Il 22 luglio 2011 l'estremista di destra Anders Breivik uccise a colpi d'arma da fuoco 69 giovani tra i 12 e i 20 anni che si trovavano sull'isola di Utøya (a 30 chilometri da Oslo) per un campeggio dell'organizzazione giovanile del Partito Laburista. Poco prima un'autobomba posizionata dallo stesso Breivik era esplosa nel centro della capitale, poco lontano dall'ufficio del Primo Ministro, uccidendo 8 persone e ferendone 209. In totale gli attentati, organizzati e realizzati dal solo Breivik, uccisero 77 persone e ne ferirono 319. Si trattò dell'atto più violento avvenuto sul suolo norvegese dopo la Seconda guerra mondiale.

Il film che esce oggi su Netflix si chiama appunto 22 luglio ed è stato presentato in concorso alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia. Lo ha diretto Paul Greengrass, regista inglese che difficilmente sbaglia un colpo, famoso per aver diretto tre film della trilogia di Bourne ma che in realtà ha costruito la propria carriera principalmente sulle ricostruzioni di eventi drammatici della storia recente, da Bloody Sunday a United 93 (sul "quarto volo" dell'11 settembre, quello in cui i passeggeri si ribellarono ai dirottatori costringendoli a schiantare l'aereo in una radura invece che sul Campidoglio o sulla Casa Bianca).

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Courtesy Netflix

A differenza di Utøya 22. juli, film produttivamente più piccolo sullo stesso argomento che pochi mesi fa ha raccolto gli elogi della critica al Festival di Berlino, 22 luglio non si concentra sulla strage in sé, che viene mostrata abbastanza in fretta nel primo terzo del film. Parla soprattutto di eventi successivi: l'arresto e il processo a Breivik, e il difficile percorso di riabilitazione fisica e morale di uno dei giovani feriti, Viljar Hanssen.

Il film non è quindi una di quelle ricostruzioni di impegno civile che trovano la loro principale ragion d'essere politica ed estetica nella precisione con cui le vicende storiche vengono riproposte, come appunto Bloody Sunday dello stesso regista o - per fare un esempio recente sempre in casa Netflix - l'italiano Sulla mia pelle sulla vicenda di Stefano Cucchi. 22 luglio è invece un film di drammaturgia, che racconta in modo a tratti perfino intimista come i diversi personaggi - carnefice, vittime e altre persone coinvolte a vario titolo - fanno i conti con le conseguenze di una violenza così aberrante.

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Courtesy Netflix

Come dicevamo Greengrass è uno dei registi e sceneggiatori più solidi in circolazione, e anche in questo caso il film ha una struttura ferrea e un andamento che procede col contagiri. Per riuscire a fare il film che vuole Greengrass affida il punto di vista cruciale, quello delle vittime, a un sopravvissuto e alla sua famiglia. I morti e lo strazio dei loro cari rimangono quindi ai margini del racconto, una scelta non banale e che alcuni potrebbero ritenere addirittura spregiudicata, ma che alla luce del risultato appare quasi inevitabile. Bastano le sequenze iniziali in cui i genitori di Viljar ricevono la notizia della strage e cercano disperatamente notizie dei figli tra punti di soccorso improvvisati e ospedali a farci capire che, se la macchina da presa venisse puntata altrove, sulle coppie che a differenza degli Hanssen non vedranno più in vita i figli di 15 o 16 anni, il lutto invaderebbe lo spazio del racconto e si mangerebbe il film.

Greengrass invece cerca punti di vista periferici per fare un film sul dovere e sulla guarigione, e su come gli uomini fanno i conti con l'irrimediabile. Geir Lippestad, famoso avvocato di idee progressiste, si trova costretto per dovere professionale ad accettare di difendere Breivik. Viljar vorrebbe lasciarsi la tragedia alle spalle, ma deve misurarsi con il dovere morale di incontrare di nuovo Breivik per testimoniare contro di lui. I suoi genitori vorrebbero tornare alla normalità ma sono costretti a rivivere il trauma attraverso il difficile recupero del figlio e le diverse fasi del processo.

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Courtesy Netflix

22 luglio è quindi se vogliamo una tragedia nel senso più stretto e antico del temine, ovvero un racconto basato su fatti terribili in cui ciascun personaggio è vittima di un destino che non ha scelto. La catarsi per lo spettatore arriva quando i protagonisti scelgono di accettare questo destino e di compiere il loro dovere, ripristinando l'ordine esistenziale e simbolico che la forza caotica, mortuaria e distruttiva incarnata da Breivik aveva sospeso.

Il killer è interpretato benissimo da Anders Danielsen Lie, e l'asciutta descrizione del suo mostruoso narcisismo - che viene dritta dall'ottimo libro Uno di noi della giornalista Åsne Seierstad, su cui 22 luglio è parzialmente basato - è uno degli aspetti del film che restano più impressi. Per un bel pezzo il film sembra volerci suggerire che il male assoluto non è molto diverso dal bene, anche lui pensa di fare il suo dovere, ma il finale suggerisce che a definire il male è proprio la debolezza morale di scambiare per dovere il compiacimento sanguinoso della propria ossessione per sé stesso.

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Stefano Piri

Nato a Genova nel giorno in cui a Bel Air morì Truman Capote, dopo un lungo percorso di autocoscienza si è rassegnato all’idea che si tratta solo di una coincidenza. Laureato in Relazioni Internazionali e diplomato alla Holden ha lavorato a lungo nelle istituzioni europee, scrivendo nel tempo libero per L’Ultimo Uomo, Minima et Moralia, Pandora e altre testate. Nel 2018 entra nella redazione di Esquire Italia, di cui oggi è Digital Managing Editor. Ha scritto anche due libri e qualche sceneggiatura.