Maldini parla di Milan e poi denuncia: "Hanno cercato di censurarmi"

Maldini parla di Milan e poi denuncia: “Hanno cercato di censurarmi”

Come riportato dall’ANSA, ci sarebbe uno sviluppo clamoroso riguardo all’intervista rilasciata da Paolo Maldini lo scorso 9 maggio a Radio Serie A.

L’ex difensore e dirigente del Milan ha parlato ai microfoni di Alessandro Alciato in una lunga chiacchierata apparentemente priva di strascichi.

Ma così non è stato. Lo stesso Alciato nelle ore seguenti aveva pubblicato diverse storie accusando di aver ricevuto “pressioni per non mandare in onda” l’intervista con Maldini, anche se non aveva specificato da chi provenissero quelle pressioni.

Scrive l’ANSA che attraverso l’avvocato Danilo Buongiorno, Maldini ha “comunicato di aver già nominato il proprio legale per tutelarsi da comportamenti gravi ingiustamente subiti”.

Nella nota inviata all’agenzia di stampa dallo stesso Buongiorno per conto di Paolo Maldini, l’avvocato “diffida chiunque dal ripetere tali comportamenti e si riserva, se necessario, ogni azione a tutela del proprio assistito; e in difesa del diritto fondamentale alla libertà di espressione”.

Sarà interessante vedere se la vicenda finirà qui o se uscirà una risposta da parte di chi ha cercato effettivamente di censurare il dirigente nella sua intervista

Ma cosa ha detto Maldini nel corso della sua intervista. Qui vi riportiamo le parole integrali dell’ex leggenda rossonera a Radio Serie A.

L’intervista integrale di Maldini

“Il calcio è sempre stato presente. Il Milan è sempre stata la squadra della mia città, l’ambiente in cui sono cresciuto e per me è qualcosa che va oltre il tifo e il lavoro. È sempre stato così e sarà sempre così, questo rapporto che esiste va oltre gli anni trascorsi in questa grande squadra e sarà così anche per i miei figli.

“Sicuramente il calcio e il Milan mi hanno insegnato molto in termini di valori e principi e quando lavori per questo club devi tenerne conto perché va oltre il risultato. Quando si parla di una storia che risale a oltre un secolo fa, è necessario conoscerla e studiarla. Sono felice di avere 20 anni, ma la mia storia inizia negli anni ’50 con mio padre e continua ancora oggi perché Daniel [Maldini] è ancora sotto contratto”, ha detto Maldini.

Sul figlio Daniel

“Purtroppo per Daniel è un destino dal quale non c’è scampo. Erano innamorati di questo sport e nei primi anni la cosa che vuoi fare da ragazzo è divertirti e quando ci sono tante aspettative si perdono un po’. Sapeva di aver visto a cosa andavo incontro, si sono divertiti e fanno tutto con passione. È democratico e solo chi ha valori come me e mio padre può andare avanti”.

Il passato da juventino

“Mi piaceva il calcio, conoscevo il passato di mio papà e capivo cosa aveva fatto, ma la prima competizione che ho visto da appassionato di calcio è stato il Mondiale del ’78 che era praticamente Juventus più Antognoni. Quindi ho seguito la Juventus come se fosse la Nazionale, ma poi ho fatto il provino per il Milan e da lì è iniziata la mia storia.

Io sono Leggenda

“Di recente, durante la pandemia, ho allestito un palco con le medaglie che avevo nei cassetti. Primo e secondo anno di Serie AI hanno realizzato una collezione di maglie bellissime. Poi ho smesso e non so nemmeno perché. All’inizio avevo 17 anni e non sapevo se sarebbe andata bene, poi quando l’ho capito ho regalato vari cimeli come le maglie di Maradona, di Platini…”

Essere calciatore e dirigente

“Mi considero semplicemente Paolo, ringrazio la famiglia che ho avuto, ho conosciuto le persone giuste. Anche la mia ultima esperienza da regista mi ha fatto apprezzare cose che non sapevo. Nel calcio pensi di sapere tutto, ma quando passi dall’altra parte hai una prospettiva completamente diversa. Cose che dicevo da calciatore, poi quando sono passato a regista avrei voluto cancellarle”.

