e indimenticabile viaggio nel contraddittorio rapporto tra vittima e carnefice.

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    Challengers: recensione del film di Luca Guadagnino con Zendaya

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    Fra le migliori sorprese cinematografiche degli ultimi mesi c’è sicuramente Past Lives, triangolo scaleno amoroso semi-autobiografico di Celine Song, incentrato su una donna in bilico fra le sue radici sudcoreane e la sua vita adulta negli Stati Uniti, simboleggiate da due uomini a cui la protagonista è legata da sentimenti diversi e contrastanti. Un racconto struggente che inevitabilmente attinge anche dall’esperienza del marito di Celine Song, Justin Kuritzkes. Quest’ultimo, a sua volta sceneggiatore, è l’autore dello script del nuovo film di Luca Guadagnino Challengers, anch’esso non a caso basato su un sorprendente triangolo amoroso, seppure dalle sfumature diverse rispetto a quello narrato in Past Lives.

    A fare da sfondo alle vicende dei protagonisti in questo caso non c’è il contrasto fra diverse culture ed esperienze, ma un microcosmo chiuso e ben delineato come quello del tennis, teatro di una rivalità che si spinge abbondantemente oltre i limiti del campo da gioco. Gli sfidanti (o ancora meglio I duellanti) in questione sono Art (Mike Faist) e Patrick (Josh O’Connor), amici e talentuosi tennisti che dopo aver vissuto in simbiosi e con discreti successi il periodo giovanile si ritrovano dopo diversi anni in un torneo del Challenger Tour. Una manifestazione di scarsa rilevanza mediatica, che ad Art (divenuto uno dei migliori tennisti del mondo) serve per guadagnare fiducia, mentre per Patrick (che invece naviga nei bassifondi della classifica mondiale) è invece essenziale per sbarcare il lunario.

    A separare i due è stato l’incontro con Tashi Duncan (Zendaya), oggetto del desiderio di entrambi e a sua volta promettente tennista, fermata però da un grave infortunio al ginocchio e riciclatasi come allenatrice del marito Art. Fra continui salti avanti e indietro nel tempo, scopriamo i dettagli di una storia fatta di passione, rivalità e sentimenti repressi.

    Challengers: un torbido triangolo amoroso dentro e fuori dal campo di tennis

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    Photo credit: Niko Tavernise © 2024 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc.

    Dopo le escursioni horror di Suspiria e Bones and All, Luca Guadagnino torna nei territori di Chiamami col tuo nome, firmando una portentosa riflessione sulla giovinezza, sulle sue pulsioni e sui suoi segreti, esaltata dal gioco del tennis e dalle numerose metafore che questo sport sottende, come già mostrato fra gli altri da Woody Allen in Match Point. A tennis si può giocare in 2 o in 4, o eventualmente allenarsi in solitudine. Non si può giocare in 3, come invece cercano di fare i protagonisti di Challengers nella partita della loro vita e dei loro sentimenti turbolenti e cangianti.

    Mentre Chiamami col tuo nome aveva diversi punti di contatto con Io ballo da sola, toccante lavoro della principale fonte di ispirazione di Luca Guadagnino, ovvero Bernardo Bertolucci, Challengers gioca nello stesso terreno di un’altra opera del compianto maestro emiliano, The Dreamers. Un racconto a sua volta figlio di Jean-Luc Godard e in particolare dei suoi capolavori Bande à part e Jules e Jim, pregevole testimonianza di un cinema che reinventa continuamente se stesso, adattandosi ai mutamenti della società, dei sentimenti e del pubblico. In Challengers, lo stile e la personalità di Luca Guadagnino sono però sempre evidenti. Qui convivono infatti la sua vena pop (in passato è stato regista di videoclip per Paola & Chiara, Elisa e altri artisti) e lo sguardo spietato nei confronti dei suoi personaggi e delle loro fragilità, insieme a una palpitante sensualità, acuita da sfumature omoerotiche.

    La formidabile prova di Zendaya

    Challengers
    Credit: Niko Tavernise / Metro Goldwyn Mayer Pictures

    La martellante colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross, che lo stesso regista ha voluto più in linea con un rave party che con una partita di tennis, si fonde con un trionfo di corpi desiderati, esibiti, spezzati e infine ritrovati. La cifra stilistica di un racconto tortuoso e spiazzante, in cui i personaggi spesso si comportano in maniera opposta a ciò che ci si aspetterebbe da loro, pur rimanendo paradossalmente sempre coerenti con se stessi. Josh O’Connor e Mike Faist tratteggiano con invidiabile espressività due personaggi caratterialmente agli antipodi, uniti però dal gioco del tennis e dai loro sentimenti sempre più morbosi e dirompenti. A dominare su tutto e tutti è però Zendaya, finalmente centrale in una grande produzione cinematografica.

    La giovane star statunitense dà vita a una prova poliedrica e ricca di sfaccettature, candidandosi a un ruolo di primo piano nella prossima stagione dei premi. La sua Tashi Duncan è un perfetto equilibrio di contraddizioni: provocante e appassionata ma allo stesso tempo determinata e ambiziosa; oggetto del desiderio e al contempo burattinaia dei due uomini a lei devoti; pallina che idealmente oscilla fra i due lati del campo ma anche racchetta che sa colpire duro i due sfidanti, come in quel «Lo so» in risposta a un «Ti amo», mutuato da Han Solo. Il filo conduttore di una storia nata dal tennis e destinata a concludersi proprio sul terreno di gioco, in uno degli epiloghi più irriverenti e bizzarri visti recentemente sul grande schermo.

    Challengers: un finale irriverente e spiazzante

    Photo credit: Niko Tavernise © 2024 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc.

    Luca Guadagnino si conferma un patrimonio del cinema italiano e internazionale, riuscendo a rendere interessante e spettacolare uno sport che per molti è sinonimo di noia, cornice di una riflessione amara sullo scorrere del tempo, sul deterioramento dei rapporti e sulla circolarità dell’esistenza.

    Challengers è in programmazione dal 24 aprile nelle sale italiane, distribuito da Warner Bros.

    Overall
    8/10

    Valutazione

    Luca Guadagnino firma una riflessione amara sullo scorrere del tempo, sul deterioramento dei rapporti e sulla circolarità dell’esistenza, con il tennis a fare da sfondo a un torbido triangolo amoroso.

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