“I milanesi si sentono perfetti per Milano perché ti permette di vivere e camminare. Non è una città che vedi e dici wow che bella. Non è una grande città, è tutta da scoprire, ti fa innamorare poco a poco. Vedo in Milano tante caratteristiche che sono mie. Sono discreto e riservato e in questo vedo la città. Poi al Milan ho ritrovato la mia famiglia e la possibilità di giocare in una squadra con le mie stesse ambizioni. Senza Berlusconi probabilmente sarei andato altrove. Il mio posto preferito? Casa. Ma mi piace andare in zone come Brera”.

I suoi inizi

“Ricordo bene che si poteva fare il provino solo dopo i 10 anni. Prima avevo giocato solo nel cortile e all’oratorio. Non avevo mai giocato a 11 su un campo regolamentare. Non lo sapevo, perché ai giardini si giocava ovunque. Ho chiesto quale posizione fosse disponibile, hanno detto “di destra” e ho detto OK. Alla fine del provino mi hanno fatto firmare il cartellino in campo. I primi due anni ho giocato alternativamente ala destra e ala sinistra. Poi intorno ai 14 anni mi hanno spostato a terzino e quando ho compiuto 16 anni ho fatto il mio primo ritiro con altri ragazzi con Liedholm. C’era tanto talento in quella Primavera, [Alessandro] Costacurta, [Giovanni] Stroppa, [Fabrizio] Ferron… Quel provino fu l’inizio della mia storia con il Milan, fino a quel momento lì ero legato al Milan per quello che l’aveva fatto mio padre.

Il suo ruolo da giovane

“Mi piaceva il ruolo di esterno, mi piaceva dribblare e attaccare. Finché sei giovane puoi sviluppare tutto, le prime tattiche le ho fatte in prima squadra, da ragazzino c’era solo l’1 contro 1 in attacco e difesa e se non le impari in quegli anni non le impari non impararli più. La strada, i giardini, mi hanno insegnato tanto. Il tempismo che avevo con la palla era dovuto non solo a caratteristiche personali, ma anche a tutti quei rimbalzi che vedevo su tutti quei campi sconnessi. C’è sempre tempo per imparare la tattica, sempre meno la tecnica, anche in marcatura. Una volta ho visto, quando Daniel ha iniziato a giocare e aveva sette anni, per un anno si è limitato a dribblare e uno contro uno. E mi sono detto: ‘è intelligente, bisogna insegnarglielo’. A lui è piaciuto, ma anche al difensore. Quella capacità di non aver paura di tenere la palla e di farsi pressare è fondamentale anche per i difensori”.

Niels Liedholm

“[Niels] Liedholm mi ha detto ‘Malda entra’, mi ha chiesto se volevo giocare a destra o a sinistra e io ho risposto ‘come preferisci’. Il campo era brutto, ma per me è stato magnifico. Sono più attaccato dentro ai rapporti con le persone piuttosto che ai momenti stessi. La cosa bella è che devi condividere gioie e dolori con altre persone. Liedholm mi ha insegnato a giocare a calcio. Mi diceva sempre che per giocare a calcio devi divertirti”.

I calciatori di oggi

“C’è una competizione pazzesca con gli altri, tanti ci provano e il 98% fallisce. È dura, ma è anche bella. Ognuno a modo suo, ogni calciatore sa che è passione e gioia”.

Cosa ti ha portato via il calcio?

“Mi ha portato via forse un pezzo della mia giovinezza quando ero ragazzino e non uscivo mai perché dovevo giocare. Ma non si può dire che mi abbia tolto qualcosa. La mia disciplina è iniziata lì, è stata una mia scelta e mi ha dato tanto. Una cosa che mi ha tolto è stata la mia integrità fisica. A 41 anni ho giocato tre anni con gli amici, ma oggi calciare un pallone mi fa male, potrebbe essere molto pericoloso. Giocare a tennis non mi fa così male”.

Berlusconi e le altre personalità

“Ha portato un’idea moderna e visionaria non solo del calcio ma del mondo. Il primo discorso nella sala da pranzo di Milanello ci disse che voleva che la nostra squadra giocasse il calcio più bello del mondo, lo stesso in casa e in trasferta, e che presto saremmo diventati campioni del mondo. Dall’anno successivo, a causa dell’arrivo del primo, tutto cambiò. Ha preso allenatori, ha costruito strutture per competere con i migliori del mondo. C’è sempre tanta diffidenza verso l’imprenditore che entra nel calcio. [Arrigo] Sacchi poteva creare qualche dubbio e lo ha fatto, ma poi ci siamo resi conto dei grandi vantaggi”.

Un rapporto logoro con Berlusconi?

“La sua impronta è ovunque. Mi piaceva molto la sua idea di provare a giocare bene, cercando di vincere e rispettando l’avversario. Diceva che se non vince il Milan sono contento che vinca l’Inter. Certo c’è rivalità, ma l’idea di essere onesti e arrivare al risultato sacrificandosi e complimentandosi con un avversario se è migliore di te è una lezione. Quel rapporto non si è mai logorato, abbiamo fatto tanti scherzi, sono diventato amico di PierSilvio e mi ha sempre trattato come un secondo padre. Quando è stato ricoverato mi ha chiamato perché voleva fare degli scambi Milan-Monza ed è stato divertente. Il calcio lo ha accompagnato fino all’ultimo momento e questo si sente e si trasmette a tutti, ambiente, città, luoghi e persone”.

Arrigo Sacchi

“Ci siamo messi a disposizione di Sacchi, ma è stata molto dura fisicamente e mentalmente. La conoscenza c’era, ma ancora non abbastanza. Allora mi sono allenato costantemente per mesi. Dovevamo ancora calibrare. I giovani hanno meno stabilità di rendimento e ci sono stati tanti alti e bassi e dentro ti chiedi se stavi andando bene oppure no. L’aggiustamento è arrivato lentamente. Spesso arrivavo venerdì e mi dicevo ‘ma come faccio a giocare domenica?’. Tutto questo però ha alzato il livello, ce ne siamo accorti dopo un mese e mezzo, quando abbiamo vinto a Verona sentendo qualcosa di diverso nelle gambe. Non c’era corrente contro di lui, era solo difficile adattarsi”.

Vincere con il Milan

“Il Milan in quegli anni aveva una grande squadra e la miglior difesa del mondo pronta e in attesa. Quando trovi una persona così esigente che deve gestire un gruppo, è un progetto che ha una scadenza. Quando vivi in ​​modo così ossessionato non duri a lungo. Sto parlando di Conte? No, ma per lui è lo stesso, se senti parlare i suoi giocatori te lo dicono”.

Fabio Capello

“Era un giocatore in panchina. Ti diceva sempre cosa fare in campo durante l’allenamento. Ha continuato il lavoro di Sacchi ma ha rallentato i ritmi e abbiamo avuto 25 giocatori di altissimo livello, ma ha aggiunto un minimo di praticità ad un concetto utopico come quello di Sacchi. Liedholm, Sacchi, Capello in quest’ordine sono stati fortunati”.

L’essere capitano

“Ero già da tre anni capitano della Nazionale ed ero abituato. Farlo al Milan è stato qualcosa di diverso ed è stato un momento difficile per il club, ma è stato bello. Ho parlato poco, ero molto riservato, ma il ruolo lo impone e bisogna impararlo”.

I trofei

“Sono tutti bellissimi, sicuramente il primo da ventenne. La fortuna però è che sono state vinte in 20 anni. Quello di Manchester dopo nove anni che non vincevamo era il più ambito da capitano”.

Carlo Ancelotti

“La prima cosa che ci siamo detti è stata: ‘Come ti devo chiamare?’ e poi è stato tutto naturale. Si pensa che Carlo sia la persona più calma del mondo e lo è. Ma lui non è proprio così, prima delle partite spesso si sedeva accanto a me e mi diceva che era molto nervoso ma poi mi guardava e si calmava.

Il giocatore più forte

“Come forza morale e caratteristiche difensive, Franco Baresi era un giocatore pazzesco. Era perfetto. Poi Marco van Basten che è stato incredibile. Poi tanti giocatori sono arrivati ​​in momenti non proprio idilliaci, ma erano fortissimo come Ronaldo e Ronaldinho”.

Avversari e rimpianti

“Il miglior avversario? Il Ronaldo dell’Inter era qualcosa di impossibile. Mi piaceva fare quello che dice all’avversario: uno contro uno dai, ma con lui non si poteva fare. Era grande, veloce, tecnico, molto difficile.

La possibilità di lasciare Milano

“Non ci sono state offerte rifiutate di cui mi pento, al massimo ci sono stati momenti delicati all’interno del mio club. Difficile dire di no al Real Madrid? Difficile se non ti trovi bene al Milan, ma non c’era niente di meglio del Milan”.

Finali perse

“Il Pallone d’Oro? Per me non è un rimpianto. Non ho mai vinto né il Mondiale né l’Europeo, erano questi gli obiettivi che mi ero posto. Ho detto che sono stato il più grande perdente della storia? Sì, faceva parte di un discorso più ampio. Ho perso nove finali nella mia storia, e sono tante… Istanbul è un rimpianto? No, dopo Istanbul c’è sempre Atene”.

Coppa del Mondo 2006

“Ho giocato quattro Mondiali, non ho rimpianti. [Marcello] Lippi venne a parlarmi e in quell’anno con i problemi al ginocchio faticavo a far fronte al doppio impegno. Avevo detto no a Trapattoni per l’Europeo 2004 e non mi sembrava giusto dire sì a Lippi dopo”.

Ritorno a Milano come regista

“Mi hanno chiamato e quando è arrivata l’occasione è stato un po’ prima di quanto mi aspettassi. Quando si è trattato di Leonardo è stato perché lavoravo con qualcuno che aveva i miei stessi ideali. Perché ho scelto questo ruolo? Perché era Milano. Il lavoro in sé è abbastanza diverso da quello che ti aspetti e mi ci sono voluti circa dieci mesi. O il Milan, o la Nazionale, o niente? La regola vale per l’Italia perché vedendomi in un club diverso dal Milan non posso farlo”.

Il passaggio al Psg?

“Non ho mai detto no al PSG, c’era questa possibilità e disponibilità, ho incontrato Nasser Al Khelaifi due volte, ma poi non è mai andata avanti e andava bene così. I miei primi 10 mesi sono stati un disastro, tornavo a casa e non ero felice. Leonardo rise e mi disse che non capivo quanto stavo diventando importante”.

Non andrò a San Siro

“Non vado allo stadio per vedere il Milan. Per me è logico. Seguo tutto, seguo Milan e Monza, ma mi sembra logico non andare allo stadio”.

Theo Hernandez e Rafael Leao

“Quando vedo la sinistra del Milan beh è uno spettacolo”.

I segreti del successo dell’Inter

“L’Inter ha una struttura sul versante sportivo. C’è un’idea chiara con i contratti lunghi. Si dà sempre poca importanza alla gestione del gruppo, non è un caso che il Napoli sia andato così male dopo l’uscita di Spalletti e Giuntoli. Tutti i giocatori li considerano delle macchine, ma hanno bisogno di qualcuno che parli con loro e gli spieghi come stanno le cose”.

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